mercoledì 4 maggio 2016

La Stampa 4.5.16
La ricerca italiana, i finanziamenti e le priorità europee
di Massimiano Bucchi*

La buona notizia è che finalmente, con oltre due anni di ritardo, il Cipe ha approvato il cosiddetto «Programma nazionale della ricerca» che mette a disposizione circa 2,4 miliardi di euro per i prossimi tre anni. Una gestazione lunga di un piano che doveva inizialmente accompagnare la ricerca italiana lungo lo stesso arco temporale del «fratello maggiore» europeo, il programma Horizon 2020 (2014-2020), di cui ricalca le principali priorità tematiche. Una questione, però, resta aperta. Su quale base si ritiene che gli investimenti nazionali debbano ricalcare le priorità europee? Si tratta di convinta adesione a obiettivi comuni, coerenti con i punti di forza e potenzialità delle nostre istituzioni di ricerca, o di mera imitazione basata su logiche amministrative? Forse sarebbe stato utile discuterne in questi anni, visto che il tempo a disposizione non è mancato.
Un esempio di come la discussione nazionale sulle politiche di ricerca rischi di perdere di vista il quadro generale ce lo dà un tema d’attualità in Europa, ovvero lo European Institute of Technology (Eit). È nato nel 2008 per trasferire conoscenza e innovazione dal mondo della ricerca a quello dell’impresa. Voluto dall’allora presidente della Commissione Ue Barroso, puntava a diventare una sorta di versione europea dell’americano Massachusetts Institute of Technology. Tra il 2008 e il 2013 i contribuenti europei hanno finanziato l’Eit con 309 milioni, mentre per il periodo 2014-2020 gli sono stati assegnati 2,7 miliardi.
Investimenti cospicui che però, a giudicare dal rapporto pubblicato dai revisori della «European Court of Auditors», non hanno dato finora i risultati attesi. L’impressione è che spesso si ri-finanzino attività che i beneficiari realizzerebbero comunque. I revisori parlano anche di scarsa trasparenza, conflitti di interesse (i beneficiari dei finanziamenti sarebbero in alcuni casi coinvolti nella valutazione degli stessi progetti) e finanziamenti concentrati perlopiù in alcuni Paesi.
Ma ad essere criticata è la stessa struttura operativa dell’Eit: si parla di carenza di leadership e di eccessivo turnover del personale che non permette una strategia di lungo periodo (attualmente vi è un direttore ad interim). Secondo la sociologa Helga Nowotny, già presidente dell’European Research Council, «la struttura dell’Eit non è stata ben concepita» sottolineando il pericolo di «aggiungere ulteriori livelli di burocrazia di cui la ricerca europea non ha certo bisogno». A differenza dei suoi modelli ispiratori, infatti, l’Eit non fa ricerca in proprio, ma redistribuisce i fondi che gli arrivano dalle istituzioni europee.
La speranza è che le osservazioni portino in primo luogo a ripensare e riorganizzare l’Eit, contribuendo a valorizzare quanto di buono è stato fatto. Ma sarebbe anche utile che ricercatori e istituzioni italiane facessero sentire con più forza la propria voce. È importante avere un programma nazionale della ricerca, ma ancora più importante è collocarne il senso in quel quadro europeo a cui tutti, almeno a parole, dichiarano di guardare.
* Università di Trento