La Stampa 28.5.16
La classe media tradita dalla globalizzazione
Nei Paesi ricchi orfani dello sviluppo si affermano fanatismo e paura
di Antonio Maria Costa
Per mezzo secolo, dopo la Seconda guerra mondiale, i valori dell’Occidente si sono diffusi: libertà, sovranità popolare e stato di diritto. La democrazia si è affermata anche in economia: il libero scambio di merci e capitali ha generato lavoro e benessere nel mondo. Tutti hanno vinto. In Europa e Nord America si è rafforzata la classe media, orgogliosa di avere lavoro, pensione e casa. In Asia e Sud America un miliardo di persone è uscito dalla povertà. Poi tutto è cambiato.
Da due decenni Europa e America sono preda di un gioco a somma zero: tu vinci, io perdo. In politica, il regime democratico è paralizzato da veti incrociati e interessi di potere, mentre autocrati come Putin e Erdogan riscuotono consensi. In economia, il neo-liberismo è accusato di generare disoccupazione, disuguaglianza e incertezza. Sotto critica è l’intero sistema: la politica corrotta; la finanza ladra; l’evasione fiscale dei potenti; la petulanza dei sindacati; l’Ue incompetente; la Cina dominante. Il grido di Francesco contro «la folle brama di denaro» riassume tutte le critiche.
Non doveva finire così. La globalizzazione doveva aprire i mercati del Sud alle multinazionali del Nord: invece è successo il contrario. Nei paesi poveri il commercio ha portato benefici a un secondo miliardo di persone. Nei paesi ricchi solo un decimo della gente (i super-ricchi) ha beneficiato, mentre il resto ha sofferto – risultando nella distruzione della classe media. La Banca Mondiale, paladina del mercato libero, riconosce che la globalizzazione ha danneggiato due segmenti della popolazione mondiale: il 5% più povero (in Africa), e coloro con reddito compreso tra 70% e 90% del totale (la classe media in Europa e Usa). A Parigi, l’Ocse suddivide il dopoguerra in 3 ventenni: il primo caratterizzato dal forte aumento del reddito da capitale (il «miracolo economico» del 1950-70), poi capovolto dalla preponderanza del reddito da lavoro (gli «autunni caldi» del 1970-90), quindi nuovamente ribaltato dall’arricchimento odierno del capitale (frutto dell’integrazione eco-finanziaria).
Le tre valutazioni concordano: la globalizzazione ha ridotto il divario di reddito tra regioni ricche (Usa e Ue) e povere (Asia), ma ha aumentato il divario all’interno di ciascun paese: ha arricchito i miliardari e impoverito la borghesia. Se la tendenza continua, il populismo odierno evolverà in un miscuglio di nazionalismo, protezionismo e autoritarismo: la fine della cultura occidentale.
Perché la globalizzazione ha fallito, risvegliando fanatismo e xenofobia? In primo luogo, perché il libero scambio genera benefici in termini di reddito (in una proporzione 2:1 secondo l’Ocse), se accompagnato da condizioni oggi inesistenti: una politica economica appropriata (invece del conflitto odierno tra lassismo monetario e austerità fiscale); un mercato del lavoro efficiente (oggi monopolio di sindacati parassitari); e istituzioni funzionanti (mentre scuola, giustizia e sanità sono a pezzi).
Secondo, perché le straordinarie eccedenze commerciali della Cina hanno scassato gli argomenti a favore del libero scambio. Secondo la scienza economica, il prezzo dei fattori di produzione (terra, lavoro e capitale) tende a uniformarsi, diminuendo nei paesi in disavanzo (Europa e Usa) e crescendo in quelli con eccedenza (Cina). Col tempo il vantaggio economico della Cina dovrebbe quindi annullarsi, livellando la bilancia commerciale. Invece la correzione non è avvenuta: certo, mezzo miliardo di lavoratori cinesi godono ora di salari (corretti per la produttività) simili ai nostri, ma c’è un altro mezzo miliardo disposto a lavorare per una pagnotta. In altre parole, date le dimensioni demografiche, la Cina manda le controparti commerciali in bancarotta, prima che i costi di produzione si adeguino. E, peggio ancora, la Cina ora usa le sue straordinarie riserve valutarie (oltre 3 mila miliardi, pari a un festone di banconote da 100 euro dalla Terra alla Luna, e ritorno) per acquistare le poche nostre aziende sopravvissute. È pur vero che il modello di sviluppo cinese sta evolvendo, dalla crescita centrata sulle esportazioni allo sviluppo spinto dal consumo - mentre la valuta (renminbi) non è più sottovalutata, l’attività economica rallenta e la popolazione invecchia. Ma la loro strategia è stata impeccabile e il nostro danno (la de-industrializzazione) irreversibile.
Se le motivazioni economiche a favore del libero scambio sono oggi indebolite, neppure le argomentazioni strategiche (il commercio promuove pace) appaiono attuali. Oggi, scambi e finanza sono la continuazione della guerra, proprio come in passato la guerra è stata la continuazione della politica. In territorio nemico si sbarca oggi con navi-cargo di containers, non con mezzi-anfibi di marines; i fondi di investimento occupano le infrastrutture più rapidamente delle Forze Speciali; l’aggiotaggio della finanza è meno visibile degli aerei B-2.
Il Doha Round è morto. Ora, l’opinione pubblica si oppone agli straordinari negoziati sul Trans-Atlantic Trade & Investment Partnership tra Usa e Ue, e il Trans-Pacific Partnership tra Usa ed Asia. Se i timori popolari a proposito di ristagno, disuguaglianza e migrazione non sono imbrigliati al più presto – con misure concrete, non parole – le emozioni prevarranno sulla ragione. Sbattere la porta in faccia al mondo non è la soluzione, ma avverrà.