sabato 28 maggio 2016

La Stampa TuttoLibri 28.5.16
La moneta di Keynes darebbe fiato alla Grecia
La proposta di creare il “bancor”, una valuta artificiale che puniva gli eccessi dei debitori ma anche dei creditori
di Mario Deaglio

Stati Uniti e Gran Bretagna non hanno sempre marciato a braccetto sui tormentati campi di battaglia della seconda guerra mondiale e non hanno neppure, come vuole una visione stereotipata, progettato in armonia il nuovo ordine economico del dopoguerra. Tra il 1941 e il 1944 giocarono invece una durissima partita a scacchi sul futuro assetto economico-finanziario del mondo che si concluse con la vittoria dei primi e la riduzione, sia pure graduale, della seconda a potenza di secondo piano.

È su questo sfondo che deve essere letta una selezione degli ultimi scritti di John Maynard Keynes, l’economista «eretico» che rivoluzionò la «scienza» economica nel secolo scorso, dal titolo: Moneta Internazionale. Un piano per la libertà del commercio e il disarmo finanziario. Il volume è pubblicato da Il Saggiatore nella collana delle Silerchie con una bella ed esauriente introduzione di Luca Fantacci.
Per quanto trasgressivo e anti-convenzionale, Keynes era un difensore dell’«essenza» dell’Impero Britannico, uno stimato e influente consigliere delle massime autorità economiche di quell’impero, dal quale ricevette anche il titolo di Lord. Considerava l’Impero come un modello di libertà e di convivenza pacifica tra etnie, religioni, interessi politici ed economici diversi, realizzato - pur con alcuni punti neri, come la rivolta indiana del 1857 e le guerre anglo-boere a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento - nei lunghi decenni della cosiddetta «globalizzazione vittoriana», all’ombra non solo della superiorità militare e tecnologica inglese ma anche della sterlina britannica. Dopo le terribili distruzioni, materiali e umane della seconda guerra mondiale, i principi-guida dell’Impero avrebbero potuto essere estesi a tutto il pianeta anche grazie a una nuova moneta «artificiale», ossia non più legata a un singolo paese ma espressione di tutti - che Keynes chiamò «bancor» – pilastro di un nuovo, lungimirante ordine planetario.
Non si trattava di un’utopia bensì di un progetto politico-economico che fu prossimo a realizzarsi e che viene guardato ancor oggi con interesse da tutti coloro che mal sopportano la vacillante, incontrollata supremazia del dollaro, possibile fonte di instabilità e non fondamento di crescita armonica. Il sistema che Keynes illustra, soprattutto nella presentazione alla Camera dei Lord, il 18 maggio 1943, «non è un piano filantropico crocerossino, grazie al quale i paesi ricchi vengono in soccorso di quelli poveri. È un meccanismo strettamente necessario, che è utile al creditore quanto al debitore». Tale meccanismo, infatti, non «punisce» soltanto i paesi con un deficit eccessivo nei conti con l’estero, ma penalizza anche, sia pure in misura minore, i paesi creditori, scoraggiando l’accumulo eccessivo di crediti esteri. Tradotto in termini attuali, costringerebbe la Germania a una maggiore espansione della domanda interna e darebbe un po’ più di fiato all’Italia, per non parlare della Grecia.
Il progetto naufragò nell’atmosfera felpata della conferenza di Bretton Woods del luglio 1944, dove Keynes ebbe un formidabile antagonista in Harry Dexter White, rappresentante del Tesoro degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti, infatti, volevano eliminare la possibilità di un terzo conflitto mondiale semplicemente stabilendo la propria supremazia, e quindi anche il primato del dollaro. Keynes probabilmente sottovalutò il forte pregiudizio negativo degli americani rispetto all’Impero Britannico, risalente agli anni della Guerra di Indipendenza.
Di conseguenza l’edificio finanziario mondiale fu costruito con i «mattoni» britannici preparati da Keynes ma disegnato da White e dal Tesoro di Washington: la Banca Mondiale, che Keynes vedeva al centro del nuovo sistema finanziario, in grado di dare un impulso decisivo alla crescita mondiale, ebbe invece un ruolo secondario rispetto al Fondo Monetario Internazionale che per Keynes avrebbe dovuto occuparsi della gestione del giorno per giorno dei mercati finanziari. Il dollaro fu fermamente collocato al centro del sistema e ambedue le istituzioni ebbero sede a Washington.
Si giunge così all’ultimo documento, in un certo senso il più toccante: il breve discorso di un Keynes sconfitto alla riunione inaugurale del Fondo e della Banca, il 9 marzo 1946, poco più di un mese prima della sua morte (per «ferite di guerra», anche se non sofferte sul campo di battaglia, «minato nel corpo e nello spirito», con la delusione di vedere il suo progetto «stravolto e tradito», come scrive Fantacci nell’introduzione) Si augurò che alla festa non fosse stata invitata, oltre a molte «fate» bene auguranti, anche una «fatina cattiva» e che ogni decisione delle nascenti istituzioni venisse sempre presa in base al merito e non in vista di un secondo fine. Guardando a quanto è successo nei decenni seguenti, fino ai tempi attuali, si può concludere che a quell’inaugurazione una «fatina cattiva» forse c’era davvero.