Repubblica 10.5.16
Golpe l’ultima tentazione del potere
La democrazia ha vinto. Ma lo Stato di diritto resta un nemico per le destre
di Ezio Mauro
IN
PRINCIPIO, naturalmente, c’era il Regno dei Cieli. Ma subito sotto, il
primo re nel mondo degli uomini fu Nemrod figlio di Cus che era figlio
di Cam, uno dei tre figli di Noè. Lui, gran cacciatore al cospetto del
Signore, «fu il primo a esercitare il potere sopra la terra» e il suo
regno cominciò a Babel e proseguì in Assiria, dove costruì Ninive e la
città grande di Resen. Nelle stesse pagine sacre della Bibbia insieme
con il nome del primo sovrano è iscritto il primo colpo di Stato che fu
di un figlio contro un padre, quando Assalonne si ribellò al re Davide,
lo costrinse a fuggire da Gerusalemme piangendo a piedi nudi con il capo
velato, seguito dai familiari con tutti i leviti che portavano l’Arca
di Dio: finché in battaglia nella foresta di Efrain l’esercito ribelle
fu sconfitto e tre giavellotti colpirono nel cuore Assalonne, uccidendo
il primo golpista della storia.
Più che con un “putsch” nel senso
classico del termine, dopo il diluvio il mondo della politica cominciò
così con un’”intentona”, come in Sudamerica chiamano i golpe falliti. La
storia politica dell’umanità è dunque segnata fin dal suo inizio dal
sangue versato per rovesciare il sovrano o per difenderlo perché il
comando — dalle tribù agli Stati — porta da sempre con sé il volto
demoniaco.
Ovvero il lato oscuro di quel trono che si mostra in
pubblico ai sudditi illuminato dai bracieri e profumato dagli incensi.
In quell’oscurità degli “arcana imperii” si muovono trame, congiure,
tradimenti, complotti, giuramenti e presagi, insieme con le ambizioni,
le paure, le ribellioni che nei millenni hanno agitato i Principi e il
popolo portandoli a temere e concepire il colpo di Stato, strumento
comune di lotta politica in ogni era e a ogni latitudine, ben prima che
nascesse il concetto stesso di Stato nel senso moderno del termine.
Esattamente,
infatti, il colpo di Stato è «un’azione ardita e straordinaria che i
principi sono costretti a mettere in pratica per affari senza via
d’uscita, con–
tro il diritto comune e senza tener conto di alcun
ordine né forma di giustizia». La diagnosi è del bibliotecario di
Richelieu e Mazarino, Gabriel Naudé, che nel 1639 pubblica in dodici
esemplari le Considerazioni politiche sui colpi di Stato, un’analisi
erudita e libertina degli strumenti eccezionali usati in circostanze
particolari per difendere nel sangue il trono o per abbatterlo.
Naudé
scrive un secolo dopo il Principe e alla fenomenologia delle congiure
di Machiavelli oppone una vera e propria teoria del golpismo, in
particolare di quello che si chiamerà poi l’”autogolpe”, cioè l’atto di
forza compiuto dal potere sovrano per salvaguardare se stesso. Una
teoria completa e sorprendente, che si apre col consiglio di San Tommaso
ai tiranni (uccidere i ricchi, i potenti e i sapienti, non permettere
scuole e conoscenza, creare scompiglio nel popolo, rendere poveri i
sudditi, diffidare degli amici) e finisce con un vero e proprio manuale
per l’uso del colpo di mano, dall’individuazione dei congiurati alla
tempistica, all’inganno: «La più grande virtù che regna nelle corti è
diffidare di tutti e dissimulare con ciascuno».
Le Considerazioni
abbondano di esempi storici che raccontano come il “colpo” sia stato per
secoli una risorsa politica comune, che non occorreva né spiegare né
giustificare: quando Periandro, tiranno di Corinto, chiede come rendere
sicuro il suo regno a Trasibulo, tiranno di Milito, quest’ultimo senza
parlare va nel campo e tronca le spighe più alte: Poliandro capisce e fa
uccidere i cittadini più illustri di Corinto. Ma spesso il potere e il
contropotere insieme con la spada si servono del sacro, fingendo di
essersi assicurati il favore del Cielo con inganni, visioni e
superstizioni, con Silla che illustra il sostegno di Apollo alle sue
azioni, Sertorio che riceve dalla sua cerva il racconto di ciò che si
decide nel cenacolo degli dei, Carlomagno che entra in Spagna con la
grande chiave caduta dalle mani di un vecchio idolo, come voleva la
profezia. Tutte le monarchie, dice Naudé, hanno preso avvio da qualche
espediente o soperchieria, «facendo marciare la religione e il miracolo
in testa a un lungo seguito di barbarie e di crudeltà ».
D’altra
parte, nei “coups d’Etat” è bene che tutto si faccia «di notte,
all’oscuro, tra le nebbie e le tenebre » pregando la dea Laverna di
coprire col buio i peccati dei congiurati, occultando le loro frodi. Si
deve sentir «cadere il fulmine prima di udire il brontolio del tuono»,
scegliendo i mezzi più facili, svelando il piano ai congiurati solo
all’ultimo, manipolando intanto il popolo con predicatori o libelli
clandestini, in modo «da condurlo per il naso» dove si vuole, diffidando
sempre perché il popolo è incostante è variabile, continuamente pronto a
approvare e disapprovare insieme, a mormorare, a credere con leggerezza
e lamentarsi all’improvviso. Ai congiurati servono «fortezza,
giustizia, prudenza», per sfruttare le minime occasioni propizie, come
Druso che riuscì a soffocare una rivolta delle legioni in Pannonia
usando lo sconcerto provocato da un’eclissi di luna.
Inganno,
sangue, frode. E qui le Considerazioni sfiorano e citano la
teorizzazione di Giovanni Botero, che nel 1589, mentre lavora da ex
gesuita alla Congregazione dell’Indice nella Curia romana si domanda per
primo cosa sia la ragion di Stato e risponde che «è notizia di mezzi
atti a fondare, conservare e ampliare un dominio fermo sopra popoli».
Siamo alle soglie della moderna realpolitik, esasperata dalla violenza
tipica dei colpi di Stato: la strada di chi detiene il potere — dice
infatti il bibliotecario di Richelieu — «è più larga e più libera» di
quella dei sudditi a causa della responsabilità che pesa sulle sue
spalle. Per questo il sovrano può marciare con passo sbilenco e
irregolare, perché «talvolta occorre che nasconda e deformi». È la
teorizzazione della possibilità di trasgredire il diritto comune per il
cosiddetto bene comune, valutato spesso a posteriori, da chi ha vinto. È
quasi la teorizzazione dello “stato d’eccezione” di Carl Schmitt (il
sovrano non è il garante dell’ordinamento ma colui che lo crea a partire
dall’eccezione), con Naudé che ammette interventi straordinari fuori
dal «diritto delle genti» e dalle leggi ordinarie per un interesse
pubblico supremo. D’altra parte, spiega con lo scetticismo dei
libertini, bisogna spesso servirsi «di una giustizia artificiale,
politica, rapportata al bisogno dei governi, perché essa è abbastanza
cedevole e molle da sapersi adattare».
Ci vuole teoria, sembra
dire Naudé, dunque studio e scienza per un buon golpe. Ci vuole
soprattutto metodo, risponderà nel 1931 Curzio Malaparte, nel suo
insuperato Tecnica del colpo di Stato (Adelphi), proibito all’uscita da
Mussolini e da tutte le dittature europee. Il problema della conquista e
della difesa dello Stato moderno non è un problema politico ma
squisitamente tecnico, dice Malaparte, un’arte specifica che non dipende
dalle condizioni generali del Paese come credeva Lenin ma dalla
capacità di organizzare l’insurrezione, come capì Trotsky, che infatti
mentre Kerenskij difendeva i palazzi di Stato infiltrò con le sue
“esercitazioni invisibili” le guardie rosse nei gangli dei servizi
tecnici di Pietrogrado, dalle stazioni alle centrali dei telefoni, ai
gasometri, ai telegrafi, collassando la città prima del governo. Il puro
contrasto militare, come anche l’attacco di massa, non funzionano più:
gli Stati si rovesciano e si difendono con una tecnica specifica che
ogni dittatore aggiorna a se stesso, con Napoleone che pretende di
compiere con la forza delle armi una rivoluzione parlamentare, Mussolini
che si impadronisce dello Stato «molto prima dell’entrata delle camicie
nere nella capitale» con una tecnica rivoluzionaria violenta che in tre
anni porta il fascismo a fare il vuoto intorno a sé cancellando ogni
forza organizzata politica o sindacale, proletaria o borghese.
Gli
Stati dunque non si salvano e non si perdono con la tattica fondata sui
sistemi di polizia, con i quali Cicerone sventò la congiura di
Catilina. E in ogni caso conviene tener presente l’ammonimento di
Machiavelli, per cui la congiura è «difficile e pericolosissima in ogni
sua parte, donde ne nasce che molte se ne tentano e pochissime hanno il
fine desiderato ». Si capisce il vincolo quasi sacro che unisce per la
vita e per la morte i congiurati, con Catilina che nel racconto di
Sallustio «fece girare delle tazze con dentro sangue umano misto a vino»
e solo quando tutti ebbero bevuto svelò il suo piano, dopo
l’”exsecrationem” rituale con cui si maledicevano i traditori. Il
segreto resta il fondamento della congiura, a differenza del mistero e
dell’occulto in cui affonda invece il complotto, secondo la distinzione
di Alessandro Campi e Leonardo Varasano in Congiure e complotti. Da
Machiavelli a Beppe Grillo (Rubbettino) per cui i colpi di Stato
avvengono nella storia, con soggetti definiti e individuabili, mentre le
cospirazioni complottistiche sono teorie e costruzioni astratte con
soggetti indefiniti e entità misteriose. Una distinzione
intellettualmente convincente, se non fosse che lo specifico del nostro
Paese presenta una storia in cui abbondano negli snodi criminali proprio
quei “soggetti indefiniti” e quelle “entità misteriose”, di cui spesso
conosciamo solo le sigle e la ragione sociale eversiva, in debito come
siamo di verità.
Verrebbe da concludere che nella parte di mondo
in cui viviamo la democrazia ha vinto e nessuno pensa più ai colpi di
Stato. Ma se guardiamo oggi all’Europa di mezzo, vediamo che la nuova
destra considera proprio i valori liberali dello Stato di diritto i
principali avversari, non i valori giacobini. E ovunque, in Occidente,
la democrazia esausta rischia di ricordare quelle conchiglie di spiaggia
perfette nella loro forma esterna, mentre all’interno l’organismo sta
morendo. D’altra parte proprio l’uomo di Richelieu ci ricorda che «le
leggi ci perdonano i delitti che la forza ci obbliga a commettere». E
non consola nemmeno pensare che c’è poca forza oggi nella politica
occidentale, manca una leadership capace di concepire l’inconcepibile in
democrazia. Perché vale sempre il monito di Malaparte: le risorse della
mediocrità sono inesauribili.