domenica 1 maggio 2016

Il Sole Domenica 1.5.16
La fabbrica delle vocazioni
Prosperi ricostruisce la storia collettiva dei gesuiti, l’ordine basato sulla chiamata divina e sull’obbedienza per salvare la Chiesa
di Massimo Bucciantini

«Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore alla vita. Esso può prendere diverse forme, e a volte un ragazzo svogliato, solitario e schivo non è senza amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato di attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos’è la vocazione d’un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita?». Non ho trovato parole migliori di queste per iniziare. Che sono racchiuse in un breve scritto pubblicato la prima volta su «Nuovi Argomenti» nel 1960. Le piccole virtù di Natalia Ginzburg – di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita – sono un saggio senza tempo. Dieci paginette o poco più, ma che una volta lette è difficile dimenticare. Dove la ricerca di una vocazione intesa come «passione ardente ed esclusiva», come «vera salute e ricchezza dell’uomo», che nulla ha a che vedere con il successo e il denaro, diventa il migliore augurio che un padre e una madre possano fare pensando al futuro dei propri figli. Un’idea di vocazione interiore, inscritta in un universo integralmente laico, in cui c’è la piena libertà di scegliere, e dove il genitore a un certo punto sa quello che deve fare: attendere, «in silenzio e un poco in disparte», che la vocazione del figlio «si svegli, e prenda corpo».
Anche al centro dell’ultimo libro di Adriano Prosperi c’è il tema della vocazione, ma il modo in cui è declinato va in una direzione diametralmente opposta a quella indicata dalla Ginzburg. Più che l’educazione alla libertà di pensare (e di sbagliare) qui è l’educazione all’obbedienza il perno attorno al quale ruota l’intera storia. «L’essere gesuita fu una scelta di appartenenza costruita e tutelata in nome di una chiamata che strappava i figli alla famiglia terrena e non tollerava tradimenti». Sono queste le fondamenta del nuovo Ordine che fin dal suo nascere diventò il più influente e potente della Chiesa cattolica. E Prosperi le indaga a partire da un accurato esame delle autobiografie che venivano richieste dai superiori a numerosi membri della Compagnia.
Dalla seconda metà del Cinquecento raccontare i particolari della propria vocazione diventò uno degli strumenti impiegati per rafforzare la memoria e la storia dell’Ordine come corpo scelto e guidato da Dio. Nessun altro ordine religioso ha dedicato tanta attenzione ed energia a raccogliere e a diffondere le testimonianze sul come e perché molti giovani decidessero all’improvviso di convertirsi e cambiare radicalmente il loro stile di vita. Alla base di questa grande impresa c’era l’esigenza di costituire un corpo «dello stesso colore», come aveva scritto Ignazio di Loyola nelle Costituzioni, «un gruppo umano fuso perfettamente come un solo blocco statuario e periodicamente richiamato alla sua prima vocazione». A maggior gloria di Dio, come recitava il suo motto.
Autobiografie imposte dall’alto, come spiega Prosperi, in cui ciò che contava non era ripercorrere tutte le vicende della propria vita, ma narrare quel preciso e cruciale istante in cui era stato percepito l’invito del Signore a seguirlo. Una storia collettiva dunque, dove ciascuno aveva il compito di ricordare a sé e agli altri quel punto di frattura tra passato e futuro, tra una vita di peccato e una nuova vita segnata dall’assoluta obbedienza a Dio. E che si materializzò col mettere per iscritto il significato del passaggio a un’identità nuova. Come, con i suoi strumenti, fece Caravaggio, quando gli fu richiesto di dipingere la Vocazione di San Matteo per la Cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi a Roma. Il quadro, che è riprodotto sulla copertina del libro, raffigura infatti la vocazione come una lama di luce che investe la persona “chiamata” e «trasforma immediatamente in apostolo il gabelliere intento a raccogliere il danaro».
Naturalmente quell’invito non era rivolto a tutti, perché non tutti avevano la forza di accoglierlo. Era un invito speciale per il raggiungimento della perfezione sia della propria anima sia dell’Ordine a cui appartenevano, un corpo creato per intervento divino, e quindi come tale provvidenziale per la salvezza della stessa Chiesa. Insomma una milizia combattente per Cristo che doveva ramificarsi sull’intera faccia del pianeta e che trovava negli Esercizi spirituali del suo fondatore non tanto un libro di devozione o di propaganda religiosa quanto un vero e proprio manuale operativo, fisico e spirituale insieme, come poteva esserlo un testo di strategia militare. E non è certo un caso che quando il giovane principe Federico Cesi decise di creare l’Accademia dei Lincei, nella definizione della sua organizzazione (i collegi) e dei regolamenti per i suoi affiliati (le costituzioni) si ispirasse proprio al modello vincente della Compagnia. Anche i Lincei furono e si percepirono come una “militia”, sebbene vocata al progresso della scienza, all’«acquisto delle filosofiche e matematiche scienze».
Inventare la perfezione. Come trasmetterla ai nuovi membri delle generazioni future. Di questo si trattava. E da questo punto di vista le pagine dedicate al gesuita spagnolo Girolamo Nadal sono esemplari. Fu lui, nel 1553, insieme al confratello Juan Alonso de Polenco, a sollecitare Ignazio a raccontare l’esperienza spirituale della sua vita. E fu ancora lui, negli anni 1561-62, a correre in lungo e in largo per l’Europa per spiegare a chi voleva farsi gesuita quali fossero le ragioni profonde di una simile scelta, tenendo prediche, esponendo le Costituzioni, interrogando novizi e padri provinciali, distribuendo questionari tra tutti i membri della Compagnia, rafforzando in loro fiducia ed entusiasmo. Si trattò – scrive Prosperi – «di un vasto censimento, una vera e prova capitale per un organismo giovane e in crescita rapida, esposto al pericolo della dispersione ma ancor più a quello dei dubbi e delle crisi individuali».
Un’ultima annotazione prima di chiudere. Probabilmente questo libro non esisterebbe se chi lo ha scritto, per sua stessa ammissione, non avesse letto il saggio di Marco Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956) (Feltrinelli), in cui sono messe in evidenza le strette somiglianze tra i metodi educativi dei Gesuiti e le scuole di formazione politica istituite dal Partito comunista nell’Italia degli anni Cinquanta, «tra le autobiografie orali e scritte dei militanti comunisti e le domande previste nell’“Esame generale” a cui la Compagnia sottoponeva i candidati». Simili debiti di riconoscenza non rappresentano una novità. Ma spesso le fonti d’ispirazione vengono ricordate in modo fugace nella pagina dei ringraziamenti oppure finiscono per essere seppellite in qualche sperduta nota per iniziati. Dichiararlo nelle pagine di apertura è la cifra di uno stile, di un modo di fare storia cui siamo sempre meno abituati.
Adriano Prosperi, La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento , Einaudi, Torino, pagg. XIX, 250, € 30

Il Sole Domenica 1.5.16

Emanuele Tonon
Noi eunuchi per il regno dei cieli
di Roberto Carnero

Dal risvolto di copertina del nuovo libro di Emanuele Tonon, Fervore (Mondadori), apprendiamo che l’autore, classe 1970, dopo aver lavorato fin da ragazzo come operaio nell’industria del legno, a diciannove anni è entrato nel convento francescano di Spello. Sette anni più tardi, durante il triennio teologico ad Assisi, smetterà l’abito religioso in seguito a una crisi vocazionale.
Queste informazioni aiutano a inquadrare la materia dell’opera di Tonon, la quale - più che un romanzo, come recita la copertina del volume in omaggio alla dicitura ritenuta commercialmente più appetibile - è in realtà una trasposizione in chiave di mémoire del primo anno di noviziato di un protagonista che evidentemente intrattiene con lo scrittore alcuni tratti in comune. Questi è un ventenne che ha rinunciato al mondo per disperazione: «Non ce la facevi più, pensavi solo a toglierti la vita. Non potevi sopportare l’idea di una vita intera spesa nel capannone di una fabbrica, tra calci in culo e bestemmie declamate in una lingua che ti era stato impedito di parlare».
Entrare in convento significa per lui cercare di accedere alla dimensione dell’assoluto, alla relazione intensa e totalizzante con un Dio che però, nelle parole del narratore, ora si profila come un Dio «immaginato», costruito dall’essere umano per riempire il vuoto che altrimenti finirebbe per invaderlo portandolo alla disperazione. La vita del convento viene rievocata scandendo le giornate di questi «giovani eunuchi», «eunuchi per il regno dei cieli» (come si esprime Gesù nel Vangelo di Matteo), che reprimono la fisicità prepotente dei loro vent’anni per rivestirsi di assoluto, quasi rinunciando alla vita concreta, la quale è «sangue che pulsa».
Non abbiamo, di fatto, una vera e propria narrazione, quanto la descrizione delle azioni ripetute e degli stati d’animo del protagonista in una prosa liricheggiante spesso visionaria, intonata ai contenuti del libro nella misura in cui tende a inglobare al proprio interno tessere del lessico biblico e liturgico («ogni alba il nostro fiato diventava una dossologia del vento»; «Di lì a qualche minuto il canto dei salmi ci avrebbe aperto la bocca, ci avrebbe sciolto la lingua» ecc.). Eppure questo linguaggio peculiare genera in chi legge un senso di straniamento: lo scrittore sembra ormai aver rinunciato a una visione religiosa dell’esistenza; al contrario appare essere approdato a una lettura puramente materialistica della vita. Per questo la rievocazione quasi onirica che conduce Tonon di quel passato ormai irrecuperabile ha qualcosa di davvero struggente.
Emanuele Tonon, Fervore , Mondadori, Milano, pagg. 108, € 17

Il Sole Domenica 1.5.16
Droghe e religione
Allucinate esperienze mistiche
di Paolo Nencini

Psilocibina e Lsd sono gli esponenti più noti di un’ampia classe di composti, per lo più di origine naturale, capaci di produrre profonde alterazioni dello stato di coscienza. Definiti genericamente come allucinogeni, hanno nel tempo ricevuto varie denominazioni – psichedelici, psicotomimetici, psicodislettici – che testimoniano dei molteplici impieghi di questi farmaci: voluttuario, certamente, ma anche tentativamente terapeutico in varie condizioni psicopatologiche, e, infine, per indurre esperienze mistiche, da cui un altro neologismo oggi assai utilizzato, enteogeni.
La loro storia è stata assai travagliata: dopo aver goduto negli anni 50 di una grande fortuna a opera del proselitismo di intellettuali della fama di Aldous Huxley e di psichiatri che utilizzavano l’Lsd per ridurre le resistenze del paziente al colloquio, gli allucinogeni incapparono nella mannaia della legge stupefacenti in conseguenza del gran baccano sollevato dallo slogan «Turn on, tune in, drop out» di Timoty Leary, psicologo ad Harvard. Caduto su di essi il silenzio della scienza ufficiale, hanno continuato a godere di grande considerazione in movimenti di religiosità individuale, tipicamente americani.
Assai copiosa è la produzione saggistica per lo più finalizzata a costruire una sorta di mitologia fondativa che vorrebbe l’esperienza enteogena centrale nella nascita delle religioni. Sfortunatamente, la qualità delle evidenze prodotte è davvero scarsa se non proprio imbarazzante; si pensi al famosissimo Road to Eleusis, tra i cui autori si annovera Hoffman, l’inventore dell’Lsd, o al Food of the Gods di McKenna, o, all’ancor più recente Psychedelic Renaissance dello psichiatra inglese Ben Sessa, dove, ad esempio, si ipotizza che Gesù fosse uno sciamano dai lunghi capelli e calzato di sandali, con una profonda conoscenza di pratiche botaniche del tempo riguardanti erbe e funghi.
Certamente di migliore qualità è l’appena pubblicato Sacred Knowledge. Psychedelics and Religious Experiences di William A. Richards, psicologo clinico coinvolto fin dagli anni 60 nello studio degli enteogeni. Uno dei pregi del libro consiste proprio nella testimonianza personale delle varie vicende che hanno caratterizzato gli studi clinici su tali sostanze, a partire dal famoso esperimento del Venerdì Santo, dove un talentuoso psichiatra e studente di teologia, Walter Pahnke aveva studiato, utilizzando un apposito questionario che sarà poi ulteriormente elaborato da Richards stesso («Pahnke-Richards Questionnaire»), l’esperienza mistica indotta dalla psilocibina in alcuni studenti di teologia che ascoltavano il sermone del Venerdì Santo nella Cappella dell’Università di Harvard. Fino a narrare il recente risorgere degli studi indirizzati a esplorare gli effetti enteogeni della psilocibina, condotti da Roland Griffith, un autorevolissimo psicofarmacologo della John Hopkins, ma anche a stabilire l’efficacia di questo e di altri allucinogeni come agenti palliativi nel cancro terminale, argomento a cui Richards dedica pagine davvero toccanti, frutto della sua lunga esperienza personale.
L’approccio dell’autore è quello del ricercatore attento alle modalità di acquisizione dell’evidenza e a ogni piè sospinto suggerisce studi atti a risolvere i dubbi sull’efficacia di questi farmaci, non solo come agenti palliativi ma anche in varie patologie psichiatriche, dalle dipendenze al disturbo da stress postraumatico, dove in effetti quelli in corso sembrano fornire risultati promettenti. E ha tutte le ragioni nel recriminare sul tempo perduto a causa dei vincoli legali, incomprensibili alla luce della generale sicurezza tossicologica di queste molecole e della penuria di novità che affligge la psicofarmacologia. V’è tuttavia un serio problema nel modello teorico proposto da Richards e consiste nella frammistione tra scienza e teologia che percorre il suo ragionare e che lo porta a voler spiegare teologicamente appunto i risultati degli studi empirici. Richards infatti è pienamente convinto che l’esperienza farmacologica con gli allucinogeni sia realmente enteogena, conducendo il soggetto oltre i confini della realtà percepita dai sensi a cogliere verità trascendenti. Ed è appunto all’accedere a una realtà trascendente che in ultima analisi riferisce i benefici che si ottengono con l’uso di questi farmaci. Per l’autore, quella che per i neurofisiologi è un’alterazione dello stato di coscienza, è infatti un «alternate state of consciousness» che a quella conoscenza superiore dà accesso.
In ciò Richards è immediato debitore del «cleansing the doors of perception» di Huston Smith, uno dei padri del movimento enteogeno, ma anche della ipotesi di «intensificata traiettoria» dello «spettro di stati di coscienza» verso esperienze visionarie, proposta dall’antropologo sudafricano Lewis-Williams; per non parlare poi di Mircea Eliade che tuttavia viene sempre scotomizzato in questa letteratura forse per quel suo svalutare l’esperienza farmacologica.
È pur vero che sul breve termine la debolezza del modello interpretativo non inficia la validità del dato empirico (la storia della farmacologia è piena di farmaci che continuano a svolgere il loro onesto lavoro terapeutico a fronte di radicali mutamenti interpretativi), ma è altrettanto vero che una spiegazione essenzialmente oggetto di fede non ha molte possibilità di accogliere nuove conoscenze. Anche l’affiorare di questi limiti rende tuttavia il libro un’ottima occasione per farsi una idea circa un tema assai poco frequentato in Italia.
William A. Richards, Sacred Knowledge. Psychedelics and Religious Experiences , Columbia University Press, New York,  pagg. 280, $ 28,99

Il Sole Domenica 1.5.16
La devozione mariana
Nostra Signora di maggio
di Gianfranco Ravasi s.j.

La tradizione cattolica dedica questo mese alla Vergine Maria, la figura forse più invocata dai fedeli e citata dagli scrittori, da Dante a Pasolini. E venerata persino nel Corano
Anche chi non ha più nessuna pratica religiosa conserva il ricordo del mese di maggio come del tempo dedicato alla madre di Gesù, Maria, contrassegnato in passato dai cosiddetti “fioretti”, piccoli sacrifici da offrire alla Vergine. È, questa, una devozione tipicamente italiana, iniziata nel Settecento e poi diffusa in altre nazioni, soprattutto in connessione col mondo agrario e la stagione primaverile. Studiosi importanti della pietà popolare, come il famoso francescano svizzero Giovanni Pozzi (1923-2002) e il sacerdote lucano-romano Giuseppe De Luca (1898-1962), vagliarono a livello storico-critico e letterario questo imponente fenomeno socio-religioso. Si pensi che uno dei vari libretti destinati a incrementare la qualità mariana del maggio italiano, il Mese di Maria di Alfonso Muzzarelli, pubblicato a Ferrara nel 1785, ebbe in pochi decenni più di 150 edizioni!
A questo proposito è significativo registrare un dato pastorale ancor oggi rilevante, nonostante l’onda secolarizzante. Il prossimo 8 maggio sarò a Pompei, invitato a presiedere la celebre Supplica alla Madonna nella piazza antistante il noto santuario mariano eretto tra il 1876 e il 1939, meta di pellegrini ma anche di turisti provenienti dai vicini scavi archeologici. Alla base di questa tradizione popolare c’è uno scritto di un avvocato, Bartolo Longo, che consacrò tutta la sua vita (1841-1926) alla cura dei malati e dei poveri: esso s’intitola I quindici sabati del santissimo rosario (1877), e quella che ho tra le mani è la 75a edizione datata 1981! Ma per rendere ragione dell’ampiezza sotterranea di questa letteratura devozionale mariana, si pensi che lo scritto più noto del Longo, la Novena d’impetrazione alla SS. Vergine del rosario di Pompei (1889), nell’esemplare che ho potuto consultare, datato 1974, si nota che si tratta della 1153a edizione!
La devozione mariana popolare è certamente una realtà pastorale di grande rilievo (basti citare i santuari di Loreto, Lourdes, Fatima e il recente e problematico caso “Medjugorje”), ma lo è anche a livello di antropologia culturale, tant’è vero che la bibliografia è, al riguardo, sterminata. Né si deve escludere la più specifica riflessione teologica, la cosiddetta “mariologia” che si affida ormai a vere e proprie biblioteche di trattati, dizionari, saggi, riviste, accademie, centri di ricerca: uno studioso, Tiziano Civiero, segnalava che «una buona biblioteca mariana è composta da non meno di 20-23mila volumi». Si pensi, poi, al risalto che ha la figura della madre di Gesù nel dialogo interreligioso con l’Islam. Maryam, infatti, è l’unica donna chiamata per nome nel Corano che le intitola un’intera sura, la XIX, e la evoca in molte altre, in particolare la III.
Anche la tradizione musulmana le assegna la missione alta di generare verginalmente il profeta Gesù attraverso lo spirito di Dio. La invoca, poi, Sayyidatunâ, «nostra Signora» e la considera una delle quattro donne sante per eccellenza, con la figlia del faraone che salvò Mosè, con Cadigia e Fatima, rispettivamente moglie e figlia di Maometto. Nel giorno del giudizio sarà la prima, tra le donne e gli uomini, ad avanzare davanti al Dio giudice supremo, espletando così una funzione di intercessione. Ma ritorniamo alla mariologia cristiana per segnalare un evento particolare che si collega al discorso precedente sull’impatto che questa figura ha nel cristianesimo, non solo cattolico (si pensi allo spicco che ha Maria nella liturgia, nella spiritualità, nell’arte ortodossa delle icone e nella stessa letteratura religiosa, ad esempio, con lo splendido inno Acatisto).
Pochi giorni fa, il 28 aprile, è caduto il terzo centenario della morte di un sacerdote francese, Luigi-Maria Grignion de Monfort, nato a Monfort-sur-mer in Bretagna nel 1673, canonizzato da Pio XII nel 1947. La sua presenza nella storia della Chiesa è, certo, legata alle congregazioni religiose da lui fondate (in particolare la Compagnia di Maria, i Monfortani appunto, ai quali a Roma è persino intitolato un viale nella zona di Torrevecchia). Ma lo è soprattutto per l’impulso da lui dato alla spiritualità mariana. Nel 1713, infatti, egli compose un Trattato della vera Devozione a Maria Vergine che fu ritrovato solo nel 1842 e pubblicato l’anno successivo: da allora ebbe più di quattrocento edizioni e divenne un classico del genere. La sua era un’impostazione ben lontana da un certo devozionismo esasperato e persino degenerato che si registra anche ai nostri giorni e che è più da rubricare come un fenomeno psico-sociologico, ben evidente in molte attestazioni pubbliche e personali eccessive.
Il suo, infatti, era un attento dosaggio tra dottrina e sentimento, con la stella polare della cristologia, destinata a guidare il “vero” percorso devozionale. Non per nulla l’impegno pastorale dominante in Grignion de Monfort erano le missioni predicate al popolo: durante la sua vita ne compì ben duecento nelle aree rurali di Francia con la meta finale della rinnovazione delle promesse battesimali da parte del cristiano, che siglava un “patto di alleanza” con Dio per edificare un mondo più giusto e santo. Sono curiosi le incisioni e i disegni a noi pervenuti delle processioni di chiusura di queste missioni, con file immense di fedeli, come quella tenutasi il 16 agosto 1711 a La Rochelle, tutta al femminile. Questo aspetto nazional-popolare – a cui finora abbiamo fatto riferimento – non deve far dimenticare che esiste un’importante e mirabile letteratura mariana “alta”.
Si potrebbe, in questo senso, comporre un grandioso “canzoniere” mariano, naturalmente a partire da quello straordinario canto XXXIII del Paradiso dantesco, capace di intrecciare in armonia suprema la teologia con la poesia, meritatamente reso popolare da Benigni. Ma ci sarebbero subito da allegare Boccaccio, col sonetto O Regina degli angioli, o Maria, e Petrarca con la canzone Vergine bella, che di sol vestita, per non parlare del Pianto de la Madonna di Iacopone da Todi, giù giù fino al Tasso che canta la Madonna di Loreto, a Parini, Manzoni, Pascoli, Rilke, Ungaretti, e persino Pasolini che, nell’Usignolo della Chiesa Cattolica, ci ha lasciato un’Annunciazione e una Litania.
Sono molte, infatti, le presenze inattese di fronte alla «Vergine Madre, figlia del tuo figlio». Che il filosofo Vico componga un sonetto per la festa dell’Immacolata del 1742 a Napoli è comprensibile, ma che Sartre ateo dichiarato offra un’eccezionale e teologicamente impeccabile confessione personale di Maria mentre stringe tra le braccia il neonato Gesù può certamente sorprendere (la si legga nel dramma Bariona o il figlio del tuono, composto nello Stalag XII D di Treviri nel Natale 1940, ove il filosofo era internato). Noi, un po’ in anticlimax, evochiamo in finale il più popolare Trilussa con questi suoi versi semplici e delicati: «Quand’ero regazzino, mamma mia / me diceva: “Ricordati, figliolo, / quanno te senti veramente solo / tu prova a recità ’n’Ave Maria. / L’anima tua da sola spicca er volo / e se solleva, come pe’ maggia». / Ormai so’ vecchio, er tempo m’è volato; / da un pezzo s’è addormita la vecchietta, / ma quer consijo non l’ho mai scordato. / Come me sento veramente solo / io prego la Madonna benedetta / e l’anima da sola pija er volo!».

Il Sole Domenica 1.5.16
Filosofia politica
Il rifiuto di Satana all’Islam
di Sebastiano Maffettone

Sadik al-Azm è forse il più importante filosofo arabo vivente. Siriano, discendente di una nobile famiglia, PhD a Yale, autore di un prezioso libro su Kant, non ha mai voluto essere un intellettuale arabo all’estero. Dopo le esperienze americane, è perciò tornato e ha insegnato per molti anni in Libano.
La sua vita nel mondo arabo non è stata però facile: imprigionato, processato, con i suoi libri sempre all’indice, criticatissimo, inviso alle autorità, ha dovuto alfine di nuovo recarsi all’estero e negli ultimi anni ha insegnato prima a Princeton e poi in Germania, dove nel 2014 ha conseguito il prestigioso Premio Goethe.
Il perché di tanta ostilità in patria lo si comprende facilmente se si legge questo suo libro intitolato La tragedia del diavolo. Il libro, come spiega Francesca Corrao nella sua introduzione, verte sostanzialmente sul rapporto tra fede e scienza. Al-Azm vede l’Islam nel suo complesso come una religione oscurantista cui contrappone la scienza moderna e la rivoluzione industriale, ponendosi nelle vesti di una sorta di Voltaire della sua cultura.
Curiosamente, La tragedia del diavolo –pur pubblicato per la prima volta in arabo nel 1969- torna ora di attualità nel mondo occidentale dove vedono le luci numerose traduzioni dei suoi scritti- in questi anni tormentati che vanno dall’11 settembre alla nascita dell’ISIS. Il libro contrappone modernizzazione, vista come secolarizzazione, e religione.
Quando fu scritto originariamente traeva ispirazione dalla sconfitta araba nella guerra dei sei giorni e dal tramonto dell’Egitto nasseriano cui si contrapponeva la crescita dell’Arabia wahabbita, tutto ciò nell’ambito di un evidente declino del mondo arabo.
Facile dedurre che la lotta per l’Illuminismo e la secolarizzazione di al-Azm vogliano esser anche una spiegazione di quel declino: una cultura che sacrifichi la ragione scientifica –quella della fisica e di Darwin ma anche di Marx per il pensatore della sinistra araba- si auto-condanna alla crisi e alla sconfitta. Satana (Iblìs in arabo), all’interno di questo ragionamento, è una sorta di simbolo di questo declino. Satana, è un angelo, una creatura superiore, che dio pretende di far inchinare davanti all’uomo, a lui gerarchicamente inferiore nella scala degli esseri creati.
Così letto, il rifiuto di Satana, lungi dall’essere il paradigma della colpa, diventa l’emblema della libertà dell’uomo che rigetta il principio di autorità. Solo se l’uomo arabo disobbedirà come Satana, rifiutando i dogmi dell’Islam, riuscirà a conquistare la modernizzazione e per conseguenza a evitare il declino tramite la scienza e l’industria.
Naturalmente, possiamo dire che oggi una tesi del genere ci sembra semplicistica, e che non è detto che la modernizzazione araba debba seguire la via europea della secolarizzazione. Tuttavia, il fatto che simili argomenti fossero ben presenti nel mondo arabo quasi cinquanta anni orsono è di grande interesse, soprattutto alla luce del notevole livello analitico e filosofico cui opera l’autore di questo libro.
Sadik Al-Azm , La tragedia del diavolo (fede, ragione e potere nel mondo arabo) , traduzione a cura di Michele Bocchiola, Luiss University Press, Roma, pagg. 206, € 20


Il Sole Domenica 1.5.16

Sì, viaggiare (nel tempo)
Le scorciatoie del baco
A spasso tra cunicoli e «wormhole», Everett e Roman raccontano in modo chiaro e mai banale le teorie della relatività
di Vincenzo Fano

«Papà è possibile viaggiare nel tempo?», «Sì figlio mio, dopo la scoperta delle teorie relativistiche», «E allora, papà, perché non andiamo a vedere se Gesù sia veramente risorto?», «Beh non è così semplice: è fisicamente possibile, ma siamo lontani dal riuscire a realizzarlo». Quale modo migliore di interessare un giovane alle teorie di Einstein indirizzando la sua attenzione sui viaggi nel tempo? Così Everett e Roman raccontano in modo chiaro ma mai banale le teorie relativistiche, mantenendo come filo conduttore quello dei viaggi nel tempo.
Come spesso accade, i primi a pensare i viaggi nel tempo, sono stati gli artisti e in particolare Herbert George Wells con il suo romanzo La macchina del tempo (1895). Nel 1905 Einstein, subito dopo aver scoperto la teoria della relatività ristretta, si rende conto che se sincronizziamo due orologi e poi ne mandiamo uno a velocità vicina a quella della luce nello spazio lungo un viaggio di andata e ritorno, quando arriva, a causa delle dilatazioni temporali, è molto più indietro di quello rimasto a terra. Poi il fisico francese Paul Langevin (1911) immaginò che i due orologi fossero due gemelli, così che quello che ha viaggiato tornerebbe più giovane del fratello. Il gemello spedito nello spazio quindi ha compiuto un vero e proprio viaggio nel futuro. Questo è un effetto fisico confermato empiricamente fin dal 1972 nel bell’esperimento di Hafele e Keating, realizzato con orologi al cesio trasportati su aerei di linea.
È possibile viaggiare nel passato, come voleva il bambino alla ricerca della conferma empirica della resurrezione? La teoria della relatività ristretta non lo consente, poiché occorrerebbe muoversi a velocità superluminali. Le cose cambiano in relatività generale, dove le masse grandi e dense possono curvare lo spazio-tempo. Sempre Einstein, assieme al suo collaboratore Nathan Rosen, nel 1935 scopre che le equazioni della relatività generale consentono la formazione di veri e propri ponti spazio-temporali, che poi John Archibald Wheeler chiamerà «w ormhole», buchi di verme, perché un baco, per andare da un punto all’altro della superficie di una mela, può prendere la scorciatoia scavandosi un cunicolo. Così questi ponti possono abbreviare la distanza spazio-temporale fra due punti lontani dell’universo.
I wormhole previsti da Einstein sono instabili, mentre Kip Thorne nel 1988 ha mostrato che ne esiste un altro tipo, più realistico, che però, per essere costruito, cioè per diventare una vera e propria macchina del tempo, avrebbe bisogno della cosiddetta «materia esotica», che, appunto, è esotica e quindi poco diffusa.
Lasciamo allora perdere, per adesso, le nostre speranze di viaggiare nel tempo e chiediamoci se questi fenomeni possano capitare naturalmente. In effetti alcune possibili strutture dello spazio-tempo fisicamente plausibili lo consentirebbero, come ad esempio i buchi neri rotanti caratterizzati dalla metrica di Kerr. Ma a questo punto allora dobbiamo affrontare il cosiddetto «paradosso del nonno». Se potessi viaggiare nel passato e volessi suicidarmi, ma non ne avessi il coraggio, potrei andare a uccidere mio nonno ancor prima che concepisca mio padre.
Più realisticamente, una particella entra in un cunicolo spazio-temporale torna indietro nel tempo e va a collidere con essa stessa impedendole/impedendosi di entrare nel wormhole! Come è possibile?
Il grande metafisico David Lewis rispose nel 1976 che in un certo senso «le forze della logica» vieterebbero alla particella di modificare in quel modo il proprio passato. Giustamente Everett e Roman non prendono seriamente in considerazione siffatte elucubrazioni. Potrebbe allora essere che valga una sorta di «protezione della cronologia», come la chiama Stephen Hawking, che rende impossibili tali scabrose situazioni. Tuttavia per ora questa è solo una congettura. Forse il cambiamento nel passato avviene in un altro mondo parallelo, come nel film Man in black 3, e come ipotizzato da David Deutsch, l’inventore dei computer quantistici e sostenitore dell’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica. È un’ipotesi affascinante, ma parecchio speculativa.
Strano però che i due autori non prendano in considerazione il pensiero di John Earman, uno dei maggiori filosofi viventi, il quale sottolinea che se i viaggi nel tempo sono fisicamente reali, allora dobbiamo trovare nella fisica che già conosciamo e in quella nuova che potremmo scoprire le ragioni a posteriori che rendono impossibile il paradosso del nonno.
A. Everett, T. Roman, Come viaggeremo nel tempo , Il Saggiatore, Milano, pagg. 364, € 24


Il Sole Domenica 1.5.16
I quaderni del Pda
Terza forza oltre i luoghi comuni
diMassimo Teodori

Negli scritti tra il 43 e il 46 un pensiero democratico e riformatore che avrebbe lasciato segni incisivi nella politica dei decenni successivi ma anche forzature sulla sua reale identità
Si è molto discusso della persistenza nella Repubblica dello spirito del Partito d’Azione, la forza politica antifascista nata nel 1942 e dissoltasi nel 1947, più di quanto si sia analizzato lo specifico ruolo degli azionisti nella lotta partigiana. Il partito, che ha avuto il merito di non lasciare l’eredità della Resistenza al monopolio del Partito comunista, è stato visto come il punto di partenza di tendenze permanenti che hanno poco o nulla a che fare con la storia di quella stagione. Il PdA è stato considerato dalla storiografia progressista come la matrice di un fumoso azionismo, “fiume carsico” della storia d’Italia; e dalla pubblicistica tradizionalista come l’origine di tutti i giacobinismi degli ultimi sessant’anni. A noi tuttavia pare che non si possano ricondurre alla forza politica della Resistenza le vicende individuali che si sono sviluppate dopo gli anni ’40 del Novecento in quanto la vicenda del Partito non oltrepassa la Costituente. Da allora si è sviluppata la diaspora degli ex-azionisti che sono divenuti protagonisti, talvolta di primo piano, di tante storie individuali quante sono state le appartenenze alle diverse sigle partitiche come per Riccardo Lombardi nel Partito socialista, per Ugo La Malfa e Oronzo Reale nel Partito repubblicano, per Emilio Lussu e Vittorio Foa tra i socialisti di sinistra, per Ernesto Rossi, Leo Valiani e Mario Paggi nel Partito radicale, e per Aldo Garosci nella socialdemocrazia.
Con i due volumi contenenti la ristampa dei 20 Quaderni del Partito d’Azione pubblicati tra il giugno 1944 e il marzo 1946 si rende oggi disponibile una documentazione difficilmente reperibile che ridimensiona le interpretazioni sia degli adulatori che dei denigratori dell’azionismo. Gli scritti, datati tra il 1943 e il 1946, confermano l’eterogeneità del partito che allora, tra Resistenza e Repubblica, svolse un ruolo cruciale . Nel PdA si confrontarono diverse tesi politiche e ideologiche: la massimalista di Lussu e la socialista di Federico Comandini, la democratica di Riccardo Bauer e Manlio Rossi Doria, la liberaldemocratica amendoliana di La Malfa, la liberalsocialista di Guido Calogero e Aldo Capitini, e la socialista liberale rosselliana di Garosci. Non per niente gli azionisti delle correnti che hanno lasciato il segno anche nei manifesti programmatici – tra cui i “Sette punti” del gennaio 1943”, e i “Sedici punti” del post-8 settembre – presero strade divergenti dopo la dissoluzione del Partito. Gli azionisti erano stati i primi a impostare la questione della Repubblica pur non ponendo ostacoli alla collaborazione con la Monarchia come i repubblicani di Pacciardi. Avevano assicurato con “Giustizia e Libertà” un contributo militare e di sangue alla lotta partigiana, ed avevano svolto fino al 1945 nei Comitati di liberazione al Centro e in Alta Italia una funzione alternativa al realismo comunista di ispirazione sovietica. Contribuirono notevolmente anche al dibattito programmatico del tempo come è testimoniato nel volume dei Documenti tematici dagli scritti di Arturo Carlo Jemolo sul decentramento amministrativo, di Franco Momigliano sull’organizzazione del lavoro, di Guido Dorso sulla questione meridionale, di Adolfo Omodeo sulle forze armate e di Maria Comandini Calogero sui diritti delle donne.
Quando però si continua oggi a discutere dell’azionismo lunga coda del Partito d’Azione, fioriscono le più svariate interpretazioni anche di sapore leggendario. I torinesi sostengono un filo rosso con Gobetti che non si rintraccia in alcun documento politico e programmatico del tempo: se mai nel pantheon azionista devono far parte Turati, Matteotti, Amendola e, naturalmente, Rosselli. Altri epigoni tentano di accreditare l’azionismo come matrice di una intoccabile Costituzione “più bella del mondo” mentre alla Costituente furono proprio gli azionisti Piero Calamandrei e Leo Valiani, memori di Weimar, a sostenere una forma di governo forte con la Repubblica presidenziale sulla scia delle Tesi del primo congresso nazionale del partito elaborate da Paggi, Calogero, Garosci e Achille Battaglia. E non corrisponde neppure alla realtà storica la visione dell’azionismo quale punto di partenza della sinistra con venature giacobin-giudiziarie. È vero che l’intransigenza e il rigore morale accomunò gli esponenti azionisti di allora, ma se una linea comune deve essere rintracciata nella varietà di orientamenti, non può riferirsi che al PdA come primo tentativo - perdente - di costituire in Italia una “terza forza” del ceto medio antagonista ai comunisti e ai moderati ispirata alla democrazia riformatrice che allora lasciava il segno in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Lo dicono i documenti ora pubblicati che dovrebbero mettere fine, come auspica Adolfo Battaglia nella prefazione all’opera, agli equivoci storiografici alimentati intorno all’azionismo.
AA.VV. ,Tra Eresia e Santità
I Quaderni politici del Partito d’Azione. Il dibattito tra i leader , Vol. I, pagg. 236;
I Quaderni tematici del Partito d’Azione: decentramento, sindacato, Mezzogiorno, Forze Armate, questione femminile, Resistenza , Vol II, pagg. 248;
Il Settimo libro (www, ilsettimolibro.it), i volumi sono indivisibili; € 36


Il Sole Domenica 1.5.16
Il rapporto con Giustizia e Libertà
di Giorgio Dell’Arti

Italia Libera. «L’Italia Libera» di Roma, n. 1, 1° gennaio 1943, che più che un giornale era un minuscolo giornalino di pochi fogli, contiene il seguente appello: «Italiani, per la salvezza, la libertà della Nazione, per una pace di dignità, per dare a tutti gli uomini “Giustizia e Libertà” preparatevi, organizzatevi nel Partito d’Azione, combattete».

G.L. Che era il Partito d’Azione e che Giustizia e Libertà? V’era un legame tra i due movimenti? E quale? Sulla questione, oggi è caduta molta luce, ma nell’estate e nel primo autunno del ’43, parecchi del P.d’A. negavano ogni e qualsiasi derivazione diretta o indiretta da G.L. e fra i più decisi ad affermare l’assoluta autonomia dell’origine del partito era La Malfa. Sennonché Fancello, Bauer e Siglienti che ora aderivano al Partito d’Azione affermavano a Lussu, nel loro primo incontro a Roma a metà agosto, che i due movimenti erano uno la continuazione dell’altro, e che la nuova denominazione del P.d’A. era stata adottata per impedire che l’Ovra continuasse a perseguitare quelli che avevano fatto parte di G.L. e, arrestati e incarcerati questi, quanti erano sospetti d’aver avuto rapporti con loro.

Convegno. Il primo convegno del Partito d’Azione ebbe luogo a Firenze il 5 e il 6 settembre del 1943. Era un convegno, e non un congresso, e non era neppure propriamente nazionale. Il convegno era clandestino, e si tenne il primo giorno nella casa di Carlo Furno, e il secondo in quella di Enzo Enriques Agnoletti. Il primo giorno presiedeva Bauer, il secondo Leone Ginzburg. Tutto questo è nel ricordo dei presenti: il resto è imprecisabile e incerto.

Discutere. Il convegno dimostrò quanto fosse difficile, nel lungo periodo di una dittatura di polizia, discutere in molti, trovare una linea politica comune di pensiero e di azione e di concludere, politicamente, fra compagni provenienti da luoghi ed esperienze e cultura differenti.

Re. Un delegato, e fra i più noti, nel suo intervento, sostenne la repubblica, previa abdicazione del re e del principe, con la reggenza del figlio del principe. Quando io osservai che, così, egli votava per la monarchia, si considerò offeso. Allora, e anche dopo un po’ di tempo, non per tutti era chiaro che con l’abdicazione del re e insieme anche quella del principe, non si faceva un passo avanti verso la repubblica, ma tre passi indietro.

Comando Supremo. La fuga del Comando Supremo del 9 settembre, con l’occupazione del Sud liberato dai tedeschi, è stato il vero colpo di Stato di quel periodo. Un Comando Supremo che fugge improvvisamente, senza neppure informare il Consiglio dei ministri, tanto da dimenticare nei cassetti d’ufficio documenti militari segreti e persino il timbro a secco dello Stato Maggiore dell’esercito, non può animare al combattimento.

Liberi. «La fondazione di una società di uomini liberi in cui l’eguaglianza politica e sociale dei cittadini segni la fine della oppressione dell’uomo su l’uomo... interpreti innanzi tutto le aspirazioni di giustizia e libertà dei lavoratori, operai, contadini, artigiani, tecnici, intellettuali e quanti altri vivono del proprio lavoro senza sfruttare il lavoro altrui» (il secondo punto del programma del Partito d’Azione dopo la liberazione di Roma).

Compito. Il compito del Partito d’Azione può considerarsi assolto, con la negazione integrale del regime fascista, con la Resistenza individuale e collettiva armata, e coll’intransigenza repubblicana che ha portato alla costituzione democratica. Alle elezioni per l’Assemblea Costituente il P.d’A. non avrà che 9 deputati di cui 7 eletti nel collegio nazionale.

Scissione. La scissione era presto o tardi inevitabile. Un movimento interclassista, anche se di sinistra, è portato alle contraddizioni interne che lo lacerano alla scissione, in Italia e altrove. Solo una fede religiosa può legare gli associati di un partito interclassista più lungamente, ma non per sempre. Tuttavia, la scissione non si sarebbe avuta, se quelli che l’avevano provocata fossero stati di maggiore esperienza politica.
Notizie tratte da: Emilio Lussu, Sul partito d’azione e gli altri. Note critiche , Mursia, Milano,
pagg. 262, € 17

il manifesto Alias 1.5.16
Jacques Lacan, incandescenza del reale
Psicoanalisi. Dieci incontri in forma di saggio con il maestro francese: un libro di Alex Pagliardini
di Rocco Ronchi

Da tempo, ormai, intorno all’opera di Jacques Lacan si è andato concentrando un interesse che va ben oltre i confini della psicanalisi, di cui Lacan è stato un impareggiabile maestro. Lo si deve, senza dubbio, al fatto che alla formazione di quel pensiero hanno concorso in modo determinante altri saperi: dall’antropologia alla linguistica, alla filosofia, per arrivare, infine, alle matematiche e alla biologia. Tuttavia, non è soltanto in ragione di questa ricchezza di riferimenti teorici che la psicanalisi lacaniana è così trasversalmente presente nel dibattito intellettuale: la sua centralità si deve a un’altra ragione, una ragione speculativa. Per quanto possa essere forte la tendenza a evadere i problemi essenziali, ogni epoca è infatti chiamata prima o poi a una resa dei conti. Ci sono urgenze che non dipendono dalla buona volontà degli uomini ma sono inscritte nella natura delle cose. Ci sono domande che devono essere poste. Anche le epoche, come gli esseri umani, percepiscono che il tempo è scarso e che, come disse Seneca, la vita rischia esaurirsi in una vana attesa, senza mai essere stata veramente vissuta.
La domanda speculativa è allora quella che chiede cosa sia veramente reale per noi, cosa «valga» per noi come indiscutibilmente reale. Per un lunghissimo periodo della storia questa domanda ha avuto come risposta: Dio. Dio era il massimamente reale per un uomo del Medioevo. La modernità gli ha sostituito la storia, l’uomo al lavoro, artefice del proprio destino. Quanto ai tempi attuali, i post-moderni” ci hanno insegnato che è il senso dell’irrealtà a prevalere. Neanche le catastrofi sembrano sfuggire a questa dimensione immaginaria. Ma nessuna epoca, nemmeno la nostra, può differire all’infinito la questione del reale. Prima o poi lo deve incontrare. Jacques Lacan diceva di sé, come teorico, di aver inventato un solo concetto: quello di «reale». Per questo è diventato un imprescindibile punto di riferimento del pensiero speculativo contemporaneo. Ne è prova anche l’ultimo lavoro di Alex Pagliardini, Il sintomo di Lacan Dieci incontri con il reale (Galaad edizioni, pp. 382, euro 16,00). L’autore è uno psicanalista, non un filosofo, dunque la sua è una preoccupazione soprattutto clinica, riguarda la domanda che viene posta da qualcuno che si presenta nel suo studio portando con sé un disagio di cui ignora la causa. Tuttavia, se leggiamo la definizione di pratica analitica alla fine del primo capitolo, dedicato alla nozione di trauma, non abbiamo dubbi sull’intenzione speculativa che attraversa il testo di Pagliardini. «La pratica analitica – scrive – deve produrre l’impossibile, incontrarlo come tale». Lo stile espositivo è perentorio: invece di nascondersi nelle pieghe della sfuggente scrittura lacaniana o, ancora peggio, di mimarla, Pagliardini osa dire in modo diretto, prendendo posizione.
In quella secca definizione si dice innanzi tutto che la meta della pratica analitica è incontrare il reale come tale; e si dice anche che il reale è quell’impossibile che bisogna produrre nel corso dell’analisi. L’analisi, infatti, non è dialogo, non è conversazione, non mira alla produzione di un senso condiviso. L’analisi non è «esperienza vissuta». Tutte queste interpretazioni, care a una certa psicanalisi «umanistica», perdono di vista l’elemento propriamente traumatico, il valore di «evento» che una buona analisi dovrebbe invece sempre comportare e che lo psicanalista, soprattutto se lacaniano, deve sapere produrre. «Impossibile» è così una buona approssimazione alla natura del trauma, perché indica l’accadere di qualcosa che eccede la capacità rappresentativa del soggetto: non è l’irreale, ma il reale portato al suo punto di incandescenza, un reale così massimamente reale da non essere più nemmeno a misura del soggetto (non più «possibile», quindi), un reale che incide il soggetto, marchiandolo a fuoco. La filosofia speculativa questo impossibile se lo era figurato nella forma del sublime, che – dopotutto – non è altro se non l’eccesso del reale all’opera. Per questo Pagliardini non considera il trauma nella sua dimensione empirica: non è un fatto – scrive – non è un accadimento nel tempo lineare (la cosiddetta scena primaria che segnerebbe l’esistenza del nevrotico).
Il suo piano è, come direbbero i filosofi, trascendentale. In alcune, intense pagine, Pagliardini mostra come il trauma non smetta mai di accadere nel corso di «una vita», proprio perché esso, come tale, ha la forma dell’accadere «puro» e non della cosa «accaduta». La cattiva psicanalisi è invece quella che confonde i due piani mettendo il blablabla del «senso» dove c’è «evento» e cercando di addomesticare l’impossibile. Le parole che nel testo di Pagliardini ricorrono con più insistenza nei momenti topici della sua argomentazione provengono tutte dalla filosofia: l’inconscio, scrive, è atto e, precisamente atto in atto, la sua dimensione non è quella della materia ma quella della energheia, dell’attività. Esso va colto sotto il profilo del divenire, ma è un divenire, scrive Pagliardini, che non è uno scorrere bensì un fieri, vale a dire una causalità creatrice di effetti imprevedibili. Non è solo questione di echi evocati bergsoniani o gentiliani, peraltro insoliti tra gli psicanalisti lacaniani, ma di una proposta (indiretta) di revisione della metafisica sottesa dalla psicanalisi: se la pratica analitica incontra il reale, corrispondendo in tal modo a un’urgenza che l’epoca sente ormai come indifferibile, dovrà dotarsi di una concettualità adeguata a questo scopo speculativo.