La Stampa 30.5.16
Naufragi, la settimana nera
700 morti, strage di bambini
L’Onu: 40 piccoli tra le vittime. L’inferno nei racconti dei superstiti
Sui corpi di molte donne i segni delle violenze dei loro aguzzini
di Guido Ruotolo
Nessun salvataggio, nessun evento segnalato alla sala operativa della Guardia costiera. Si tira il fiato, in questa domenica dolente. Si piangono i morti e si assistono i vivi.
È stata una settimana terribile. Per il numero degli arrivi, intorno ai dodicimila, dei morti in almeno tre naufragi, oltre settecento, delle violenze denunciate dalle donne, spesso costrette a prostituirsi. Per quei quaranta corpi di bambini, alcuni tirati a bordo delle navi di salvataggio e altri inghiottiti dal mare.
C’era un tempo, non molto lontano, che quando i migranti arrivavano a terra, la Puglia negli anni Novanta, la stessa Lampedusa nel decennio successivo, si respirava un’aria se non di gioia di speranza. Certo, il viaggio era stato una Via Crucis comunque, doloroso, anche drammatico in certi casi, ma alla fine l’Europa era stata raggiunta. Lasciando alle spalle guerre, fame, violenze, discriminazioni razziali e religiose. Oggi il dolore è troppo forte, insopportabile è il trauma dei naufragi per la perdita di familiari, cari, amici o semplici compagni di sventura. E quei corpi in vita, i sopravvissuti, sembrano inanimati, consumati dal dolore e dalle lacrime.
Quando ieri mattina il pattugliatore d’altura «Vega», la nave della Marina militare intervenuta venerdì per prestare soccorso ai sopravvissuti di un’imbarcazione semiaffondata, è attraccata al porto di Reggio Calabria, è come se si fosse celebrato il funerale di tutti i migranti affogati, dispersi, morti nel Mediterraneo.
I quarantacinque corpi delle vittime di venerdì sono stati trasferiti dalla pancia della nave a un container frigorifero di 17 metri sul molo del porto. L’autorità giudiziaria vuole procedere con le identificazioni dei corpi mentre si cercano i trafficanti di migranti. Tra i morti, tre piccoli tra gli otto mesi e i due anni, trentasei donne e sei uomini.
Quarantacinque vite spezzate. Anonime, sconosciute. Ma almeno reali. E tutti gli altri settecento inghiottiti dal Mediterraneo in questi giorni? Ci sarà mai un marito, una moglie, un figlio che potranno piangere i loro cari?
Maledetti i trafficanti di migranti. Avevano a disposizione tre imbarcazioni malandate. Dovevano essere tanti in fila per imbarcarsi. Perché giovedì il peschereccio con cinquecento a bordo ha dovuto trainare una altra barca con lo stesso numero di passeggeri, senza motore. Erano soprattutto donne con i loro figli, famiglie del Corno d’Africa, dell’Eritrea e della Somalia, e del Sudan. E se è vero che è sudanese il comandante (arrestato ieri) di una di queste imbarcazioni, quella naufragata giovedì con almeno quattrocento dispersi, si conferma che ormai le organizzioni criminali curano il trasferimento dal paese d’origine alla Libia. E qui, insieme ai trafficanti locali, la traversata.
Ieri Reggio Calabria. Sabato Pozzallo e Taranto. E ancora prima Palermo, e poi forse Olbia. Vengono identificati i migranti e poi trasferiti nei diversi centri accoglienza.
I superstiti delle tragedie raccontano quegli attimi di terrore ai funzionari della Mobile di Reggio Calabria, ai volontari e ai mediatori culturali.
Questo è il racconto del terzo naufragio, quello di venerdì, avvenuto a una quarantina di miglia dalle coste libiche. Da subito i numeri erano dettagliati: 347 migranti erano saliti a bordo dell’imbarcazione, 135 erano stati salvati e 45 salme recuperate. Insomma, 212 tra morti e dispersi.
I racconti dei sopravvissuti parlano di 400, 450 migranti salpati da Sabratha. «Eravamo una decina a bordo di un gommone - racconta un superstite -. Abbiamo aspettato un paio di giorni e poi ci hanno fatto salire a bordo di un grosso barcone. Eravamo partiti da cinque, sei ore quando è cominciata ad entrare l’acqua. È stato tutto così rapido che in poco tempo, forse meno di un’ora, che la barca è affondata. Chi stava sotto, nella stiva, è rimasto imprigionato, saranno stati un centinaio. Siamo finiti in acqua, in balia del mare. Molte donne non sapevano nuotare e sono affogate».
Meno di un’ora, pochi minuti. Forse la percezione del tempo non è corretta, in quegli attimi tumultuosi. Anche a Reggio Calabria come a Pozzallo o Taranto le donne soprattutto hanno i segni della violenza: lividi, bruciature, ferite da armi da taglio. Ragazze minorenni stuprate e violentate. Diverse giovani violentate sono rimaste incinte. Diverse aspettano di partorire. Altre l’hanno appena fatto.
C’è chi racconta di aver aspettato in acqua ore e ore prima che arrivassero i soccorsi, e che erano tantissimi i corpi da recuperare e pochi gli uomini per recuperarli tutti. Una storia da dimenticare, per sopravvivere.