sabato 7 maggio 2016

Corriere 7.5.16
Faustus scende all’inferno
di Giorgio Montefoschi

«Vengo a parlare d’affari», dice il diavolo a Adrian Leverkhun, protagonista del Doctor Faustus — il romanzo di Thomas Mann che oggi rileggiamo nella magnifica nuova traduzione di Luca Crescenzi — quando, improvvisamente, si materializza sul divano della casa di Palestrina nella quale il giovane musicista tedesco si è ritirato per concentrarsi nel lavoro, insieme all’amico poeta Rudiger Schildknapp. È un ometto basso, cereo (simile a quello che compare sulla panchina del Maestro e Margherita ), coi capelli rossicci, un naso ricurvo, un berretto sportivo, scarpe gialle, una ridicola giacca a quadri. La sabbia nella clessidra che misura il tempo della tua vita — spiega a Adrian con quella sua voce articolata da attore che accompagna il gelo — ha incominciato a scorrere. La nostra offerta è il tempo. Noi vendiamo tempo. Diciamo, 24 anni di suprema illuminazione creativa, di sfrenatezza intellettuale, di potenza, di trionfo, e in aggiunta di ammirazione per ciò che realizzerai. La tua ispirazione sfonderà i limiti, le convenzioni e le rigidità della cultura; avrai il coraggio della barbarie; sarai rapito dal brivido del sublime; verserai fiumi gioiosi di lacrime. In cambio, non dovrai amare nessun essere umano. L’amore — se accetti il nostro patto — dovrà essere escluso dalla tua vita. Ma questa è la sola esistenza possibile per una mente superba e orgogliosa come la tua, desiderosa di raggiungere l’estasi. Adrian è sconvolto. «Quello che mi preparate su questa terra», chiede all’ometto che, intanto, ha mutato sembiante due volte, «non è un anticipo dell’inferno?». Poi, perde i sensi.
È la scena culminante e terribile (altre, terribili, seguiranno) del più grande e meraviglioso libro sulla hybris — la parola greca intraducibile, nella quale si concentrano la superbia, la sfida, l’ardire, l’arroganza dell’uomo — che sia stato scritto nel Novecento. «Il mio proposito», rivela Thomas Mann nella Genesi del Doctor Faustus (anch’essa inclusa nel Meridiano) , «era scrivere il romanzo della mia epoca travestito da storia di una esistenza precaria e sommamente peccaminosa». L’epoca è la metà del secolo scorso: quella delle due Guerre mondiali, e della catastrofe tedesca che si concluderà «nel nulla, nella disperazione, in una bancarotta senza precedenti, in una vera discesa all’inferno, circondata da una ridda di fiamme assordanti». Adrian Leverkhun è l’uomo che denuncia se stesso per denunciare il Faust che è in ognuno di noi; l’artista sterile e follemente ambizioso che, per vincere la sua pochezza, si consegna al demonio. «Quanta atmosfera della mia vita», rivela ancora Mann «è contenuta nel Faustus . In fondo è una confessione radicale. Leverkhun è una figura ideale. Ero innamorato di lui, in ansia per lui, impazzivo per la sua freddezza, per il suo cuore disperato, e per la sua convinzione di essere dannato». Sono i medesimi sentimenti che muovono Serenus Zeitblom, il mite insegnante di materie classiche, amico fin dall’infanzia di Adrian, al quale — nel solco fondamentale dell’ambiguità e del doppio registro che, come nota Luca Crescenzi, attraversa in ogni sua piega tutto il romanzo — l’autore affida, con la distanza indispensabile a non soccombere, il peso del racconto.
Il racconto — al quale Zeitblom comincia a metter mano mentre la dittatura nazista è vicina al tracollo — si apre con una stupenda luce infantile e antica: quella della fattoria di Buchel in cui Adrian nasce alla fine dell’Ottocento, con le stanze foderate di legno, l’odore della pipa fumata dal padre appassionato dei misteri della natura, il cortile quadrato al centro del quale sorge il maestoso tiglio; quella della piccola città di Kaisersaschern, nella quale Serenus e Adrian frequentano la scuola, con le travature a vista degli edifici gotico-rinascimentali, le torri, le chiese e, nell’aria, il retaggio dell’isteria medievale che induce a credere nei fantasmi e nelle streghe; quella dell’università di Halle, dominata dai severi professori luterani, nella quale Adrian frequenta la facoltà di teologia; quella delle montagne della Baviera, teatro delle scampagnate studentesche che di notte si concludono, a candele spente, con infinite discussioni sul Bene e sul Male, sulle tentazioni della carne e sul peccato, sul cosmo e su Dio. È la luce della Germania millenaria; dei suoi miti; delle sue foreste. Non passeranno molti anni, e questa luce si trasformerà nel buio di una prima, fatale sconfitta; nel grigio cupo del rancore e della rivalsa; nei chiaroscuri dell’ansia. Finché, a quella che erroneamente sarà considerata dai tedeschi una rinascita popolare, al presunto nuovo inizio purificatore, si mescolerà una quantità spaventosa di «selvaggia rozzezza, di volgarità aggressiva, di lurida brama dell’oltraggio». E la colossale ebbrezza, di cui il popolo tedesco si ubriacherà, dovrà essere scontata con l’umiliazione e la fine.
Adrian, nel frattempo, ha abbandonato la teologia e, con la guida dell’organista Wendell Krettzschmar, si è letteralmente gettato nelle braccia della musica. Ha studiato Monteverdi, ha orchestrato brevi brani per pianoforte di Schubert e Beethoven; ha ascoltato il Fidelio («Quasi una imitazione di Dio»), Mahler e Brahms; si è sperimentato nel lied . L’idea che ha nella mente e sente di voler seguire (una idea per la quale Mann si è ispirato, come è scritto in calce nel libro, a Schönberg, frequentato insieme ad Adorno e Stravinskij nell’esilio americano) ha la sua base nella polifonia e nella dissonanza. «La dissonanza è l’indice della sua dignità polifonica. Quanto più dissonante è un accordo, quante più note contrastanti e di diverso effetto esso contiene, tanto più è polifonico». Sarà la musica delle sue opere maggiori, l’ Apocalypsis cum figuris e il Lamento dr. Fausti , nelle quali la più grande beatitudine coinciderà con il massimo dell’orrore, e i cori angelici non saranno altro che «echi di risate infernali».
Ora, il musicista è un adulto. Conserva la predisposizione a un riso liberatorio che aveva da bambino, ma sempre più i suoi occhi (che hanno una tinta indefinibile: fra il grigio, il verde e l’azzurro) scrutano in lontananza, e il loro crepuscolo si colma di «ombre più profonde». A Lipsia, per uno sciocco scherzo, è entrato in un bordello. Una donna bruna, con una grande bocca, gli occhi a mandorla, Esmeralda, gli ha carezzato una guancia. Lui è fuggito sconvolto. Quindi è tornato a cercarla e siccome non l’ha trovata si è fatto dare l’indirizzo; profittando della prima esecuzione della Salome di Strauss a Graz, è andato a trovarla nel paesino ungherese in cui si è ritirata ammalata; nonostante i suoi ammonimenti, si è lasciato infettare. È la malattia, da cui nascono le creazioni del genio che pretende di sfiorare l’Eterno, preparata dal diavolo per arruolarlo nelle sue schiere e, dopo 24 anni di estasi, distruggergli il cervello.
«Vado in cerca di un luogo in cui possa seppellirmi dinnanzi al mondo e conversare indisturbato con la mia vita e il mio destino», confida Adrian a Serenus. Questo luogo — una fattoria a Pfeiffering simile a quella dell’infanzia — può anche esistere. Quella che è sparita, se mai ne è transitata nella sua anima una scintilla, è la pace. Adrian, ammirato e ricercato, è costretto a vivere nel mondo, a frequentare i concerti, a dividere con tutti i personaggi maschili e femminili che lo assediano, il suo tempo (e questa è la parte diciamo così «borghese» del romanzo, con quei salotti decorosi, quei tram di Monaco di Baviera, quegli altri veleni sparsi attorno a lui dal demonio, che più amiamo). Si illude persino di potersi sposare, inoltra una goffa proposta di matrimonio, ed è respinto. La malattia incalza fino a costringerlo a fuggire la luce. E il suo padrone mena l’ultimo colpo. A Pfeiffering arriva il nipote, il piccolo Nepomuk, di sei anni. È un bambino bellissimo: un angelo sceso dall’alto. Lo zio se ne innamora. Ma ha dimenticato il patto: non può amare nessuno. E il diavolo glielo toglie. Nepomuk si ammala e muore: «Prenditelo, mostro!», grida Adrian davanti a Serenus Zeitblom.
Siamo così alla fine. Adesso il compito di Serenus è quello di raccontare la morte, mentale e poi fisica, dell’amico che ha sfidato Dio. Intanto, la Germania è allo stremo; le città sono un cumulo di macerie; i topi ingrassano con i cadaveri. E i tedeschi sono obbligati sfilare nei lager e a vedere coi loro occhi l’abisso.