Corriere 7.5.16
Faustus scende all’inferno
di Giorgio Montefoschi
«Vengo
a parlare d’affari», dice il diavolo a Adrian Leverkhun, protagonista
del Doctor Faustus — il romanzo di Thomas Mann che oggi rileggiamo nella
magnifica nuova traduzione di Luca Crescenzi — quando, improvvisamente,
si materializza sul divano della casa di Palestrina nella quale il
giovane musicista tedesco si è ritirato per concentrarsi nel lavoro,
insieme all’amico poeta Rudiger Schildknapp. È un ometto basso, cereo
(simile a quello che compare sulla panchina del Maestro e Margherita ),
coi capelli rossicci, un naso ricurvo, un berretto sportivo, scarpe
gialle, una ridicola giacca a quadri. La sabbia nella clessidra che
misura il tempo della tua vita — spiega a Adrian con quella sua voce
articolata da attore che accompagna il gelo — ha incominciato a
scorrere. La nostra offerta è il tempo. Noi vendiamo tempo. Diciamo, 24
anni di suprema illuminazione creativa, di sfrenatezza intellettuale, di
potenza, di trionfo, e in aggiunta di ammirazione per ciò che
realizzerai. La tua ispirazione sfonderà i limiti, le convenzioni e le
rigidità della cultura; avrai il coraggio della barbarie; sarai rapito
dal brivido del sublime; verserai fiumi gioiosi di lacrime. In cambio,
non dovrai amare nessun essere umano. L’amore — se accetti il nostro
patto — dovrà essere escluso dalla tua vita. Ma questa è la sola
esistenza possibile per una mente superba e orgogliosa come la tua,
desiderosa di raggiungere l’estasi. Adrian è sconvolto. «Quello che mi
preparate su questa terra», chiede all’ometto che, intanto, ha mutato
sembiante due volte, «non è un anticipo dell’inferno?». Poi, perde i
sensi.
È la scena culminante e terribile (altre, terribili,
seguiranno) del più grande e meraviglioso libro sulla hybris — la parola
greca intraducibile, nella quale si concentrano la superbia, la sfida,
l’ardire, l’arroganza dell’uomo — che sia stato scritto nel Novecento.
«Il mio proposito», rivela Thomas Mann nella Genesi del Doctor Faustus
(anch’essa inclusa nel Meridiano) , «era scrivere il romanzo della mia
epoca travestito da storia di una esistenza precaria e sommamente
peccaminosa». L’epoca è la metà del secolo scorso: quella delle due
Guerre mondiali, e della catastrofe tedesca che si concluderà «nel
nulla, nella disperazione, in una bancarotta senza precedenti, in una
vera discesa all’inferno, circondata da una ridda di fiamme assordanti».
Adrian Leverkhun è l’uomo che denuncia se stesso per denunciare il
Faust che è in ognuno di noi; l’artista sterile e follemente ambizioso
che, per vincere la sua pochezza, si consegna al demonio. «Quanta
atmosfera della mia vita», rivela ancora Mann «è contenuta nel Faustus .
In fondo è una confessione radicale. Leverkhun è una figura ideale. Ero
innamorato di lui, in ansia per lui, impazzivo per la sua freddezza,
per il suo cuore disperato, e per la sua convinzione di essere dannato».
Sono i medesimi sentimenti che muovono Serenus Zeitblom, il mite
insegnante di materie classiche, amico fin dall’infanzia di Adrian, al
quale — nel solco fondamentale dell’ambiguità e del doppio registro che,
come nota Luca Crescenzi, attraversa in ogni sua piega tutto il romanzo
— l’autore affida, con la distanza indispensabile a non soccombere, il
peso del racconto.
Il racconto — al quale Zeitblom comincia a
metter mano mentre la dittatura nazista è vicina al tracollo — si apre
con una stupenda luce infantile e antica: quella della fattoria di
Buchel in cui Adrian nasce alla fine dell’Ottocento, con le stanze
foderate di legno, l’odore della pipa fumata dal padre appassionato dei
misteri della natura, il cortile quadrato al centro del quale sorge il
maestoso tiglio; quella della piccola città di Kaisersaschern, nella
quale Serenus e Adrian frequentano la scuola, con le travature a vista
degli edifici gotico-rinascimentali, le torri, le chiese e, nell’aria,
il retaggio dell’isteria medievale che induce a credere nei fantasmi e
nelle streghe; quella dell’università di Halle, dominata dai severi
professori luterani, nella quale Adrian frequenta la facoltà di
teologia; quella delle montagne della Baviera, teatro delle scampagnate
studentesche che di notte si concludono, a candele spente, con infinite
discussioni sul Bene e sul Male, sulle tentazioni della carne e sul
peccato, sul cosmo e su Dio. È la luce della Germania millenaria; dei
suoi miti; delle sue foreste. Non passeranno molti anni, e questa luce
si trasformerà nel buio di una prima, fatale sconfitta; nel grigio cupo
del rancore e della rivalsa; nei chiaroscuri dell’ansia. Finché, a
quella che erroneamente sarà considerata dai tedeschi una rinascita
popolare, al presunto nuovo inizio purificatore, si mescolerà una
quantità spaventosa di «selvaggia rozzezza, di volgarità aggressiva, di
lurida brama dell’oltraggio». E la colossale ebbrezza, di cui il popolo
tedesco si ubriacherà, dovrà essere scontata con l’umiliazione e la
fine.
Adrian, nel frattempo, ha abbandonato la teologia e, con la
guida dell’organista Wendell Krettzschmar, si è letteralmente gettato
nelle braccia della musica. Ha studiato Monteverdi, ha orchestrato brevi
brani per pianoforte di Schubert e Beethoven; ha ascoltato il Fidelio
(«Quasi una imitazione di Dio»), Mahler e Brahms; si è sperimentato nel
lied . L’idea che ha nella mente e sente di voler seguire (una idea per
la quale Mann si è ispirato, come è scritto in calce nel libro, a
Schönberg, frequentato insieme ad Adorno e Stravinskij nell’esilio
americano) ha la sua base nella polifonia e nella dissonanza. «La
dissonanza è l’indice della sua dignità polifonica. Quanto più
dissonante è un accordo, quante più note contrastanti e di diverso
effetto esso contiene, tanto più è polifonico». Sarà la musica delle sue
opere maggiori, l’ Apocalypsis cum figuris e il Lamento dr. Fausti ,
nelle quali la più grande beatitudine coinciderà con il massimo
dell’orrore, e i cori angelici non saranno altro che «echi di risate
infernali».
Ora, il musicista è un adulto. Conserva la
predisposizione a un riso liberatorio che aveva da bambino, ma sempre
più i suoi occhi (che hanno una tinta indefinibile: fra il grigio, il
verde e l’azzurro) scrutano in lontananza, e il loro crepuscolo si colma
di «ombre più profonde». A Lipsia, per uno sciocco scherzo, è entrato
in un bordello. Una donna bruna, con una grande bocca, gli occhi a
mandorla, Esmeralda, gli ha carezzato una guancia. Lui è fuggito
sconvolto. Quindi è tornato a cercarla e siccome non l’ha trovata si è
fatto dare l’indirizzo; profittando della prima esecuzione della Salome
di Strauss a Graz, è andato a trovarla nel paesino ungherese in cui si è
ritirata ammalata; nonostante i suoi ammonimenti, si è lasciato
infettare. È la malattia, da cui nascono le creazioni del genio che
pretende di sfiorare l’Eterno, preparata dal diavolo per arruolarlo
nelle sue schiere e, dopo 24 anni di estasi, distruggergli il cervello.
«Vado
in cerca di un luogo in cui possa seppellirmi dinnanzi al mondo e
conversare indisturbato con la mia vita e il mio destino», confida
Adrian a Serenus. Questo luogo — una fattoria a Pfeiffering simile a
quella dell’infanzia — può anche esistere. Quella che è sparita, se mai
ne è transitata nella sua anima una scintilla, è la pace. Adrian,
ammirato e ricercato, è costretto a vivere nel mondo, a frequentare i
concerti, a dividere con tutti i personaggi maschili e femminili che lo
assediano, il suo tempo (e questa è la parte diciamo così «borghese» del
romanzo, con quei salotti decorosi, quei tram di Monaco di Baviera,
quegli altri veleni sparsi attorno a lui dal demonio, che più amiamo).
Si illude persino di potersi sposare, inoltra una goffa proposta di
matrimonio, ed è respinto. La malattia incalza fino a costringerlo a
fuggire la luce. E il suo padrone mena l’ultimo colpo. A Pfeiffering
arriva il nipote, il piccolo Nepomuk, di sei anni. È un bambino
bellissimo: un angelo sceso dall’alto. Lo zio se ne innamora. Ma ha
dimenticato il patto: non può amare nessuno. E il diavolo glielo toglie.
Nepomuk si ammala e muore: «Prenditelo, mostro!», grida Adrian davanti a
Serenus Zeitblom.
Siamo così alla fine. Adesso il compito di
Serenus è quello di raccontare la morte, mentale e poi fisica,
dell’amico che ha sfidato Dio. Intanto, la Germania è allo stremo; le
città sono un cumulo di macerie; i topi ingrassano con i cadaveri. E i
tedeschi sono obbligati sfilare nei lager e a vedere coi loro occhi
l’abisso.