La Stampa 4.5.16
Riforme, l’ostilità è sull’autore non sul contenuto
di Mattia Feltri
Al
 battagliero Renato Brunetta (capogruppo di Forza Italia alla Camera) 
capita talvolta di sconfinare nella temerarietà. Ieri su Twitter ha 
ricordato il giudizio dato nel 2006 dal premier Matteo Renzi sulla 
riforma costituzionale del centrodestra: «Un No a una riforma che 
stravolge la Costituzione riscrivendo ben 53 articoli (...) un No per 
fermare il progetto che conferisce al premier poteri che nessuno 
Stato...». Bel colpo. Cioè, Renzi contestava a Silvio Berlusconi 
propositi autoritari. Dunque, secondo una mezza dozzina di regole 
matematiche, se farfallone è Renzi, farfallone è anche Brunetta che quei
 propositi autoritari allora non li vedeva e adesso sì. È soltanto un 
piccolo caso, ma rafforza l’impressione che buona parte delle ostilità 
alle riforme costituzionali non dipenda da quello che c’è scritto ma da 
chi le ha scritte. Vale sempre. Chi lo sa meglio di tutti è proprio 
Berlusconi che in coda alla legislatura 2001-2006 fece approvare il 
lavoro dei cosiddetti saggi di Lorenzago (fra cui Roberto Calderoli e 
Francesco D’Onofrio), riuniti in baita ad ammodernare la Carta. A 
sinistra erano scocciati anche perché «le riforme si fanno insieme», 
come diceva Massimo D’Alema, sebbene il peccato originale fosse proprio 
del suo partito che nel 2001 aveva risistemato il celebre titolo V 
(autonomie locali) snobbando le opposizioni. «Non accetteremo una farsa 
di Costituzione scritta fra una polenta e un fiasco di vino», diceva 
Gavino Angius, capogruppo dei Ds non proprio immerso nel merito della 
questione. Ma non è che gli altri stessero lì ad affinare il comma bis: 
l’ex presidente Oscar Luigi Scalfaro andò in tournée con la Costituzione
 in mano nel senso già espresso da D’Alema: «Ora non basta mandare a 
casa Berlusconi, ma dobbiamo mandare a casa la costituzione di 
Calderoli. Rivogliamo la Costituzione di Terracini, Calamandrei, De 
Gasperi, Togliatti». Il contrasto fra il nome del leghista e quello dei 
padri della Patria era offerto come sintetico ed efficace giudizio a 
priori. Pure Romano Prodi, non così spesso incline agli effetti 
speciali, si regalò un 25 Aprile nostalgico del «senso del lavoro della 
Costituente del 1947», «stravolto» dal lavoro del centrodestra. Inutile 
insistere con le incriminazioni di neofascismo e ducismo indirizzate a 
Berlusconi, ripetutamente dichiarato inadatto all’impresa oltretutto per
 motivi penali e più variamente estetici.
È meglio non infilarsi 
nel labirinto della bicamerale di D’Alema e Berlusconi (1998); si 
ricorda giusto il fallimento anche perché era «figlia del ricatto», e 
dunque di per sé illegittima, secondo una celebre analisi del pm 
milanese Gherardo Colombo. Ma quell’aria lì si sente ancora. Proprio 
Brunetta, al pari di Antonio Di Pietro dieci anni fa, ha stabilito e 
replicato un parallelo fra i due presidenti del Consiglio più giovani 
della storia d’Italia: Renzi e Benito Mussolini. Una tesi condivisa, ma 
poi progressivamente annacquata, dai costituzionalisti per il no. 
Francesco Paolo Sisto, deputato forzista, in quanto avvocato l’ha 
buttata sulla cronaca nera: «Omicidio della Costituzione!». Sono buone 
basi d’intesa col Movimento cinque stelle. Danilo Toninelli, 
portabandiera dei grillini sugli affari costituzionali, ha illustrato il
 rischio: «L’Italia cadrà nelle mani del partito unico, quello che fa le
 leggi per le banche e le lobby». L’ultimo passo, quello della 
differenza antropologica, l’hanno già compiuto quelli della sinistra del
 Pd, Miguel Gotor e Alfredo D’Attore (nel frattempo passato coi 
vendoliani), inorriditi all’idea di «fare le riforme con Denis Verdini».
 Dove la parola che conta non è riforme, è Verdini.