domenica 1 maggio 2016

Limes 27.4.16
Minaccia e propaganda: lo Stato Islamico in Italia
a cura di Federico Petroni, Niccolò Locatelli 

Il jihad in Italia, secondo gli Usa
Il direttore dell’intelligence nazionale statunitense James Clapper ritiene che in Italia, Germania e Regno Unito siano attive cellule dello Stato Islamico simili a quelle responsabili degli attentati di Parigi e di Bruxelles che starebbero pianificando attacchi terroristici.
La minaccia non è nuova, il fatto che il vertice dei servizi segreti Usa la faccia circolare pubblicamente sì, specie a pochi giorni dal viaggio di Obama in Europa in cui, proprio in Germania, ha esortato il continente a collaborare di più in tema di antiterrorismo.
Nelle stesse ore trapela la notizia della rimozione anticipata di Gerhard Schindler dalla guida dell’intelligence esterna tedesca (Bnd), per motivi ignoti. Circa 600 cittadini tedeschi si sono arruolati nello Stato Islamico e in altre formazioni jihadiste in Siraq; la Germania è un possibile bersaglio del terrorismo.
Sul rischio per l’Italia, commenta per noi Bernard E. Selwan el-Khoury, direttore di Cosmonitor:
“La conquista di Roma”: è questa l’espressione esatta che compare, in termini profetici e trionfalistici, nella Sunna, la raccolta dei detti e dei comportamenti in vita del Profeta dell’islam, Muhammad.
Questa profezia del VII sec. d.C. (che andrebbe contestualizzata) rappresenta un forte elemento di propaganda strumentalizzato dal sedicente Stato Islamico per offrire un’immagine trionfalistica di sé agli occhi di seguaci e aspiranti tali.
Ciò non significa che l’Italia non sia nel mirino di al-Baghdadi – quale paese arabo e occidentale non lo è? Ma il forte valore simbolico di Roma come bersaglio è dato non tanto da una politica estera “arrogante” (come Osama bin Laden definiva quella di alcuni paesi occidentali) quanto dalla presenza del Vaticano, simbolo del cristianesimo, che nella propaganda jihadista innesca il ricordo delle crociate.
Negli anni Novanta e Duemila vi sono stati, soprattutto nel Nord Italia, elementi radicalizzati che hanno espresso la volontà di passare all’azione. Ma il minor numero di immigrati rispetto ad altri paesi europei e la meno accentuata tendenza alla ghettizzazione non hanno favorito l’emersione delle condizioni che invece hanno portato agli attacchi a Parigi e Bruxelles.
Infine, non bisogna sottovalutare il tratto mediterraneo – come forma mentis e approccio sociale – dell’Italia come sistema-paese e del suo popolo, che indubbiamente la pone in una posizione di vantaggio nel comprendere meglio e più a fondo le popolazioni del sud del Mediterraneo. E dunque proporsi come “partner” piuttosto che come “neo-colonizzatore”.

Limes 1.4.16
Demografia è destino
di Massimo Livi Bacci 

Le proiezioni danno la popolazione europea in declino, ma in modo difforme. Più colpiti saranno i paesi grandi e con poco sostegno alla natalità, come l’Italia. Gli effetti sociali ed economici. I rischi geopolitici. L’immigrazione come antidoto alla senescenza. 

QUASI OTTANT’ANNI FA, IN UN FAMOSO discorso tenuto alla Eugenics Society, John Maynard Keynes affermò: «Una popolazione crescente ha un’importante influenza sulla domanda di capitale. Non solo la domanda di capitale aumenta – al netto del progresso tecnico e del miglioramento delle condizioni di vita – in approssimativa proporzione alla popolazione. Ma poiché le aspettative degli imprenditori si fondano più sulla situazione attuale che su quella futura, un’èra di popolazione crescente tende a promuovere l’ottimismo, dato che la domanda tenderà a superare le aspettative, piuttosto che deluderle». In un’èra di popolazione declinante, aggiungeva Keynes, avviene invece il contrario: «La domanda tende a deludere le aspettative e una situazione di eccesso d’offerta è difficile da correggere, sicché si può determinare un’atmosfera di pessimismo. (…) Il primo effetto del cambiamento da una popolazione crescente a una declinante può essere disastroso» 1 . Per Keynes e i keynesiani, fino ai nostri giorni, il declino della popolazione avrebbe lo stesso effetto oggi imputato alla deflazione: un rinvio degli acquisti da parte dei consumatori, un conseguente calo degli investimenti da parte delle imprese, un cedimento della domanda, l’arresto o l’inversione di segno della crescita. Prima di continuare, occorre chiedersi: ma il futuro della popolazione europea 2 è davvero il declino? La risposta, deludente per chi si aspetta indicazioni certe, è: dipende. Non tanto dai fattori di base che determinano la dinamica intrinseca della popolazione – natalità e mortalità, riproduttività e sopravvivenza – ma da quelli estrinseci, legati alle entrate e alle uscite, cioè all’immigrazione e al l’emigrazione. Se consideriamo solo i primi (c’è un discreto consenso sull’aumento ulteriore della longevità e su una lieve ripresa della natalità) e immaginiamo un’Europa a porte chiuse, la prospettiva è il declino. Da qui al 2050 la popolazione diminuirebbe del 10% circa (da 738 a 665 milioni): apparentemente non un declino catastrofico, ma preoccupante perché si articola in un -22% per la popolazione in età attiva tra i 20 e i 70 anni e in un +62% per quella oltre tale età (gli ultrasettantenni nel 2050 sarebbero molto più numerosi dei giovani sotto i 20 anni), con ovvie implicazioni economico-sociali. Se invece consideriamo le migrazioni e presupponiamo il proseguire di flussi paragonabili a quelli dell’ultimo decennio, sia pure a ritmi più moderati, il declino sarebbe più lieve: -4% in totale e -16% per la popolazione attiva, accompagnato però dal fortissimo aumento degli anziani (+64%). Questi numeri valgono per l’insieme dell’Europa, ma con qualche disuguaglianza interna: al netto dell’immigrazione, crescerebbero Francia, Regno Unito, Svezia, Norvegia e Irlanda. Tutti gli altri paesi diminuirebbero, specie quelli più popolosi: Russia, Germania, Italia, Spagna, Polonia. La velocità della discesa, poco percettibile nei primi anni, accelererebbe nel corso del periodo considerato. L’orizzonte demografico europeo dipende, dunque, dai ritmi d’immigrazione: una variabile assai difficile da prevedere, perché legata – tra l’altro – alle politiche adottate dai vari paesi. Un esempio che ci riguarda da vicino è il seguente: le previsioni pubblicate nel 2002 dalle Nazioni Unite (con ipotesi condivise dalla comunità scientifica) consegnavano Italia e Spagna al declino demografico, prevedendo una popolazione complessiva di meno di 97 milioni nel 2015. Tuttavia, l’anno scorso, la popolazione dei due paesi è risultata – secondo i loro uffici statistici – di oltre 107 milioni: la rivoluzione migratoria della prima parte del XXI secolo non era stata prevista, di certo non nelle dimensioni in cui si è manifestata. 2. Queste considerazioni sono utili anche a comprendere le posizioni politiche in merito alla questione migratoria che angustia e divide l’Europa. Una parte dei paesi europei – Francia, Regno Unito e paesi nordici – in ragione della loro demografia equilibrata, o comunque orientata a un moderato declino, non ritengono l’immigrazione essenziale al loro sviluppo. Londra ritiene anzi che la crescita demografica prevista sia eccessiva e che vada attuato un robusto contenimento dell’immigrazione. In genere, in questi paesi l’immigrazione è ritenuta utile solo se ricca di «capitale umano», cioè per dirla in buon italiano, quando è istruita, tecnicamente e professionalmente preparata e disposta a integrarsi con facilità. È vero che in molti di questi paesi l’invecchiamento procede di buon passo, però si ritiene che possa essere contrastato dalle politiche di «invecchiamento attivo»: il miglioramento della salute degli anziani e la loro accresciuta cultura, l’estensione della vita attiva, adeguate riforme del mercato del lavoro, investimenti in tecnologia e lo smaterializzarsi dei processi produttivi, i cui addetti necessitano di sempre minori sforzi fisici. Questa posizione è condivisa anche da altri paesi BRUXELLES, IL FANTASMA DELL’EUROPA 147 la cui demografia è assai più evanescente ed è molto popolare tra gli economisti e altri studiosi, nonché presso molte influenti istituzioni. Assai diverse sono le posizioni dei paesi nei quali la demografia appare decisamente orientata a un avvitamento negativo. Non c’è molto ottimismo circa una decisa inversione della loro bassissima natalità, anche perché le politiche per la famiglia, le nascite e l’infanzia sono molto onerose per i bilanci pubblici. I processi d’invecchiamento sono molto rapidi, la necessità dell’apporto migratorio evidente. La crisi e il conseguente aumento della disoccupazione hanno attenuato la percezione delle implicazioni negative di queste tendenze di fondo, che tuttavia presto ridiverranno pressanti. Certo, le negative conseguenze economiche e sociali dell’invecchiamento demografico possono essere attenuate nei modi sopra descritti, ma non cancellate, data la rapidità del fenomeno. Due esempi a contrasto: nell’«equilibrata Francia» l’età mediana della popolazione passerebbe da 41 a 44 anni, ma nelle confinanti «squilibrate» Germania e Italia, salirebbe da 46 a 53- 54 anni, quasi dieci anni in più. Nel caso francese, l’invecchiamento ha un corso moderato e sicuramente gestibile; in Germania e in Italia è dubbio che gli effetti negativi possano essere contenuti. La maggior parte del continente europeo (Francia, Regno Unito e paesi nordici ne rappresentano meno di un quarto) è accomunata da fenomeni di ripiegamento demografico e rapido invecchiamento. Il senso comune tende a rifiutare il catastrofismo e i timori esagerati sul declino della civiltà occidentale che da cent’anni (almeno dal Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, pubblicato nel 1922) riemergono periodicamente con rinnovata intensità. Ma se la posizione catastrofista è inaccettabile, non è nemmeno realista la posizione di quanti, e sono molti, tendono a minimizzare le conseguenze negative di una popolazione declinante. 3. Il peso economico e demografico dell’Europa nel sistema globale è andato rapidamente scemando nel corso del tempo e continuerà a ridursi: l’Europa conteneva quasi un abitante su quattro del mondo all’inizio del secolo scorso, oggi ne contiene uno su dieci e ne conterrà uno su quattordici nel 2050. Cent’anni fa, secondo le elaborazioni di Angus Maddison, l’Europa produceva poco meno della metà del pil mondiale, contro circa un quarto di oggi. Poco male, si dice: l’Europa sia pure demograficamente ed economicamente più piccola nel contesto mondiale. Ciò che vale, in fin dei conti, è il benessere individuale, non la dimensione demografico-economica di un paese. Non c’è ragione che una contrazione, anche sostenuta, della popolazione possa tradursi in un impoverimento o in un arresto della crescita. Ma questa posizione è difficilmente sostenibile, per due ragioni. La prima, assai ovvia, è che a parità di condizioni un paese più grande (per popolazione ed economia) è un paese che conta di più nel contesto geopolitico, perché gestisce risorse maggiori che nel bene o nel male possono influenzare i rapporti internazionali. Per esempio può mettere a disposizione maggiori ri- DEMOGRAFIA È DESTINO 148 sorse per la cooperazione, per gli interventi umanitari, per gli aiuti allo sviluppo. Oppure, per rifornire di materiale bellico uno Stato aggressivo o sobillare conflitti. Insomma, le dimensioni di un paese contano, anche se non influenzano il benessere individuale. La seconda argomentazione è complessa e dev’essere articolata. Il contrarsi di una popolazione accelera e accentua il processo di invecchiamento, che in questa fase storica, anche per l’aumento continuo della longevità, riguarda tutta l’Europa. Gli economisti spiegano che una compressione del benessere (o una sua stasi) avviene se, in conseguenza dell’invecchiamento (cioè del progressivo aumento relativo degli anziani rispetto agli adulti e ai giovani), diminuisce la produttività della forza lavoro (cioè, del prodotto pro capite dei lavoratori). Ne deriva che è cruciale conoscere quale sia l’andamento della produttività nel ciclo di vita di ogni persona. Sono moltissimi gli studi che si cimentano con questa questione e da molti punti di vista. Una conclusione equilibrata è che le performance dei lavoratori tendono a declinare dopo una certa età, soprattutto per quelle attività che richiedono capacità di risolvere i problemi, velocità di reazione, attitudine ad apprendere cose nuove. Queste capacità si attenuano progressivamente con l’età: una tendenza che può essere contrastata, ma non annullata, da una migliore organizzazione del lavoro, dalla migliore salute e dalla maggiore efficienza fisica degli anziani, dal loro crescente livello d’istruzione, dal progresso tecnico. Sull’altro piatto della bilancia va posto il maggiore assenteismo degli anziani, il minor vigore fisico, la crescente incidenza, con l’età, di malattie invalidanti. È dunque indubbio che per gran parte delle mansioni e delle funzioni l’invecchiamento individuale si accompagni a una certa diminuzione dell’efficienza e che lo stesso avvenga in una collettività di lavoratori, man mano che la loro composizione per età si modifica a favore delle componenti più anziane. Può darsi che tutto questo non sia un grande ostacolo allo sviluppo, ma non è certo un elisir tonificante. C’è però un altro livello di funzioni nell’economia e nella società per le quali l’invecchiamento ha sicuramente un’azione frenante. L’invenzione, l’innovazione, l’assunzione del rischio, l’imprenditorialità sono prerogative specifiche dei giovani che decrescono rapidamente con l’età. Le grandi scoperte che hanno valso – magari decenni dopo – l’assegnazione di un Nobel nelle materie scientifiche sono state fatte da scienziati giovani, per lo più tra i 30 e i 40 anni. Idem dicasi per le tante opere d’ingegno che accendono o sostengono lo sviluppo, o per le imprese di successo. Una società che invecchia rapidamente trova compresse queste qualità; si trova, per così dire, con un motore meno potente e meno brillante. 4. Tiriamo le somme: i prossimi decenni ci consegneranno un’Europa più piccola, con qualche handicap in più per la crescita legato all’invecchiamento. Niente di catastrofico se si corre opportunamente a quei ripari che lo strumentario delle politiche economiche e sociali può fornire. In prima linea c’è sicura- mente l’intensificazione degli investimenti in istruzione e formazione, insomma in capitale umano, particolarmente scarso nel nostro paese; ma anche le politiche sociali che incentivano la natalità e le politiche migratorie. La natalità è pericolosamente bassa in buona parte dell’Europa. Espressa in termini di numero medio di figli per donna, nel 2010-15 è stata pari a 1,6; 1,6 in Russia (che ha messo in atto una costosissima e insostenibile politica di trasferimenti alle coppie con figli); 1,4 in Germania, Italia e Polonia; 1,3 in Spagna. Tra i grandi paesi, solo Francia (2,0) e Regno Unito (1,9) esprimono livelli appena equilibrati. Nei limiti delle disponibilità dei bilanci pubblici, occorre puntare su quelle politiche o su quei movimenti sociali che favoriscano una maggiore partecipazione delle donne nel mercato del lavoro; che attenuino o cancellino le asimmetrie di genere nelle attività domestiche e nella cura dei figli; che invertano il forte ritardo accumulato dai giovani nel diventare autonomi e quindi capaci di fare scelte riproduttive. Fare figli implica una certa sicurezza economica, che si consegue più facilmente quando la famiglia ha due fonti di reddito (lavoro femminile); quando i costi della cura dei figli non ricadono esclusivamente sulle spalle delle donne (riduzione delle asimmetrie di genere); quando i giovani sono autonomi e responsabili e non indotti a rinviare le scelte. I paesi avviati da tempo in questo solco sono, in Europa, quelli con migliore natalità: paesi nordici, Regno Unito e Francia, per l’appunto. Le politiche di sostegno alla natalità, tuttavia, sono lente nel produrre i loro frutti – quando li danno. Altro è il discorso per le migrazioni: i bambini occorre desiderarli, metterli al mondo, farli crescere. I potenziali migranti sono invece disponibili in un numero che è un multiplo della potenziale domanda. Ma di fronte all’immigrazione, la risposta europea è inadeguata, dissonante, perfino impossibile, visto che il Trattato di Lisbona mantiene in capo agli Stati il diritto di ammettere sul proprio territorio i migranti che vuole, quando li vuole e quanti ne vuole3 . Le ragioni del marasma europeo, aggravato dalla crisi mediorientale e dalla inetta gestione dei flussi di profughi, sono ideologiche, politiche, ma anche economiche. Ideologiche – al netto degli aspetti più deteriori di pura xenofobia o convinto razzismo – perché collegate a una sorta di nativismo che nella forma più blanda e ragionevole vede nell’immigrazione un pericolo per la coesione sociale e culturale. Si argomenta che la coesione è un bene primario da proteggere, un capitale prezioso, e pertanto si giustificano le politiche di chiusura o di forte limitazione all’immigrazione. Maggiore è la distanza culturale tra immigrati e autoctoni, maggiore è la minaccia alla coesione. Questa posizione non considera il fatto che nel caso di molti paesi europei il declino demografico può provocare impoverimento e nuove fratture sociali, mettendo a rischio quella coesione che si vuole difendere. Né ritiene che la coesione, quando spinta troppo avanti, rischi di sclerotizzare la società o di diventare chiusura Sotto il profilo politico, l’inettitudine europea è purtroppo evidente ed è per così dire istituzionale: la Ue ha costruito un fiscal compact, ma nega ostinatamente la necessità di un migration compact. Sotto il profilo puramente economico, infine, l’idea che le conseguenze del declino demografico e del forte invecchiamento possano essere contrastate e minimizzate senza, o con ridotto, apporto migratorio è forte, autorevole e diffusa, e contrasta con l’evidente necessità di intense migrazioni nella maggior parte del continente. Queste, nel recente passato, sono andate crescendo: l’intera Europa ha fruito di un saldo netto immigrati/emigrati pari a 4 milioni negli anni Ottanta, 9 milioni negli anni Novanta e 18 milioni nel primo decennio di questo secolo. Non sarebbe sorprendente se, passata la crisi, il fenomeno si rafforzasse ancora. 

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Una voce dal sen fuggita finalmente ritrovata 
Per chi sente sussurrare minacce o parole gentili la solitudine è finita. Nei numerosi gruppi di mutuo aiuto, gli uditori ritrovano storie simili alla loro. E mentre la paura cala, il confine tra salute e malattia si fa meno netto 

MARIA TERESA CARBONE in Giovanna d’Arco udì o credette di udire delle voci e da qui prese avvio il suo tentativo di liberare i territori di Francia occupati dagli inglesi: questo lo sanno tutti, o per lo meno tutti quelli che hanno annusato un po’ di storia francese. Meno famoso è il fatto che a Freud da giovane capitò di sentirsi chiamare «da una cara voce non misconoscibile», come scrisse lui stesso nella Psicopatologia della vita quotidiana. La pulzella d’Orléans e il padre della psicoanalisi. Ma anche l’anziana zia e il vicino di casa. Perché, stando ai non molti dati reperibili in questo campo, a “sentire le voci” e r ano e sono in tanti, non necessariamente affetti da disagio mentale, anche se le “a l l u c inazioni uditive” – questo il nome clinico – sono di solito considerate come un sintomo della schizofrenia. Era quello che emergeva da una ricerca britannica di fine Ottocento condotta su ben 17 mila soggetti e citata da Oliver Sacks nel suo A l l ucinazioni (Adelphi 2013), secondo la quale la percentuale di persone a cui accade di percepire voci inesistenti si aggirerebbe intorno al 4 per cento almeno. E lo conferma oggi, oltre a uno studio sul Lancet uscito qualche mese fa, il crescente movimento degli uditori di voci, attivo da oltre 25 anni in diversi Paesi fra cui l’Italia, dove pare destinato a espandersi ancora, soprattutto se verrà messa a punto e approvata la proposta di legge 2233 (ne parliamo nell’a r t icolo a fianco). «Tutto è cominciato nel 1987 in Olanda quando nel corso di un programma tv Patsy Hague, uditrice di voci, e lo psichiatra Marius Romme invitarono gli uditori di voci a chiamare la redazione», racconta Marcello Macario, psichiatra presso la Asl di Savona, un pioniere del movimento in Italia. «Solo durante la trasmissione ricevettero oltre 600 telefonate, scoprendo così che la maggioranza di coloro che erano intervenuti affermava di non avere problemi con le voci ma di avere tenuto nascosta la propria esperienza per timore di essere giudicati “matti”». Gli studi di Romme, affiancato da Patsy Hague e dalla ricercatrice Sandra Escher, a cui negli anni si sono aggiunti i dati raccolti da ricercatori di altri Paesi, hanno in effetti confermato che solo per un terzo degli uditori l’esperienza è fonte di problemi, in certi casi, per la verità, anche gravi o gravissimi. Per la maggior parte delle persone, invece, le voci sono un fatto positivo o neutro: non giudicano e non minacciano ma tengono compagnia, a volte sono compagni che danno consigli e con i quali è perfino gradevole dialogare. Una ricerca comparata condotta dall’antropologa statunitense Tanya Luhrmann in Ghana e in India ha portato, sia pure indirettamente, una ulteriore conferma a questi risultati. Se assai lontano da noi appare il caso dell’Africa, dove le voci vengono attribuite a un intervento divino (proprio come accadeva nell’antichità, secondo lo psicologo Julian Jaynes nel suo controverso e affascinante studio Il crollo della mente bicamerale e l’o r i g ine della coscienza, Adelphi 1984), il modello indiano può insegnarci qualcosa: a Chenai, dove la studiosa ha compiuto le sue rilevazioni, un uditore di voci riceve una diagnosi di schizofrenia, proprio come in America o in Europa, ma diversa è la cura, basata su un dialogo con queste “e ntità” che nella maggior parte dei casi, da maligne e minacciose che erano, finiscono per trasformarsi in più o meno simpatiche compagne di viaggio. «Il problema, insomma» osserva Macario, «non sono le voci in sé ma il rapporto di potere che si instaura tra l’uditore e le proprie voci. Amiche o minacciose, le voci possono continuare a parlare, rendendo impossibile dedicare attenzione ad altre cose oppure sono interlocutori con cui dialogare, messaggeri che in ogni caso vanno accettati e compresi. Non un sintomo incomprensibile di una grave malattia psichiatrica, ma piuttosto una reazione comprensibile e “normale” a esperienze traumatiche precedenti, che si tratti di abusi o di bullismo, di un lutto o di una separazione». Una impostazione molto lontana da quella che comunemente si trova negli Stati Uniti o in Europa: risale al 1973, ma è ancora attuale, tanto che Sacks lo aveva citato nel suo libro del 2012, un esperimento condotto dallo psicologo americano David Rosenham: otto persone senza nessun disturbo apparente si presentarono a un pronto soccorso, affermando di sentire delle voci. Subito, furono tutte ricoverate e “curate” con farmaci antipsicotici, nonostante il loro comportamento fosse assolutamente normale e non avessero precedenti psichiatrici. Da qui, dalla necessità di non soffocare le voci a botte di psicofarmaci (che, secondo molti sostenitori del movimento, possono avere un’u t ilità circoscritta, soprattutto, nei casi più gravi, per diminuire la paura) e di provare invece ad ascoltarle, soprat tutto quando assumono tratti spaventosi, ha preso avvio il movimento degli uditori, che ha il suo perno in piccoli gruppi, «modellati inizialmente sullo schema degli Alcolisti Anonimi», dice Elisabetta Sarco, educatrice e presidente di un’associazione no profit, Riconoscere, che su base volontaria si propone di portare questa esperienza anche al di fuori del servizio pubblico, dove – a differenza di quanto è accaduto in altri Paesi – si è finora concentrato quasi tutto il lavoro italiano. Una realtà molto composita, quella degli uditori di voci nel nostro Paese, che tende – pur fra notevoli differenze e qualche divergenza – a trovare un punto di riferimento intorno all’a s s ociazione Parla con le voci e a Trento, nell’incontro annuale del movimento delle Parole Ritrovate, nato più di vent’anni fa con l’idea di “darsi convegno” fra utenti, familiari, operatori, amministratori, cittadini . È a Trento del resto che nel 2003 lo scozzese Ron Coleman, un’infanzia di abusi, una diagnosi di schizofrenia cronica, una riabilitazione fondata proprio su un lungo dialogo con le sue voci (raccontata in due libri, Lavorare con le voci, Edizioni Gruppo Abele 2006, e Guarire dal male mentale, manifestolibri 2007), ha cominciato a far conoscere in Italia, insieme al suo lavoro, le ricerche di Romme. Protocolli veri e propri per le pratiche degli uditori di voci non esistono e «anche al congresso internazionale di Madrid che si è tenuto l’anno scorso e a cui Riconoscere ha preso parte» dice Sarlo, «si sono evidenziate differenze tra gruppi che scelgono di puntare sull’auto mutuo aiuto “classico” e altri che lavorano a cavallo con la psicoterapia». In linea di massima, però, lo schema dei gruppi segue tracce più o meno consolidate: gli incontri durano un’ora e mezza o due, e si tengono abitualmente con cadenza quindicinale, mentre il numero di partecipanti può variare fra le 6 e le 10 persone. «Di solito», precisa Macario, «ai gruppi prendono parte due facilitatori, ma è importante sottolineare che il loro compito è soltanto quello di garantire che la comunicazione si svolga rispettando tutti e che tutti siano coinvolti. Nessun consiglio, nessuna prescrizione, nessuna funzione terapeutica. La cosa fondamentale su cui si basano i gruppi è che ognuno parta dalla propria esperienza, da accettare come tale. È questo lavoro che nel gruppo di auto mutuo aiuto apre la strada grazie alla quale è possibile accettare le voci. Attraverso lo scambio di esperienze ed emozioni, ogni partecipante riesce a individuare strategie di fronteggiamento e controllo personali. Accettare le voci è il passaggio necessario per collocarle nella propria vita e attribuire a esse un significato. Per questo, se fino ad oggi i facilitatori sono stati quasi sempre operatori di diversi profili, oggi cominciano a fare i facilitatori anche gli uditori stessi, quelli che possiamo chiamare gli “esperti per esperienza”». “Esperti per esperienza”. Come Ron Coleman. O come la signora Franca, che presso la Asl Roma C fa parte degli attivissimi Ufe (gli Utenti e Familiari Esperti, a cui attribuisce un ruolo determinante la proposta di legge 2233), anni di esperienze condivise alle spalle, tra cui un glorioso viaggio a Pechino nel 2007 insieme al movimento delle Parole ritrovate. La prima volta che ha sentito una voce, la signora Franca aveva da poco perso un figlio, un bambino di dieci anni ucciso in un incidente stradale: «Ha cominciato a parlarmi e mi insultava, mi diceva delle cose terribili. E se a dirti certe cose è qualcuno che non vedi e non conosci, di cui non sai se è dentro di te o fuori di te, è quasi impossibile reagire. È come lo stalking o anche peggio perché ti giri e non c’è nessuno fuori». Sono passati anni da quando Franca ha attraversato questa esperienza e se oggi ne parla con tristezza, ma anche con ironia («se quella voce mi diceva che ero una puttana, e allora? se anche lo fossi stata, ce ne sono tante di puttane e non per forza devono stare male»), è anche perché nel suo percorso di r e c o v ery – termine oggi molto usato che non sta per guarigione, ma per capacità di ritrovare il proprio posto nel mondo – non è stata sola. Sola con le sue voci, sola con i suoi dolori. Non è in fondo questo il senso di ogni cura? 
E dopo la 180 è in arrivo la legge 2233 
«Una nuova legge per la salute mentale, più accogliente e più giusta»: la legge in realtà non c’è ancora, ma se n’è parlato il 7 aprile in un seminario alla Camera, dopo che – presentata nelmarzo 2014–per più di due anni era rimasta ferma. Puntata (secondo le linee del movimento Le parole ritrovate ampiamente citato nella parte introduttiva) sul coinvolgimento concreto degli utenti e dei familiari nei percorsi di cura, tanto da prevedere la possibilità di una retribuzione, oggi la 2233 – come si chiama adesso dopo essere stata a lungo definita “181”, a sottolineare la linea di continuità con la 180, la “legge Basaglia” – è uscita dal cassetto e sembra avere buone possibilità di procedere rapidamente nel suo iter, almeno a quanto dichiara il presidente del gruppo parlamentare Pd, Ettore Rosato, che con il primo firmatario della proposta di legge, Ezio Casati, ha promosso l’incontro del 7 aprile. «La legge 2233 per noi è una priorità e contiamo entro l’anno di portarla all’approvazione della Camera», dice infatti Rosato. «L’intenzione è quella di ridare centralità alle pratiche sul territorio, mettendo a punto il testo definitivo con gli operatori». Che il testo richieda ancora degli aggiustamenti è quanto dicono neanche troppo fra le righe due psichiatri comeFranco Rotelli,successore di Franco Basaglia alla direzione dell’Ospedale psichiatrico di Trieste, e Peppe Dell’Acqua, anche lui membro dell’équipe di Basaglia e autore fra l’altro di un libro, Fuori come va? Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi (EditoriRiuniti2003), chetoccaalcuni dei nodi di cui si discute oggi. «Penso che questa proposta di legge sia positiva soprattutto per il ruolo che attribuisce ai familiari e agli utenti con le loro esperienze», osserva Rotelli, «ma mi auguro che affronti anche temi altrettanto importanti come l’organizzazione dei Dipartimenti di salute mentale, una impresa non facile perché c’è una grande frammentazione. C’è da sperare che in un tavolo Stato-Regioni si possano trovare delle linee di condivisione». Da parte sua Dell’Acqua esprime «riserve sulle modalità di presentazione della propostadilegge»,ma aggiungecheilfatto stesso di «avere aperto un cantiere, come si è ripetuto più volte nel corso dell’incontro alla Camera, è la risposta a un bisogno che si sentiva da tempo, di fronte al progressivo declino nella gestione della riforma della salute mentale». E cosa pensa della 2233 il movimento degli uditori di voci? «Sul coinvolgimento attivo di utenti, famigliari e cittadini, la valorizzazione delle competenze di ognuno e il considerare utenti e famiglie come portatori insieme di problemi e di risorse perrisolverli, c’èuna naturale comunanza» dice Marcello Macario diParla conle voci.«Due punti su cui, invece, ho qualche perplessitàsonoil mancatoriferimentoalle risorse necessarie per realizzare quanto è esposto e il ruolo di “con - trollo” di fatto attribuito ai responsabili dei servizi psichiatrici nella sceltadegli Ufe(Utenti eFamigliari Esperti)». M. T. C 
Alla ricerca degli eroi genetici portatori sani di Dna malati 
L’intuizione di Stephen Friend: scovare le persone che non hanno contratto le patologie scritte nel proprio codice. Per capire, e provare a riprodurre a scopo terapeutico, le ragioni di questa particolare resilienza 
GABRIELE DE PALMA Due fratellastri brasiliani condividono un gene strettamente correlato alla distrofia muscolare. Inspiegabilmente però, mentre uno è costretto sulla sedia a rotelle dall’età di nove anni, l’altro a sedici gode di buona salute. Un caso raro, forse rarissimo ma non unico. Uno simile è stato registrato a New York, dove una donna sulla cinquantina, pur possedendo il gene Cftr associato invariabilmente –secondo gli studi attuali – alla fibrosi cistica, ne è invece esente e non accusa nulla più di una leggera difficoltà respiratoria ogni tanto. Casi inspiegabili perché la nostra comprensione del Dna è ancora acerba e incompleta. Conosciamo le lettere che compongono la frase, ma non sappiamo distinguere bene le parole tra loro, ignoriamo la sintassi e ci sfugge probabilmente anche il senso narrativo generale. Nonostante la ricerca genetica stia registrando successi invidiabili, fino a oggi ha proceduto concentrandosi sui problemi più che sulle soluzioni. Nei casi citati, per esempio, per cercare di capire come riparare il danno verrebbe studiato il fratello affetto da distrofia e qualche parente della signora newyorkese a cui la fibrosi cistica si è drammaticamente manifestata. Un metodo che non si è rivelato abbastanza efficace, secondo Stephen Friend, genetista e fondatore di una delle prime istituzioni no profit sostenitrici di progetti di open science: la Sage Bionetworks, che ha messo a disposizione dei ricercatori la piattaforma di condivisione Synapses e una versione semplificata per la citizen-science battezzata Bridge. «La ricerca geneticanon hamodificato abbastanza il modo in cui sviluppiamo i farmaci»,denunciaFriend. «Ilbudgetnecessario non si è ridotto e se siamo in grado di diagnosticare molte malattie di origine genetica, non sappiamo ancora come curarle». È molto difficile, per usare un eufemismo, riuscire a capire come restaurare le funzioni deteriorate da alcuni geni, anche quando si sa quali siano i geni in questione. Friend ha avuto però l’idea di modificare l’approccio corrente. Anzi di capovolgerlo. Anziché studiare approfonditamene i pazienti in cui si manifesta la patologia, ha cercato di studiare le persone sane, anzi: quelle che sono sane a dispetto del loro codice genetico in cui è inscritto un gene che dovrebbe manifestarsi in una malattia. E invece non lo fa. Grazie alla collaborazione di Eric Schadt, direttore dell’Ichan Institute for Genomics and Multiscale Biology presso il Mount Sinai Hospital di New York, si è lanciato alla caccia di questi rarissimi supereroi genetici. Persone resistenti alle minacce del loro stesso Dna. Da cui il nome, The Resilience Project: a Search for Unexpected Heroes (Progetto resilienza: in cerca degli eroi inattesi). La ricerca è stata condotta secondo uno schema aperto: Friend ha contattato tutti i centri di ricerca in possesso discansioni delDna eha richiesto la loro collaborazione. Molti hanno aderito e in breve tempo sul database allestitodal genetista sono stati caricati 600 mila codici genetici (i due terzi forniti dall’azienda californiana 23andme di Anne Wojcicki ed Esther Dyson); di questi però solo un ventesimo era in versione completa, la stragrande maggioranza solo parziale. Obiettivo dello studio era l’individua - zione di malattie infantili ereditarie, le cui istruzionisono contenutein 874geni, e che, per quanto ne sappiamo, dovrebbero portare invariabilmente alla manifestazione della patologia. La scrematura dei 600 mila codici iniziali è stata feroce: riducendoli prima a 16 mila, poi a 303 e infine a 13. Tredici persone che probabilmente hanno scritte nel Dna le istruzioni che disattivano il gene responsabile della malattia, o che forse devono a stile di vita e ambiente esterno la propria salvezza. Oppure si tratta di falsi positivi, persone che magari hanno sviluppato una forma molto lieve della malattia senza accorgersene. Quindi, non rimaneva che approfondire questi pochissimi sopravvissuti alle rigide selezioni dell’al - goritmo sviluppato dalla Sage Bionetworks per avere risposte attendibili, anche perché di tutti e 13 erano disponibili solo Dna parziali. Purtroppo per la ricerca, però, le policy con cui erano stati raccolti i dati dalle varie istituzioni aderenti all’iniziativa non permettevano di ricontattare i donatori di Dna. «È stato come aver trovato il proprio regalo sotto l’albero e non poterlo scartare», ha dichiarato Friend per descrivere la propria frustrazione. Non tutto il lavoro, però, era stato fatto invano. Infatti i risultati, seppur molto parziali, erano incoraggianti. Così il ricercatore e Schadt hanno dato il via, pochi giorni fa, alla fase due del Resilience Project. Questa volta si riparte da zero, non ci si focalizza più solo sulle malattie infantili ereditarie ma su una più ampia gamma di patologie anche generiche. E si cercano volontari disposti non solo a farsi scansionare il Dna ma anche a essere ricontattati in seguito. «Quello di cui abbiamo bisogno è un campione di Dna e la determinazione a chiedersi: “Cosa c’è dentro di me? Voglio essere ricontattato per saperlo”», ha spiegato Friend. Ilprimoobiettivo dichiaratoèraccogliere un milione di volontari nella speranza di trovare qualche supereroe genetico. Compito difficile, la statistica non gioca a favore di Friend e Schadt. Se su 600 mila codici preselezionati sono risultati13 ipapabili, nonè dettoche su un milione di persone prese quasi a caso se ne trovi anche solo uno. Ma la prima parte del progetto ha dimostrato che gli algoritmi per la scrematura dei candidati sono validi, e la tecnologia – dalla piattaforma di condivisione alla progressiva riduzione dei costi per la scansione del codice genetico – è pronta per permettere la condivisione di grandi quantità di dati. Se è solo un problema di volumi, chi come Friend ha una radicata fiducia nell’open science e nella partecipazione dei cittadini non si farà certo spaventare. 

Time 27.4.16
Tennessee Law Lets Mental Health Counselors Refuse Patients for Religious Reasons
Opponents say the legislation discriminates against LGBT people

(NASHVILLE, Tenn.) — Tennessee’s Republican governor says he has signed a bill that allows mental health counselors to refuse to treat patients based on the therapist’s religious or personal beliefs.
Republican Gov. Bill Haslam told The Associated Press on Wednesday that he signed the bill after talking to numerous counselors, including those who were in favor and those opposed.
The American Counseling Association called the legislation an “unprecedented attack” on the counseling profession and said Tennessee was the only state to ever pass such a law.
Opponents say the legislation is part of a wave of bills around the nation that legalizes discrimination against gays, lesbians, bisexuals and transgender people.
Supporters say the bill protects the rights of therapists and allows them to refer patients to more appropriate counselors.

Internazionale 24.4.16
Educazione criminale 
di Oliver Carroll, The Moscow Times, Russia

Čita si trova in un angolo remoto della Russia. Qui è la criminalità a dettare legge. Con i suoi codici, i suoi riti e le sue violenze ha plasmato la vita di un’intera comunità. E il futuro di migliaia di adolescenti 
L a voce dell’autista oscilla tra depressione e aggressività. “Come me la chiami questa vita?”, urla. “Siamo tutti esseri umani, siamo persone, cazzo! Vafanculo Russia, mi fai venire voglia di piangere”. Sulla strada coperta di neve l’auto procede sbandando a destra e a sinistra. Fuori la colonnina di mercurio segna venti gradi sottozero, e la coltre nera della notte siberiana sta cominciando a scendere. “Questo è un villaggio criminale”, dice l’autista. “C’è stata una sparatoria qui, con la polizia e tutto il resto”. Voltandosi verso di me fa un gesto stizzito, poi apre la bocca sdentata ed emette una zafata putrida di alcol etilico. La macchina sobbalza e l’autista torna a guardare la strada. E riprende la sua storia: “I carcerati, quelli avevano dei tizi nelle scuole che pretendevano una tassa dai ragazzini, che cazzo! Ti immagini? I poveri dovevano pagare cento rubli, quelli che stanno così così duecento e i ricchi 250 cazzo di rubli! (cento rubli valgono poco più di un euro)”. Il Territorio della Transbajkalia, una delle 84 entità territoriali che compongono la Federazione Russa, si trova a più di seimila chilometri da Mosca e non è certo una fabbrica di buone notizie. Qui la mattina nessuno esce di casa aspettandosi un miracolo. Ma all’inizio di febbraio due esplosioni di anarchia e violenza hanno spinto alcuni a chiedersi se la situazione, già complicata, sia addirittura destinata a peggiorare e a temere che i tumultuosi anni novanta stiano per tornare. Un sistema parallelo Il primo episodio si è veriicato qui, a Novopavlovka: alcuni genitori si sono fatti giustizia da soli contro un gruppo di giovani criminali che frequentavano la scuola locale. Il secondo episodio è avvenuto qualche giorno dopo nella vicina Chilok, dove un gruppo di adolescenti che vivono in un istituto ha assaltato un commissariato di polizia con pietre e coltelli. Questa serie di violenze ha allarmato Mosca, che ha deciso di mandare sul posto una squadra di investigatori. Secondo i giornali locali, alla radice del problema c’è una specie di struttura che spinge i ragazzi nelle braccia della crimi nalità organizzata. E che ha un nome: Aue, l’acronimo di Arestantskij uklad edin, codice carcerario unico. Čita, la capitale amministrativa della Transbajkalia, a un primo sguardo è una città abbastanza gradevole. Alcuni ediici storici e le vivaci strade del centro la distinguono da altri capoluoghi della provincia russa. Ma basta spingersi nella sua degradata periferia, dove i tassi di disoccupazione sono altissimi, per avere un quadro completamente diverso. “Nelle strade di Čita la criminalità è la norma”, dice la mia guida, Andrej Kulikov, 37 anni, ex detenuto. “La città dipende dalle prigioni e in qualche modo tutti, tramite un parente o un amico, sono legati alla malavita”. Ci fermiamo alla scuola 17, un desolato gruppetto di baracche di legno ai margini della civiltà, infestate dalla droga. Il quartiere non ha illuminazione stradale e i servizi sono minimi, ma è generalmente il primo approdo sicuro per chi è appena uscito da uno dei dieci istituti penitenziari della regione. È in posti come questo, spiega Andrej, che gli ex detenuti avvicinano i ragazzini. Li chiamano “straccioni” e gli fanno fare di tutto: dalle consegne di droga all’organizzazione del grev, cioè il rifornimento di tè, sigarette e contanti da portare a chi è ancora in prigione. “Non è un posto dove andare in giro di notte, sta’ attento”, mi avverte Kulikov. “Ci sono armi e nessuno rispetta più gli accordi”. Negli ambienti criminali gli “accordi”, cioè il codice di comportamento seguito nelle carceri russe, sono leggi al di sopra della legge. Vietano ogni forma di collaborazione con la polizia, impongono l’obbligo di raccogliere il grev e rappresentano un sistema alternativo per gestire l’ordine e la giustizia. Secondo un altro ex detenuto, Sergej Čugunov, i tribunali della malavita sono “i più equi di tutta la Russia”. Se qualcuno inisce in carcere ingiustamente, spiega Sergej, i capi criminali scoprono “sempre” la verità grazie alle loro reti di contatti. Čugunov ha passato quattro anni nel carcere di Krasnokamensk insieme all’ex oligarca Michail Chodorkovskij, il più famoso detenuto della zona. Per dimostrarmi la “moralità” del mondo del crimine, Sergej mi invita in uno dei suoi ritrovi più famigerati: un bar che prende il nome da Ermak Timofeevič, il cosacco che nel cinquecento conquistò la Siberia con un bagno di sangue. “Non importa chi sei, questo posto ti dà sempre il benvenuto”, dice. “Però non lasciare niente di valore nel guardaroba”. Il colore dominante del bar è un marroncino fecale, interrotto da una strobosfera e qualche lucina colorata. Di tanto in tanto il dj, un uomo tozzo di circa cinquant’anni, fa commenti bizzarri che pochi sembrano capire, ma che accentuano l’atmosfera surreale del posto. “A chi piace andare in giro nudo per casa?”, chiede al microfono. Una bottiglia di vodka più tardi, si diffonde la notizia che una lince è entrata in città. Un’altra mezza bottiglia e il dj torna al microfono. Con una strizzatina d’occhio a Sergej, annuncia la presenza di un “ospite inglese” e, con l’occasione, ci dedica una šanson, come i russi chiamano le canzoni tradizionali della malavita. S’intitola “Il procuratore distrettuale”, e alla ine della prima strofa nella stanza l’atmosfera è fuori controllo: tutti ballano come forsennati, gridando con entusiasmo: “Per te io non sono nessuno, e per me tu non sei nessuno! Io sputo sulla legge e tu mi mandi in galera!”. In questa cittadina di quattromila abitanti così profondamente imbevuta di cultura carceraria, chiedo a Sergej di spiegarmi in che modo i ragazzini vengono reclutati alla causa dell’Aue. Ma lui nega che i giovanissimi siano oggetto di reclutamento: “È contro il codice: non si può reclutare, ma non si può nemmeno respingere”. Poi aggiunge: “Tutta Čita è con l’Aue, è una questione di mentalità”. Basta improvvisare un sondaggio tra una ventina di ragazzini del posto per rendersi conto che praticamente tutti conoscono l’Aue, “gli accordi” e il grev. Alcuni ammettono di aver contribuito al grev, altri conoscono qualcuno che lo ha fatto. Un adolescente racconta che nella sua scuola gira un libro intitolato Come diventare ladri. Quando però chiedo dell’Aue ai ragazzi più grandi, tutti ammutoliscono e riiutano di rispondere ad altre domande. Su VKontakte, il più popolare social network russo, diverse centinaia di adolescenti di Čita sono iscritti a gruppi legati all’Aue. Ai miei tentativi di stabilire un contatto, la maggior parte di loro ha risposto in modo inequivocabile: “Vaffanculo”, “Sbirro!”, “Aue! Libertà ai ladri”, “Aue! Fottiti”. Dmitrij F., 17 anni, mi ha fatto capire che certe curiosità non sono gradite e che nessuno avrebbe accettato di parlarmi. “Questo è il patto”, mi ha detto. “Non siamo stati noi a cominciare questa storia, ma saremo noi a inirla. Dammi retta e sarà meglio per te”. Sotto assedio Se i ragazzi dell’Aue non vogliono dare nell’occhio, gli altri abitanti dei villaggi intorno a Čita sono comprensibilmente ancora più attenti a mantenere l’anonimato. “Voglio che tu scriva tutto, ma mi devi promettere di non usare il mio vero nome”, dice Ljudmila, che vive a Novopavlovka. “Non puoi immaginare a che punto siamo arrivati. Siamo in guerra, terrorizzati da questi ragazzini e dai loro genitori”. All’inizio di febbraio il villaggio è stato catapultato sulle prime pagine dei giornali nazionali. Tutto è cominciato quando un gruppo di adolescenti al soldo di un boss criminale della zona si è messo a estorcere denaro per il grev agli studenti della scuola secondaria locale. I pagamenti oscillavano tra i cento e i 250 rubli al mese per ogni ragazzo. Chi non poteva pagare accumulava debiti. Le vittime dovevano giurare di mantenere il segreto, ma alla ine i genitori hanno scoperto tutto. La svolta è arrivata intorno a capodanno, quando la temperatura era di 40 gradi sotto zero e un tredicenne pieno di debiti è stato derubato del cappotto. Un compagno di classe del ragazzo si è deciso a denunciare il fatto e ha raccontato al padre, Ivan, quello che stava succedendo. Gli estorsori erano già noti alla polizia, ma non erano mai stati perseguiti perché troppo giovani. Con il passare del tempo si erano convinti di essere invincibili. Anche stavolta le cose sembravano aver preso la solita piega inché, alla ine di gennaio, alcuni genitori, guidati da Ivan, han no deciso di gestire la faccenda a modo loro. Sono passati direttamente all’azione e hanno pestato diversi membri della banda, anche se, a sentire Ivan, la notizia secondo cui avrebbero inlitto “serie ferite” ai ragazzi dell’Aue è esagerata: “Dicono che ho reso invalido un diciassettenne. In realtà il massimo che abbiamo fatto è stato rompere un paio di nasi”. Ivan sostiene che la resa dei conti è stata voluta dai ragazzi dell’Aue, che hanno sidato suo iglio. I ragazzi picchiati, tuttavia, alla ine si sono rivolti alla polizia e hanno presentato un esposto. E ora i genitori giustizieri sono in attesa di sapere se saranno perseguiti. Secondo Ljudmila, il 40 per cento dei ragazzi del villaggio è con l’Aue: “L’unica cosa che Novopavlovka gli ha dato è la disperazione. I criminali, invece, li fanno sentire desiderati. I bambini lo sentono quando non sono desiderati”. I igli di Putin La durezza della vita siberiana si manifesta in tutta la sua evidenza quando raggiungiamo Chilok. Circondato da splendide colline coperte di neve e foreste di conifere, Chilok potrebbe essere in Svizzera, se non fosse per tutto il resto. La maggior parte dei diecimila residenti vive in baracche di legno umide e fatiscenti, senza riscaldamento e acqua corrente. Per strada ci sono pensionati e bambini che trascinano taniche d’acqua. “Sappiamo che è una vita da cani, ma siamo resistenti e ci siamo abituati alle piccole diicoltà della vita”, dice Jurij Lukjanov, 62 anni, ferroviere in pensione. “È la criminalità che non riusciamo a sopportare”. Come la maggior parte della gente del posto, Jurij è esasperato dai ragazzi del carcere minorile che si trova al margine settentrionale del paese. Ha paura di uscire di notte e si lamenta dei continui furti. “Se lasci la casa incustodita, arrivano subito a fare man bassa”, racconta. “Tengono d’occhio tutto e raccolgono informazioni per i criminali veri”. Jurij spiega che la gente è furibonda perché i ragazzi dei riformatori sembrano vivere al di sopra della legge e meglio del resto del villaggio. “Ricevono frutta e verdura fresca che i nostri igli non possono nemmeno sognarsi. E poi in 17 vanno a devastare il commissariato di polizia! Il punto è che sono intoccabili. Non si possono mettere in prigione né arrestare. Perché sono protetti dallo stato. Perché sono i igli di Putin”. Dopo una trattativa condotta attraverso la recinzione dell’istituto, riesco a incontrare quattro di questi “igli di Putin”: Saša, Serëga, Ilja e Ljocha, tutti “eroi” dell’assalto al commissariato. Allora, siete stati coraggiosi o semplicemente idioti? “Coraggiosi”, rispondono in coro ridendo. “E comunque sono stati i porci a cominciare”, precisa Ljocha. “Hanno arrestato un nostro compagno. Non potevamo accettarlo”. L’unica colpa del loro amico, sostengono, era di essere andato a scuola ubriaco. I ragazzi ammettono di essere attratti dal fascino della cultura carceraria, dai tatuaggi, dagli “accordi”. Ma quando parlo dell’Aue, guardano per terra e fanno inta di non saperne niente. Quanto al futuro, l’unica scelta sembra essere quella tra la criminalità e l’esercito. “Oggi come oggi quella militare non è una carriera malvagia”, dice Ljocha. “Sì, non avrei problemi ad andare in Siria”, gli fa eco Serëga. Li salutiamo e ci dirigiamo verso un ristorante. Il menu è limitato: salsiccia fritta, pappa di grano saraceno, cioccolata, vodka e cognac. “Più tardi potrebbe esserci della minestra”, dice la cameriera. Prendiamo un cognac. “Siete qui per i ragazzi, vero?”, chiede una cliente del locale: una rarità in una città che non parla. Si avvicina al nostro tavolo. “Sono una dermatologa, un tempo lavoravo nella scuola. I ragazzi sono fuori controllo. Ogni anno avevamo diversi casi di siilide. In bambini di 13 anni!”. Poi la voce si riduce a un bisbiglio: “Chiedetelo a chiunque: tutti hanno paura di quei ragazzi. Sanno solo rubare. Adesso si sono messi a rubare bastoni e attrezzature da giardino. Dio solo sa cosa hanno in mente”. L’ultima sosta della serata è al commissariato di polizia dove è cominciata tutta la storia. Quando arriviamo, sette poliziotti se ne stanno seduti alle loro scrivanie protetti da una grata di metallo, piuttosto apatici. Qualcuno legge una rivista, qualcuno beve del tè, altri fanno le parole crociate. Busso sulla grata e chiedo a un poliziotto se posso avere un commento sulla vicenda. L’agente mi lancia un’occhiata e poi gira lo sguardo verso i colleghi. “Qui non c’è nessuno che può parlare”, risponde. Soldati o banditi La ricerca di un commento uiciale si trasforma in un infruttuoso girotondo tra gli uici regionali degli enti governativi federali. Alla ine riesco a farmi ricevere dal vicegovernatore della regione. Sergej Čaban, che è anche medico, è felice di parlarmi purché “il mio resoconto sia oggettivo”. Le autorità locali sono consapevoli della situazione. “Non siamo struzzi che nascondono la testa nella sabbia: il problema esiste, è innegabile”, dice. Poi però aggiunge che i servizi giornalistici sul “sistema Aue” sono esagerati. “Ci sono singoli episodi di delinquenti che reclutano ragazzini, ma nell’insieme la criminalità giovanile è in diminuzione: negli ultimi due anni è calata del 20 per cento”. Secondo Čaban, una soluzione possibile sarebbe militarizzare di nuovo la regione. Fino a qualche tempo fa, infatti, Čita era il quartier generale del distretto militare siberiano (i distretti militari sono le zone in cui sono suddivise le forze armate russe), ma nel 2010, in seguito a una riorganizzazione dell’esercito, le risorse sono state spostate più a est, a Chabarovsk, lasciando gli adolescenti senza modelli di comportamento legali. Il vicegovernatore racconta poi che Mosca sta cercando di promuovere nuovi programmi militari, patriottici e sportivi: “È stata da poco aperta una succursale dell’Istituto Suvorov, la più importante scuola militare russa. Speriamo che i ragazzi comincino a parlare con i militari invece che con i criminali”. Roman Sukačëv, che dirige il Centro per i diritti umani della regione, non ha la stessa iducia nella strategia del governo. Dice che per afrontare un problema come l’Aue bisogna prima di tutto “misurarsi con l’intera ilosoia” di cui è permeata la vita pubblica in Russia. “È difficile ridurre l’influenza dell’ideologia criminale quando uno dei più importanti canali della tv pubblica la notte di Capodanno manda in onda uno speciale sulle canzoni della malavita”, commenta. Il governo regionale deve anche “fare chiarezza” sui rapporti tra i capi della polizia locale e gli esponenti della criminalità. Sukačëv mi fa vedere un video in cui un uficiale della polizia e il braccio destro di un boss si ubriacano insieme. “È tutto intrecciato. La polizia concorda le regole con i boss della malavita e i cittadini possono fare ben poco”, conclude. Alcuni abitanti della regione non sembrano più aver iducia nel governo. I genitori di Novopavlovka, per esempio, vogliono sottoporre il loro problema a “istanze superiori”. “Le regole della malavita stabiliscono che non bisogna mai coinvolgere la polizia”, dice Ivan. “Perciò abbiamo deciso di prendere contatti un po’ più in alto nella loro catena di comando. L’unica soluzione per permettere al nostro villaggio di dormire in pace è che i vertici criminali rimettano tutti al loro posto”.