La Stampa 9.5.16
Così rottama la “diversità” della sinistra
di Ugo Magri
Renzi
si mette in sintonia con la quasi totalità degli italiani. Anziché
polemizzare con i magistrati, che hanno preso di mira i sindaci Pd,
denuncia per la prima volta l’esistenza di una «questione morale» nel
suo stesso partito. «C’è, è un dato di fatto», ammette con un atto di
realismo accompagnato a una certa dose di coraggio.
Perché in
questo modo il premier manda in frantumi un mito. Rottama la pretesa di
«diversità» su cui una parte della sinistra italiana aveva campato di
rendita per trent’anni, dai tempi di Berlinguer. Le lusinghe del potere
hanno reso corruttibile anche chi, una volta, se ne considerava immune:
il leader Pd lo riconosce, ci appone anzi il suo timbro.
Sicuramente,
dietro questa importante ammissione c’è un calcolo. Anzi, ce ne sono
due. Il primo consiste nel mostrare alle toghe che lui non è come quel
signore di Arcore, ha profondamente torto chi vorrebbe assimilarlo a
Berlusconi.
Agli operatori della giustizia, Renzi è convinto di
mostrare ben altro rispetto. Così come lo dà, lo pretende anche. Ma
riconoscere i torti della politica gli conferisce più forza quando si
tratterà di riformare i mali della giustizia.
Si percepisce poi
nel premier la speranza di rimettere le vele al vento dei consensi. Che
da parecchie settimane vengono erosi a vantaggio dei Cinquestelle
proprio come conseguenza della «questione morale». Dopo ciascuno
scandalo (che è presunto tale fino a sentenza definitiva) il Pd ha perso
nei sondaggi non tanto, uno zero virgola. Eppure lo stillicidio di
questi zero virgola che scivolano verso il partito di Grillo sta
rendendo meno lunare la prospettiva di un sorpasso. Magari non alle
Comunali del 5 maggio prossimo, ma alle elezioni politiche quando
saranno. Accusare i grillini per le inchieste a loro carico, vedi il
caso di Livorno, non cambia di molto la percezione collettiva. Renzi lo
sa. Come è cosciente che un leader politico deve mostrare realismo,
anche a costo di doversi ricredere come ha fatto proprio ieri con
Calenda, chiamato a ricoprire il posto della Guidi allo Sviluppo
Economico dopo nemmeno due mesi trascorsi in qualità di
ambasciatore-manager presso la Ue.
Ma c’è un motivo in più per
ammettere che esiste la «questione morale». È una ragione che con i
sondaggi non ha nulla da spartire e riguarda semmai la qualità della
classe politica locale. Finora Renzi aveva dato l’impressione di non
curarsene troppo, affaccendato com’era nell’impresa di governo. Gli era
sembrato, forse a buon diritto, più urgente sfidare la Merkel in Europa
sui conti pubblici e sui migranti, oppure la sinistra interna sul Jobs
Act, o tutte quante le opposizioni insieme sulla riforma costituzionale
(per non dire dell’epica sfida sull’«Italicum»). Gli amministratori
locali del Pd non erano mai stati, diciamola tutta, una sua vera
priorità. E quando alle ultime elezioni regionali aveva dovuto farsene
carico per scegliere i candidati governatori, aveva mostrato una presa
sul partito a giudizio di molti insufficiente. Gli incidenti c’erano
stati già, ma venivano derubricati a eccezioni rispetto a una regola di
conclamato buongoverno.
Ora però sottovalutare le inchieste non è
più possibile. Il premier pare aver capito che, se non metterà
personalmente le mani nel partito, compresa la selezione dei suoi quadri
locali, rischierà egli stesso di venirne trascinato a fondo. È giunto
il momento di rompere certe incrostazioni del sottopotere che tra
l’altro, vedi in Basilicata, riguardano i suoi contestatori interni
perfino più del cosiddetto «giglio magico». Una cosa è certa: ammettere
l’esistenza di una «questione morale», come ha fatto senza mezzi termini
il premier, sarebbe un puro esercizio retorico se non venisse seguito
da un impegno vero e serio per rinnovare il Pd. In alto e soprattutto in
basso.