lunedì 9 maggio 2016

La Stampa 9.5.16
Carofiglio: “In molte zone del Paese c’è un problema di democrazia malata”
Lo scrittore ex magistrato sull’intreccio tra affari e politica nel Sud “Degrado e vergogna non sono un destino, come insegna Riace ”
di Guido Ruotolo

Gianrico Carofiglio, scrittore e politico - in passato magistrato della procura antimafia di Bari, con delega su Foggia - sembra esserci un nodo non risolto nel rapporto tra mafia, affari e politica nel Mezzogiorno, come raccontano recenti inchieste giudiziarie.
«Io sono un fautore dell’esempio virtuoso e cerco di spiegarmi. In tutte le situazioni, in tutti i contesti, anche quelli deteriorati, ci sono realtà in cui le cose, quasi misteriosamente, funzionano bene. In cui la malattia sembra non manifestarsi, o sembra debellata. Credo si debbano analizzare queste situazioni virtuose, cercare di capire quali fattori le hanno rese possibili e cercare di riprodurli. Si pensi per esempio alla bellissima storia di Riace e del suo sindaco, addirittura inserito dalla rivista Fortune fra le 50 personalità più influenti della Terra, per l’opera straordinaria di integrazione dei migranti e di trasformazione della sua terra in una frontiera di civiltà. Tanto per chiarire: Riace è nella Locride esattamente come Platì».
Intanto in diverse aree del Mezzogiorno c’è un problema di sospensione della democrazia?
«Sicuramente c’è in alcune specifiche aree, anche se poi verrebbe da chiedersi se sospensione sia la parola esatta. Voglio dire che in quelle zone, la democrazia in senso sostanziale non c’è mai stata. Chiarito questo punto, sicuramente esiste un grave problema di democrazia malata in vaste zone del Paese. Però esistono anche posti come Riace, politici come il suo sindaco. Il degrado, la mafia, la vergogna non sono un destino».
Tra agguati, esecuzioni e arresti, colpisce sempre di più l’estensione di un’area grigia, connivente, che protesta contro gli arresti che minaccia e circonda la caserma dei carabinieri di quartiere per protestare contro l’allontanamento dei figli del boss.
«Purtroppo non si tratta di fenomeni nuovi. Ricordo una volta che con i carabinieri fermammo per omicidio il rampollo di un clan mafioso di un paese della provincia di Foggia. La caserma dove eravamo fu circondata e fu necessario chiamare i rinforzi per disperdere la folla. Era il 1992. Le mafie, tutte, vivono da sempre anche grazie al consenso sociale. Le si affronta anche colpendo questo consenso».
Questa illegalità diffusa è anche il sintomo di una crisi identitaria di un popolo che non riconosce l’autorità allo Stato, alle istituzioni locali.
«È purtroppo la storia del Mezzogiorno, abituato in molte sue parti a considerare lo Stato e le sue articolazioni come entità estranee e ostili».
Ha visto la vicenda della candidatura annunciata e poi ritirata a Platì, di un simbolo contro la ’ndrangheta?
«Inutile illudersi che basti trovare qualche faccia pulita e presentabile. I cosiddetti simboli dell’antimafia, anche quando non finiscono in brutte storie giudiziarie, sono più dannosi che utili. Non parlo delle singole persone, ovviamente. Molte di loro sono rispettabili e coraggiose. È il concetto di simbolo dell’antimafia che trovo pericoloso. Delegare a pochi simboli l’impegno civile contro le mafie diventa un modo, per la maggioranza, per sottrarsi alla responsabilità e all’impegno. Devo poi aggiungere che spesso non mi piace il tono quasi sacerdotale che adottano taluni di questi simboli. Mi fanno venire in mente una frase della grande antropologa Margaret Mead: “Il profeta che ammonisce senza presentare alternative accettabili, contribuisce ai mali che enuncia”».
Sta per andare in onda la seconda serie di Gomorra. La prima è stato un successo planetario. Perché la serie televisiva ha sostituito nell’immaginario collettivo “Il Padrino” di Mario Puzo?
«Banalmente: perché era ben scritta, ben recitata e ben girata. Non so se abbia sostituito “Il Padrino”, certo è che le storie che raccontano il mondo criminale con toni di realismo, incuriosiscono o addirittura appassionano gli spettatori. Va detto che questo tipo di narrazioni presenta qualche aspetto delicato, qualche implicazione etica».
Avverte il rischio che Gomorra diventi un modello culturale di riferimento per intere nuove generazioni?
«No, questo mi sembra eccessivo. Faccio una premessa, citando Oscar Wilde: “Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Questo è tutto”. Ecco, non esistono film morali o immorali. I film sono girati bene o girati male. E la prima serie di Gomorra era certamente girata bene. Ciò detto, ammetto che la popolarità dei protagonisti delle serie criminali - non solo Gomorra, dunque - mi crea non poco disagio».