La Stampa 7.5.16
L’emergenza dell’antibiotico che non guarisce
di Eugenia Tognotti
Il
mondo post-antibiotico è già qui e si porta dietro quella che potrebbe
diventare l’emergenza del XXI secolo: trovarsi con armi spuntate a
combattere batteri che hanno «imparato» - anche per colpa nostra - a
diventare sempre più resistenti agli antibiotici, il farmaco-miracolo
che ha rappresentato la più grande conquista della medicina moderna.
L’ennesimo allarme è suonato dopo l’isolamento, dapprima in Cina, e poi
in Danimarca, di un ceppo batterico a cui una mutazione genetica
consente di resistere a tutti gli antibiotici, inclusa la Colistina, un
antibiotico definito, non a caso, di «ultima spiaggia», tornato
recentemente alla ribalta nella terapia di infezioni umane gravi che
resistono al trattamento con altri tipi di antibiotici. Ovunque, il
fenomeno dell’antibiotico-resistenza è in aumento e interessa sia Paesi
in via di sviluppo che Paesi industrializzati, compreso il nostro. I
report più recenti, sempre più allarmanti, danno conto di quanto sia
difficile, se non impossibile - data l’inefficacia delle armi - trattare
alcune infezioni. E’ il caso di quelle provocate dai ceppi di
Klebsiella pneumoniae, in rapido aumento nelle diverse aree del nostro
Paese e in tutti i tipi di strutture di degenza.
In assenza di
precauzioni igieniche (prima tra tutte quella del lavaggio delle mani),
il microrganismo può essere trasmesso da un malato all’altro in ambito
ospedaliero, dal personale sanitario, curante-untore, anche al di fuori
dell’ospedale. Siamo all’apocalisse antibiotico-resistenza: solo in
Europa, dove, ogni anno, i batteri «resistenti» sarebbero responsabili
di 25 mila morti per infezioni resistenti agli antibiotici, dalle
polmoniti, alla tubercolosi, alla gonorrea. Altro che cambiamento del
clima o inquinamento: nel 2050 potrebbero provocare 317 mila morti in
America e 390 mila in Europa, se prendiamo per buona l’agghiacciante
stima diffusa in questi giorni. Quel che è certo, qui e ora, è che il
poderoso arsenale di cui disponevamo per battere le infezioni batteriche
- la prima causa di morte in un passato neppure tanto lontano - si
rivela ogni giorno più sguarnito di fronte ad un fenomeno in continua
evoluzione. E pensare che non è passato neppure un secolo dal trionfale
esordio, negli Anni Quaranta del secolo scorso, dei farmaci
antimicrobici. Che si portavano dietro la luminosa promessa della
definitiva vittoria contro le infezioni e persino di una rivoluzione
sessuale, una volta allontanato l’incubo delle malattie veneree,
sifilide e gonorrea, evocate come «mostri», nelle immagini della
campagna per l’uso della penicillina nel secondo dopoguerra. Chi avrebbe
potuto prevedere, allora, che la gonorrea sarebbe tornata
prepotentemente alla ribalta nel XXI secolo? Eppure è quello che sta
accadendo. E’ appena di pochi mesi fa la scoperta in Gran Bretagna di un
focolaio di quella che è stata battezzata la «super gonorrea» , il cui
agente causale, la Neisseria gonorrhoeae, ha sviluppato una resistenza a
quasi tutti gli antibiotici utilizzati per il suo trattamento: il
rischio è che diventi una malattia incurabile, con gravissime
implicazioni per la salute. Senza dar fondo all’allarmismo, c’è il
rischio che molto presto - e in mancanza di nuove strategie di ricerca
sulla resistenza antimicrobica e su nuovi antibiotici - ci si ritrovi
con scarsi o nulli presidi terapeutici a riflettere sul ricorso
dissennato e inappropriato degli antibiotici in diversi settori, dalla
medicina, all’agricoltura, alla zootecnia. L’emergenza dell’antibiotico
resistenza non riguarda solo noi, ma le generazioni future. C’è un’etica
della responsabilità che dovrebbe essere presente a tutti coloro che - a
diversi livelli - vi giocano una parte, piccola o grande che sia:
medici, farmacisti, veterinari, allevatori, pazienti che ne fanno un uso
improprio (contro bersagli sbagliati, come i virus dell’influenza). E,
ancora, chi ha il cruciale compito del controllo delle infezioni nelle
strutture sanitarie e dell’osservanza delle norme igieniche, prima tra
tutte quella di lavarsi le mani per prevenire le infezioni trasmissibili
in ambiente ospedaliero e di cura. Pensare che «De lotione manum» era
raccomandata, dai dottori della Scuola Salernitana in pieno Medioevo, un
buon millennio prima che l’Oms lanciasse la giornata mondiale del
lavaggio delle mani: «Save Lives: Clean Your Hands». I batteri
resistenti si combattono (anche) impedendo che si trasmettano.