lunedì 30 maggio 2016

La Stampa 30.5.16
L’orrore in mare aperto
“I vivi chiedevano aiuto tra cadaveri galleggianti”
Il comandante della Vega, a Reggio Calabria con 45 salme “Hai pochi istanti per capire chi può essere salvato”
di Grazia Longo

Alla fine, quello che resta di tutto lo sforzo per salvare i diseredati che sfidano il mare alla ricerca dell’Eldorado, sono 45 sacchi neri, a dimensione umana, sul pontile.
Più una menzogna: di quelle vite spezzate, nessun migrante ha saputo nulla fino al momento dello sbarco. Non bastano il sorriso e l’urlo di gioia dei tanti sopravvissuti a far dimenticare quei quarantacinque corpi che galleggiavano a tre ore di mare dalla Libia e a dieci da Lampedusa.
Una maglietta del Real Madrid rigonfia di acqua, le infradito blu, un biberon accanto a un fagottino che non puoi rassegnarti a credere sia un bimbo di pochi mesi. Quarantacinque vite sospese, ripescate dal mare che inghiotte i sogni e le speranze, venerdì mattina alle 10,30 e restituite alla terraferma ieri, al porto di Reggio Calabria, in quarantacinque sacchi neri. «Ho ancora quelle immagini impresse negli occhi - racconta il comandante della nave della Marina Militare “Vega”, il tenente di vascello Raffaele Martino -. Venerdì mattina eravamo reduci da tre operazioni notturne. Tutte nel contesto del dispositivo del ministero della Difesa “Mare sicuro”. Complessivamente avevamo tratto in salvo già 474 persone. Ed era filato tutto liscio. Poi, invece, quello strazio».
Tre giorni al largo
L’allarme scatta con l’avviso di un elicottero della Marina che avvista un gommone rovesciato. «Non è ancora chiara la causa, è in corso un’inchiesta giudiziaria. Forse c’è stata una falla allo scafo, e purtroppo in tanti sono finiti in acqua mentre altri erano riusciti a rimanere aggrappati al barcone». Dall’elicottero erano state lanciate le zattere di salvataggio «e noi abbiamo subito calato i nostri due gommoni e salvagenti». Attimi in cui deve essere deciso tutto in fretta e con estrema lucidità. Raffaele Martino ha dormito appena 5 ore negli ultimi tre giorni, ma rimane perfettamente concentrato. «È il mio lavoro, io e i miei colleghi, siamo abituati. Lo stress è forte, ovvio, ma in quei momenti non puoi cedere a pressioni psicologiche di alcun tipo. Devi agire il più velocemente possibile per capire chi, in acqua, sia ancora vivo e chi no».
Stessa freddezza e stessa calma devono essere mantenute anche nella fase successiva al ripescaggio dei corpi. «Abbiamo accuratamente tenuto separati i vivi dai morti, anche se in tanti reclamavano un marito, una moglie, un figlio. Non abbiamo neppure detto che avevamo recuperato i cadaveri. Non potevo fare altrimenti: con un equipaggio di 65 militari, a fronte di 629 immigrati a bordo, non potevo permettermi di avere potenziali tensioni sulla nave. Mantenere l’ordine è un elemento prioritario per garantire la sicurezza sulla nave. Una volta a terra, i naufraghi ricevono la tremenda notizia con tutta la delicatezza e l’assistenza necessarie». Il ricordo, poi, si rivolge di nuovo agli attimi della scoperta delle vittime. «È stato terribile, quei corpi senza vita che galleggiavano mentre i vivi chiedevano aiuto. Ho subito capito che avremmo dovuto ricorrere all’uso dei sacchi neri».
I bambini
Ogni nave ha a bordo, oltre all’abbigliamento, al materiale sanitario e alimentare necessari per i sopravvissuti, anche quelle enormi buste con la lampo destinate a chi è arrivato al capolinea della vita. «In tutto abbiamo recuperato 155 superstiti e 45 vittime di cui prevalentemente donne, 36 donne, 6 uomini e tre neonati».
Una scena a cui nessun genitore vorrebbe mai assistere. Lo sa bene anche il tenente di vascello Martino, 33 anni, tarantino, moglie e due figli piccoli. Sa bene che il buio della notte in mezzo al mare e alla paura, si illumina con lo sguardo dei bambini. Quegli stessi bambini che fino a pochi minuti prima erano dei flash, per effetto del rilevatore ad infrarossi che individua i naufraghi in base alla differenza termica.
«Da lontano sembrano piccoli fantasmi, mentre da vicino i loro occhi dicono più di mille parole - prosegue il comandante -. E ogni volta che tiriamo su un bimbo, il mio pensiero corre ai miei due figli che hanno un anno e mezzo e quattro. Ma è un attimo, poi bisogna procedere a mettere tutti in salvo».
In trappola nella stiva
Un’impresa non semplice, perché occorre fare i conti con il rischio che i barconi non si trasformino in bare. «Spesso succede perché i migranti appena si accorgono che ci stiamo avvicinando si sbracciano, sbilanciando così il barone che quindi inevitabilmente rischia di capovolgersi».
Il caso più eclatante risale al 18 aprile 2015, 800 migranti morirono (molti intrappolati nella stiva) dopo che una carretta del mare si rovesciò a Sud della Sicilia. «Per evitare che ciò accada, ci avviciniamo noi il più possibile con due gommoni, dopo aver localizzato i migranti con i radar o i raggi infrarossi». La nave Vega, un pattugliatore di 80 metri (due sole donne nella truppa, addette alle munizioni, su 65) non è dotata di droni «che possono invece essere utilizzati dai mezzi più grandi, come le fregate. Ma non abbiamo comunque problemi per l’individuazione dei gommoni». In Marina da 15 anni, da quasi uno Martino si occupa di salvare disperati che scappano dalla guerra, dalla fame, dalla violenza. Finora ne aveva aiutati duemila, gli ultimi 629 arrivano da Eritrea, Senegal, Marocco, Libia, Pakistan, Nigeria, Somalia.
Ma lui guarda già avanti, al prossimo step. «Manco da casa da fine aprile e con il mio equipaggio lavoriamo ininterrottamente: a bordo abbiamo poco tempo libero, perché a parte “Mare sicuro” tra le nostre attività c’è anche il controllo e la difesa di petroliere e pescherecci italiani». Per gli interventi di salvataggio, preziosa la presenza a bordo di un medico e un infermiere «oltre, a volte, dei volontari della Croce rossa. Non sempre abbiamo il mediatore culturale, ma riusciamo comunque a comunicare con i profughi per le esigenze prioritarie». Ma mai una parola su chi è infilato in uno di quei sacchi neri.