Repubblica 10.5.16
A chi tocca spegnere le fiamme
Uno scontro sul referendum che divampa senza controllo e che incendia i mesi di qui a ottobre sarebbe devastante
di Stefano Folli
COME
ha detto di recente il presidente della Repubblica, il conflitto fra
magistratura e politica «genera sfiducia e indebolisce entrambe». Non è
una novità, anzi è un tema su cui Mattarella insiste da tempo, sempre
nel suo stile sobrio e anti- mediatico. Il fatto nuovo è che in queste
ore si lavora alla ricerca di un punto di equilibrio, o se si preferisce
di un compromesso. Con l’attiva mediazione affidata al vicepresidente
del Csm, Legnini: una figura che, quando parla o prende un’iniziativa,
agisce ovviamente di stretta intesa con il Quirinale. Ed è a sua volta
sostenuto da un altro vertice istituzionale qual è il presidente del
Senato.
In termini politici, la mediazione si può forse riassumere
così: i singoli magistrati e a maggior ragione i loro gruppi
organizzati, le correnti, eviteranno di fare della campagna sul
referendum costituzionale di ottobre una prova di forza contro il
governo. È un principio che non nasce certo oggi, ma che è stato troppo
spesso disatteso. Come nel referendum del 2006 sulla riforma Calderoli:
allora sulla graticola c’era Berlusconi e la sinistra era schierata
compatta per il “no”. Che infatti prevalse: in quelle circostanze la
partecipazione di diverse categorie, compresi i magistrati, fu
giustificata con la necessità di “difendere la Costituzione del ‘48”,
che le modifiche introdotte dal centrodestra avrebbero stravolto.
Oggi
le parti si sono rovesciate. Chi vuole riformare la Carta è Renzi,
talvolta con una foga che tende a trasformare il referendum in un
improprio plebiscito; chi si oppone appartiene a un variopinto ventaglio
parlamentare oppure è fuori del Parlamento, come la magistratura, ma è
abituato a svolgere un ruolo di forte pressione e influenza politica.
L’idea che tutti rientrino nei ranghi e rinuncino agli spazi conquistati
negli anni, è probabilmente ottimistica; tuttavia l’ipotesi opposta,
ossia uno scontro che divampa senza controllo e che incendia i mesi di
qui a ottobre, sarebbe devastante.
Ecco allora che il Quirinale
sta chiedendo ai magistrati, specie ai più attivi e “politicizzati”, di
muoversi con prudenza e di non superare la soglia di sicurezza
nell’impegno pubblico. Non si tratta di rinunciare alle proprie idee in
materia costituzionale — sarebbe un controsenso — ma di resistere alla
tentazione di farne una bandiera di battaglia. Al tempo stesso — ecco il
secondo corno del compromesso — la politica deve evitare i toni di
sfida verso i magistrati. Tantomeno deve apparire un fortilizio che
difende se stesso con le unghie e coi denti. Sarebbe un assurdo salto
indietro nel tempo. Renzi sembra accettare ora l’idea che esiste una
questione morale all’interno del Pd. Riconoscerla non è un atto di
debolezza, ma di forza.
È chiaro che il punto dell’onestà è troppo
ghiotto per restare estraneo alla campagna elettorale (stavolta si
parla di voto amministrativo). I Cinquestelle sono impelagati nel caso
Livorno ed è logico che il Pd cerchi di alleggerire la propria
posizione. Quel «Nogarin non si deve dimettere per un avviso di
garanzia», detto da Renzi a proposito del sindaco grillino di Livorno, è
insieme una frase maliziosa e un modo per coprire se stesso, visto che
nessuno nel Pd si dimette, nemmeno Soru dal Parlamento europeo dopo la
condanna in primo grado. Ma per il M5S è diverso, avendo fatto del
giustizialismo il proprio vessillo. Contraddizioni dell’agire politico,
specie quando si amministra.
Renzi ha compiuto dunque un gesto di
rilievo nell’ammettere la questione morale all’interno del
centrosinistra. L’importante è che sia l’inizio di una strategia, al di
là del voto di giugno. Questione morale vuol dire opera di pulizia nelle
amministrazioni. Vuol dire anche non gridare al “complotto” quando la
magistratura indaga e semmai cercare di cooperare (esistono anche casi
come quello di Penati, processato e assolto, come ricordava ieri Luciano
Violante sulla “Stampa”). Sull’altro piatto della bilancia ci si augura
un ordine giudiziario che non considera potenziali corrotti tutti i
membri della classe politica, come si lesse nell’ormai famosa intervista
del presidente Davigo. Il “codice Mattarella” è un tentativo di far
emergere il buon senso a tutto campo. In passato l’operazione non
riuscì. Oggi i tempi sono cambiati.
Ma è chiaro che sul referendum
costituzionale anche e soprattutto i toni dell’esecutivo dovranno
essere più controllati. Cinque mesi di campagna per il sì “casa per
casa” e addirittura sulle spiagge rischiano di essere insostenibili in
un Paese a cui le istituzioni chiedono moderazione. In fondo, come si fa
a insistere con i magistrati perché si astengano dal battere la
grancassa per il “no”, quando un ministro della Repubblica accusa chi
non è d’accordo con la tesi del governo di pensarla come gli estremisti
neofascisti di Casa-Pound?