mercoledì 11 maggio 2016

La Stampa TuttoScienze11.5.16
L’antidepressivo che fa scattare tutti i neurotrasmettitori
Arriva un nuovo farmaco: “Così potrà migliorare le terapie”
di Fabio Di Todaro

Il primo errore è ritenerla una malattia unica. Il secondo è parlarne come qualcosa che non apparterrà mai alla propria vita. Nulla di più sbagliato, se nella «rete», 10 anni fa, cadde perfino Gianluigi Buffon, uno che oggi riconosce «quella contro la depressione come la migliore parata della mia vita». Conviene credergli, se anche il settimanale The Economist l’ha definita «il maggiore problema sanitario su scala globale del XXI secolo» e sugli stessi toni s’è pronunciata l’Oms, durante la giornata dedicata alla salute mentale.
Nel mondo ci sono 350 milioni di depressi: più della popolazione degli Usa, con prospettive in crescita fino a raggiungere entro il 2030, secondo le stime dell’OMS, il primo posto fra le patologie croniche. In Italia la depressione è un problema di salute mentale molto diffuso: 2,6 milioni le persone colpite, con tassi doppi tra le donne. Più grave è però riscontrare che due malati su tre non si curano: per ignoranza, per impossibilità economica o perché spaventati dall’ipotesi di dover assumere antidepressivi. E tuttavia, tra le malattie psichiatriche, la depressione è quella più studiata e più «trattata». Vero è - per dirla con Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di neuroscienze dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano e presidente della Società di Psichiatria - che «rispetto al diabete e all’ipercolesterolemia non abbiamo dei marker certi». Ma l’esperienza di un clinico è sufficiente a stilare una diagnosi corretta.
Non tutte le depressioni sono uguali. È come se ci si trovasse di fronte a una scala che va da uno a 10: sul gradino più basso le forme transitorie di demoralizzazione e tristezza «che fanno parte della vita». In cima quelle più gravi, che racchiudono «quel 30% di pazienti refrattari alle terapie e colpiti da una forte sintomatologia somatica». È soprattutto a loro che si è pensato nello sviluppo della vortioxetina, il primo nuovo antidepressivo a sbarcare sul mercato dopo 15 anni. Messo a punto da Lundbeck, e presentato ieri a Milano, nasce da una scoperta importante: oltre a regolare il flusso della serotonina nella corteccia e nell’ippocampo, per chi è depresso è importante evitare le ricadute cognitive (concentrazione, memoria e attenzione), oltre che ridurre l’aumento di peso e le disfunzioni sessuali che spesso condizionano l’aderenza alle terapie. E, di conseguenza, ostacolano i percorsi di guarigione. Il farmaco - che sarà inserito in fascia A, quindi a carico del Servizio Sanitario - conferma l’abbandono della «teoria serotoninergica» a vantaggio di una valutazione più complessiva dei meccanismi molecolari alla base della depressione. La vortioxetina, infatti, contribuisce a mantenere «alti» anche i livelli di altri neurotrasmettitori: acetilcolina, dopamina e noradrenalina. Per il paziente le conseguenze saranno significative: terapie efficaci in minor tempo e miglioramento della qualità della vita.
A oggi si sa che la depressione è innescata da tre fattori: una componente genetica, la riduzione di alcune aree cerebrali e l’attività del sistema immunitario. È su quest’ultimo che si pone più attenzione: molti studi evidenziano come un perdurante stato di infiammazione - considerato una risposta difensiva da parte dell’organismo - sia determinante nell’innesco di molte condizioni depressive. I riflettori sono puntati sul cortisolo. «È un ormone secreto dalle ghiandole surrenali, i cui livelli restano elevati in situazioni di stress - conferma Giovanni Biggio, ordinario di neuropsicofarmacologia all’Università di Cagliari -. In queste condizioni i neuroni perdono il loro trofismo, viene inibito il processo di rinnovamento del tessuto cerebrale e calano le connessioni. Una rete neuronale “sfibrata” porta il cervello a ridurre la capacità di reazione agli stimoli e a rispondere in modo continuativo solo a quelli negativi».
Ciò non significa che ci si curerà con gli antinfiammatori. La strada è però considerata di grande interesse per l’individuazione di marcatori in grado di affinare la diagnosi. In media ogni italiano attende due anni prima di «scoprirsi» depresso. Sono troppi e così spesso la risposta alle terapie perde d’efficacia.