venerdì 27 maggio 2016

La Stampa 27.5.16
L’appoggio di Confindustria al governo
“Sì al referendum sulla Costituzione”
Il nuovo presidente Boccia sostiene le riforme di Renzi e il superamento del bicameralismo
Paolo Baroni

Confindustria appoggia le riforme, e rivendica con orgoglio la paternità del superamento del bicameralismo, dice ai sindacati che lo scambio salario/produttività è l’unica via per riformare i contratti ed al governo chiedere di spostare il peso del Fisco sui consumi abbassandolo su lavoro e imprese per aiutare la ripresa. Finito il semestre bianco che precede ogni cambio di presidenza Confindustria torna a farsi sentire e la prima mossa è tutta politica. L’occasione è quella dell’assemblea annuale dell’associazione, gran parata romana di imprenditori, uomini di governo (tra cui 7 i ministri), banchieri, politici e sindacalisti, evento quest’anno reso ancor più solenne dalla presenza del Capo dello Stato. 
Per Vincenzo Boccia, fresco di nomina, emozionatissimo per il debutto e per la presenza del padre Orazio, fondatore delle arti Grafiche Boccia, quella di ieri era la prima uscita ufficiale e subito il neo presidente ha messo in chiaro come intende guidare Confindustria: che vuole «no partisan», «equidistante dai partiti ma non dalla politica» e con una gestione di tipo collegiale. Proprio per questo la prima decisione operativa è quella di aspettare il Consiglio generale per ufficializzare la posizione sul referendum. Si riunirà il 23 giugno, uan data scelta apposta per non interferire coi ballottaggi delle amministrative anche se poi il sì al referendum è quasi scontato.
Strada obbligata
Per Confindustria, infatti, le riforme sono «una strada obbligata». Perchè il Paese ha disperato bisogno di recuperare competitività, visto che ancora oggi la risalita della nostra economia è «modesta e deludente». E perché «non può esistere un capitalismo moderno senza una democrazia e istituzioni moderne». «Le riforme - ha scandito Boccia, incassando uno dei 24 applausi che hanno accompagnato il suo intervento - servono innanzitutto a liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi, che hanno contribuito a soffocarlo nell’immobilismo. Confindustria si batte fin dal 2010 per superare il bicameralismo perfetto e riformare il Titolo V della Costituzione. Con soddisfazione oggi, vediamo che questo traguardo è a portata di mano». 
Un appoggio a Renzi? Nei fatti sì. In realtà Boccia ci tiene a precisare che «non conta chi fa le riforme, ma come sono fatte. E se noi le condividiamo, le sosteniamo. Le riforme non sono patrimonio dei partiti, ma di tutti i cittadini. Quindi anche nostro». Lo stesso atteggiamento, nessuna intenzione di interferire (in questo caso con le trattative in corso), il neopresidente lo applica anche alla questione delicatissima dei contratti. Boccia punta sullo scambio salario/produttività, l’unico praticabile con i profitti al minimo storico, da definire a livello di singole aziende. Quindi chiarisce: «Non vogliamo giocare al ribasso. Vogliamo una più alta produttività per pagare più alti salari». E per questo Boccia chiede che detassazione e decontribuzione diventino strutturali e senza tetti. Quanto alla trattativa coi sindacati, dopo che le confederazioni hanno «preferito arrestare il confronto per dare precedenza ai rinnovi contrattuali con le vecchie regole», ora tocca aspettare. Boccia sostiene che «non è opportuno» far scrivere le nuove regole dal governo, come ventilato più volte, ma adesso «non si può interferire coi rinnovi aperti». Non lo dice ma il problema sono i meccanici la cui trattativa è in alto mare. Cisl e Uil vorrebbero riavviare subito il dialogo, ma la Cgil è perplessa. Spiega Camusso: «Da Boccia solo ricette vecchie e già superate». 
Manovre di qualità
Patti chiari (e «nessuno scambio») anche col governo, al quale Boccia da atto dei buoni risultati conseguiti (allentamento dei vincoli europei, inizio del contenimento della spesa). La proposta, in questo caso, è un programma «di 4 anni», «manovre di qualità, politiche a saldo zero, senza creare nuovo deficit». Come prima cosa bisogna spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle cose, tagliando Irpef ed Ires e aumentando l’Iva. E poi servono «misure a favore di incapienti e poveri, per puntare davvero a «una società coesa e inclusiva».

Repubblica 27.5.16
I tre messaggi di confindustria
di Fabio Bogo

SE QUALCUNO pensava che Vincenzo Boccia, una lunga carriera di imprenditore tutta costruita nelle stanze di Confindustria, iniziasse il suo cammino da presidente dell’associazione degli industriali con una pletora di lamentazioni finalizzate alla ricerca del consenso interno, è rimasto deluso. Perché nei 50 minuti del discorso fatto in assemblea il neo leader degli industriali ha lanciato tre messaggi chiari.
Il primo è quello rivolto alla politica. Le riforme vanno fatte — ha detto — e da sempre gli imprenditori sono favorevoli a meccanismi che accorcino i tempi decisionali e permettano di legiferare con provvedimenti che non rimangano solo annunci, ma accompagnino i mutamenti in corso nella società e il cambiamento dei cicli economici. Ora un’occasione c’è, quella delle riforme costituzionali. Su questo fronte Boccia ha fatto un assist a Renzi facendo capire che gli imprenditori appoggeranno il sì al referendum che in autunno dovrà dare il via libera o fermare le modifiche alla Carta. In questo modo Confindustria cerca di recuperare quel ruolo propulsivo che anni di sbiadite leadership hanno offuscato e reso impalpabile, rendendo l’organizzazione degli imprenditori un soggetto confinato a battaglie lobbistiche magari efficaci nel medio cabotaggio, ma di scarso peso nelle riforme essenziali per modernizzare e motivare il Paese. L’appoggio confindustriale non è di scarso peso nella partita del referendum, considerando l’eventuale mobilitazione del capillare apparato degli imprenditori presente sul territorio.
Il secondo messaggio è quello rivolto al sindacato, e la parola chiave è la produttività. È questo il vulnus che ha provocato la lenta decrescita italiana, e la responsabilità non è solo del sistema industriale. Il sindacato deve sedersi assieme ai datori di lavoro per riscrivere assieme le regole della contrattazione collettiva, non dando più la priorità a quella nazionale. Lo scambio salario-produttività è l’unico praticabile, cosa che si traduce in una semplice equazione: saranno pagati salari più alti se aumenterà la quantità di beni o servizi forniti dal dipendente. E le nuove regole, quando il confronto interrotto con le organizzazioni sindacali ripartirà, dovrà avere una diversa stella polare: a scriverle dovranno essere le parti sociali e non il legislatore.
Il terzo messaggio è quello rivolto agli imprenditori, e probabilmente era il più inatteso. Non basta lamentarsi dell’impoverimento del Paese, recriminare sulle leggi che non ci sono, puntare il dito su un fisco che non aiuta. I problemi ci sono ed è giusto sottolinearli, ma è ipocrita girare la testa dall’altra parte per non vedere quali sono le criticità in casa propria. E il discorso di Boccia è un attacco piuttosto esplicito a un capitalismo asfittico che ha sempre giocato in difesa, ha guardato con sospetto alla raccolta diretta di capitale di rischio, ha snobbato i fondi di private equity, si è opposto alla separazione tra proprietà e gestione delle aziende pensando che fosse cosa giusta nascondere sotto il tappeto le carenze di qualità imprenditoriali; dimenticando che, invece, è il mercato alla fine a fare la selezione tra chi va avanti e chi si ferma ed esce dalla partita. Il momento attuale offre ampi squarci di anomalie. Le si rintracciano nel crac delle banche venete, dove la cattiva gestione del credito si è associata spesso alla complicità degli industriali che hanno contribuito a depredare le ricchezze degli istituti per poi fuggire con canali preferenziali quando il clima si è fatto pesante. Lo è nella battaglia per il controllo di Rcs, dove un imprenditore che fa l’editore lancia un’offerta per il controllo del gruppo editoriale, e quello che resta di un vecchio patto tra non editori alza subito una diga, con una controfferta che protegge un investimento di capitali ma anche di influenza.
La sfida di Boccia e il richiamo alla necessità di svecchiare quel mondo è un elemento di novità. Bisognerà che il nuovo corso di Confindustria non si limiti a denunciarlo ma sia parte attiva in questa battaglia. Boccia non può non sapere che mentre chiede alle imprese di investire nell’industria del futuro e di ripensare l’impresa in termini di sviluppo digitale, una parte dei destinatari del messaggio è sorda. Un rapporto Unioncamere rivela che quattro imprenditori su 10 ritengono internet inutile alla loro azienda; che solo il 26,5 per cento di chi opera nel Made in Italy utilizza i social network per promuovere il proprio marchio; che appena il 5,1 per cento ricorre all’e-commerce. Boccia al governo ha chiesto leggi e fatti concreti, e non annunci. Dovrà ricordarsi di vigilare anche in casa propria.

il manifesto 27.5.16
Se la democrazia è incompatibile con il mercato
di Andrea Colombo

Il pronunciamento netto a favore della riforma istituzionale col quale ieri Vincenzo Boccia ha inaugurato il mandato alla guida di Confindustria non è uno dei tanti pareri che piovono in questi giorni, in seguito alla scelta renziana di aprire la campagna referendaria con mesi di anticipo.
Sul sì degli industriali, che verrà ufficializzato il 23 giugno dal Consiglio generale dell’associazione, non c’erano dubbi. Le motivazioni dell’entusiasta sostegno degli industriali alla riforma meritano tuttavia di essere considerate con attenzione. Boccia infatti non le manda a dire: le riforme sono benvenute e benemerite perché devono «liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi», il cui perverso esito è stato «l’immobilismo».
Immobilismo? In un Paese in cui, nel 2011, un governo da nessuno eletto ma imposto dall’Europa e da un capo dello Stato che travalicava di molto i confini del proprio ruolo istituzionale ha stracciato in quattro e quattr’otto diritti e garanzie del lavoro conquistate in decenni, senza che quasi nessuno proferisse verbo? Con un governo che nella sua marcia ha incontrato un solo serio ostacolo, costituito non dalle minoranze e dai particolarismi ma da una parte integrante della truppa del premier, i cosiddetti catto-dem? Dal giorno dell’ascesa a palazzo Chigi di Renzi, anche lui senza alcun voto popolare, il loro è stato l’unico no che il governo ha dovuto ingoiare ma è improbabile che a questo alludesse Boccia. Per il resto nessuna minoranza e nessun particolarismo hanno trovato ascolto alle orecchie del gran capo.
Il problema è che gli industriali, proprio come la grande finanza e le centrali del potere europeo, stanno mettendo le mani avanti. Non hanno bisogno di intervenire sul presente, che dal 2011 gli va benone così com’è, ma sul futuro. Devono impedire che la democrazia, dissanguata in nome della crisi dei debiti e del voto del 2013, reclami domani diritti che sulla carta ancora avrebbe. Si tratta, non certo per la prima volta nella storia italiana, di rendere un’emergenza permanente.
Quello degli industriali non è un endorsement tra i tanti: è la vera chiave della riforma, la sua ragion d’essere. Per smontare la retorica sui guasti del bicameralismo che costringerebbe le leggi a transitare come anime in pena tra Montecitorio e Palazzo Madama basterebbero i dati sui tempi di approvazione delle leggi in Europa. L’Italia è nella media.
Da quel punto di vista il bicameralismo non desta preoccupazioni. I tempi diventano biblici solo quando leggi spinose vengono chiuse nel cassetto e lì dimenticate. Nulla, nel nuovo assetto disegnato dalla riforma, impedirebbe di farlo ancora, sia pure in una sola camera.
I poteri economico-finanziari, però, si sono convinti che produzione ed economia possano prosperare solo in una situazione di democrazia decurtata e in virtù di governi autoritari, tali cioè da non doversi misurare con «le minoranze e con i particolarismi», in concreto, con un libero Parlamento.
Come quasi tutti gli orientamenti imposti dall’Europa e dai poteri economico-finanziari si tratta di un dogma. Anche a voler accettare il prezzo salatissimo dello scambio tra democrazia e produttività, nulla garantisce che i risultati arriverebbero, anche solo in termini di efficienza produttiva. Proprio il caso dell’Italia, dove la democrazia parlamentare è soffocata da ormai cinque anni senza risultati apprezzabili, dovrebbe dimostrarlo, ma tant’è. Questa è la strada decisa da chi deve decidere per tutti.
Questo ha detto nel suo primo discorso il presidente di Confindustria. Scusate se è poco.

Il Fatto 27.5.16
Il Cda boccia la richiesta di pluralismo di Freccero, Mazzuca e Diaconale
La Rai ha deciso: chi dice No non parla
Barricate dei consiglieri dem. Palinsesti, tsunami Bignardi: Ballarò neutralizzato con cronaca e società, Report e Presadiretta sloggiano da domenica a lunedì
di Carlo Tecce
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Il Fatto 27.5.16
Intervista a Bersani
”Il made in Italy non è solo moda e cibo”
“Renzi aiuta pochi potenti in cambio dei loro giornali”
“Favori ai Vip, stampa amica e zero lavoro: l’Italia di Renzi”
“Pensiamo ai 6 milioni di posti di lavoro che mancano e poi al voto di ottobre
di Giorgio Meletti
qui
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La Stampa 27.5.16
Prescrizione, stop dopo il primo grado
Il blitz di Casson scatena l’ira di Ncd
M5s esulta: noi ci stiamo. Il Pd prende le distanze
di Francesco Grignetti

Colpo di scena, maturato negli ambienti dem del Senato: il meccanismo della prescrizione potrebbe cambiare radicalmente, interrompendosi dopo la sentenza di primo grado. È la stessa logica dei magistrati dell’Anm, rilanciata di recente da Piercamillo Davigo. Ed è anche la proposta che i grillini appoggiano da sempre, non per caso entusiasti della accelerazione che porta le firme dei relatori Felice Casson e Giuseppe Cucca, Pd.
Però c’è un però. Questa novità, che il governo e il Pd avevano pure vagliato in prima istanza e poi scartato, non pare essere stata concordata né con il resto della maggioranza, né con il gruppo dirigente del partito. Spiega Casson, che da tempo sostiene questa idea di bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado: «Come relatori abbiamo presentato 9 emendamenti, traendoli da vari ddl presentati dal Pd». In effetti si è ispirato a un ddl a sua firma.
Quel che potrebbe anche funzionare nell’Aula del Senato, però, rischia di scassare l’intero quadro politico. Non per caso, a interpellare telefonicamente il ministro Enrico Costa, Ncd, si ottiene un commento gelido: «Non ci credo che un emendamento simile sia stato presentato dai relatori».
È tale l’ira degli Ncd che un esponente di primo piano sibila: «Se credono di costringerci a trattare sotto la minaccia della bomba atomica, si sbagliano di grosso. Vogliono che i processi durino 30 anni? Si accomodino. La prescrizione, se diventa così, se la votassero con i Cinque Stelle. Che li fregheranno come hanno fatto con le Unioni civili».
Il colpo di scena arriva in un diluvio di 800 emendamenti. La riforma del processo penale, infatti, ha ripreso la marcia in commissione Giustizia di palazzo Madama. Ma gli scogli principali restano sempre lì: le intercettazioni - su cui i relatori prevedono di adottare il meccanismo delle circolari delle procure, che non fanno trascrivere le conversazioni prima della cosiddetta udienza filtro - e la prescrizione.
Ora giunge l’emendamento di Casson e Cucca che sospende tout-court la prescrizione dopo una sentenza di primo grado. E si nota la soddisfazione dei grillini. «La maggioranza per approvare il provvedimento c’è - dicono il senatore Enrico Cappelletti e il deputato Vittorio Ferraresi - ci auguriamo che questa sia la posizione ufficiale del Pd e che il partito di Renzi non si pieghi per l’ennesima volta agli interessi di Ncd e Verdini».
Lo stupore con cui, però, reagiscono David Ermini, il renzianissimo responsabile Giustizia, oppure Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera, racconta di un Pd preso in assoluto contropiede. Non ne sapevano assolutamente nulla.
Il punto è che all’interno del governo si era arrivati faticosamente a un’altra formulazione, poi votata alla Camera circa un anno fa. Al Senato le cose si sono bloccate per molto meno: un aumento specifico per la prescrizione del reato di corruzione, i cui processi, nella nuova formulazione, potrebbero durare oltre 21 anni. E già questo scenario sembrava indigeribile all’Ncd. Ora si vuole applicare un sistema draconiano all’intero universo penale. E tutto sembra tornare in alto mare.

Repubblica 27.5.16
Saviano: il Pd si vergogni di Verdini
Lo scrittore anti-camorra reagisce alle offese di D’Anna, il senatore di Ala che ne ha chiesto la revoca della scorta Zanda: parole inaccettabili. La minoranza dem: quest’alleanza è un problema gigantesco, tradisce i nostri valori
di Dario Del Porto Ottavio Lucarelli

NAPOLI. La furia di Roberto Saviano sul patto Pd-Verdini. «Sono questi gli alleati di Renzi a Roma e di Valeria Valente a Napoli? Sono queste le nuove risorse campane? Buona fortuna. E vergogna» scrive su Facebook l’autore di Gomorra dopo le affermazioni di Vincenzo D’Anna, senatore di Ala che, intervenendo a Radiodue alla trasmissione
Un giorno da pecora,
ha messo sotto accusa il sistema di protezione dello scrittore e della senatrice Rosaria Capacchione: «Dovrebbero rinunciare alla scorta e lasciarla a chi combatte la malavita. Nessuno vuole ucciderli». Saviano è addirittura etichettato da D’Anna come «icona farlocca, si è arricchito con un libro che ha pure copiato per metà», ha detto riferendosi ad una sentenza della magistratura.
Frasi da cui ha preso le distanze Valeria Valente, candidato sindaco del centrosinistra a Napoli, definendole «inaccettabili». E aggiungendo: «I voti della camorra non li vogliamo». Stessi toni da Luigi Zanda, presidente dei senatori Pd: «Le parole di D’Anna sono inaccettabili sotto qualsiasi profilo e sono ingiustificabili per qualsiasi ragione politica, elettorale e di concorrenza sul territorio ».
Ma Saviano affonda i colpi: «Il senatore D’Anna - scrive ancora sul social - dannoso scherano di Verdini, renziano e cosentiniano insieme, impone a me di rinunciare alla scorta. A me che non vedo l’ora di ritornare libero. Cosa debbo pensare: ha forse progetti per il mio futuro?». Saviano critica anche la Rai: «Grazie a Radio-Rai e al servizio pubblico che hanno consentito la diffusione delle solite porcherie».
Denis Verdini si scusa con la Capacchione, anche a nome di D’Anna, regalandole un fascio di orchidee. Ma nel corso della giornata politica il caso si gonfia e riapre lo scontro interno al Pd. Roberto Speranza, ex capogruppo democrat alla Camera ed esponente della sinistra, scrive: «Inaccettabili le parole degli uomini di Verdini su Roberto Saviano. Penso che il Pd con questa gente non debba avere nulla a che fare». I senatori Federico Fornaro, Maria Grazia Gatti e Carlo Pegorer attaccano: «Delle scuse di Verdini, francamente, non sappiamo che farcene. Non vedere il gigantesco problema politico rappresentato dall’alleanza con Ala e da questi episodi, significa tradire i valori fondativi del Pd».
Ala prova a smorzare i toni. D’Anna affiancato da altri due senatori, Pietro Langella e Antonio Milo, parla di «inutili polveroni» che «non ci distoglieranno dal perseguire, con tenacia e determinazione, la vittoria di Ala e Valeria Valente a Napoli». Ma un altro senatore dello stesso gruppo, Ciro Falanga, si smarca: «Le dichiarazioni di D’Anna sono gravi e rese a titolo personale».
A sostegno di Saviano il ministro dell’Interno Angelino Alfano che censura le frasi di D’Anna: «La scorta allo scrittore non è in discussione». Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando la discussione «va chiusa il prima possibile, altrimenti si rischia di generare l’idea che il sistema della tutela sia sottoposto ad una sorta di dibattito. Ci sono regole molto chiare che scattano in automatico, che devono realizzare la sicurezza degli interessati e dare un messaggio chiaro alla criminalità organizzata».
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Il senatore offende anche Capacchione Interviene Alfano: la scorta non si tocca
Lo scrittore Roberto Saviano. Per i suoi libri e articoli contro le mafie vive scortato da ormai dieci anni

Repubblica 27.5.16
Accordo anche a Roma Denis sostiene Giachetti
I verdiniani fanno campagna per tre candidati in una lista civica alleata del pd
di Tommaso Ciriaco

ROMA. E adesso Denis Verdini esce allo scoperto anche a Roma, schierandosi al fianco di Roberto Giachetti nella battaglia per il Campidoglio. Ala sposa ufficialmente la causa del professor Francesco Romeo, in corsa con una lista civica alleata con il Partito democratico. L’intesa è stata suggellata pubblicamente, ieri sera, in un centro congressi a due passi dal Quirinale. Dopo Napoli, Cosenza e Grosseto, anche la Capitale entra di fatto nel patto tra il Pd e l’ex ras berlusconiano. Con discrezione, però, perché stiamo pur sempre parlando del primo comune d’Italia e tutti i riflettori sono puntati su questa sfida.
All’evento lavorava da qualche tempo il deputato calabrese Pino Galati. Fino all’incontro, in un salone di via Cavour, presenti appunto Galati e altri due pezzi da novanta verdiniani come i deputati Ignazio Abrignani e Saverio Romano. Verdini non c’è, per evitare di alimentare nuove polemiche dopo quelle delle ultime ore. La lista in questione è “Più Roma - Democratici e popolari”, lanciata qualche settimana fa alla presenza dallo stesso Giachetti. Un contenitore di ispirazione cattolica ideato da Maria Fida Moro, figlia di Aldo Moro.
Fin dalla locandina è esplicito il sostegno dello stato maggiore di Ala a Romeo, direttore di cattedra universitaria a Tor Vergata e presidente della società italiana di cardiologia. Sorrisi e strette di mano certificano l’intesa. Calabrese come Romeo, Galati si spinge addirittura oltre: «È un illustre cardiologo. Abbiamo gli stessi valori. È stato tra i giovani della Dc e condivide con noi la necessità di una forte area centrista e riformista». Ma soprattutto, ricorda il parlamentare, «è convinto sostenitore del sì al referendum costituzionale ed è disponibile a entrare nel nostro comitato per il sì che dovrebbe essere presieduto da Marcello Pera». Ecco il prossimo passo della pattuglia dei verdiniani: cementare il legame già solido con Renzi attraverso il passaggio popolare d’ottobre sulla riforma costituzionale.
Gli esponenti che appoggia Ala sono in realtà tre, dato che in sala venivano distribuiti i santini elettorali con i nomi di altri due candidati. Il sostegno al progetto di Giachetti era stato anticipato nei mesi scorsi in via ufficiosa da Verdini ai suoi più stretti collaboratori, alla viglia del passaggio delle primarie, tutto interno al Pd. Allora provocò smentite dell’ex coordinatore del Pdl e fece infuriare il presidente dei democratici, Matteo Orfini, che schivò pubblicamente l’abbraccio di Ala. Ora i verdiniani tengono a battesimo uno dei candidati di punta di una lista civica alleata con Giachetti.

Corriere 27.5.16
Nel Pd nuovo duello sull’Italicum Guerini a Bersani: resterà così
E D’Alema: con questa legge elettorale cittadini ininfluenti, giocheranno a briscola
di Dino Martirano

ROMA Mancano ancora 4 mesi all’appuntamento con il referendum costituzionale, ma il fronte del Sì e quello del No alla riforma Renzi-Boschi già ragionano con il calendario in mano. Se la data buona per il premier è quella di aprire le urne domenica 2 ottobre, l’avvocato Felice Besostri, cofondatore del Coordinamento democrazia costituzionale, fa osservare che proprio martedì 4 ottobre è convocata la Consulta per discutere i primi profili di incostituzionalità dell’Italicum ritenuti non manifestamente infondati dal tribunale di Messina.
E dunque proprio sulla nuova legge elettorale — a doppio turno, con 100 collegi, capilista bloccati e premio di maggioranza al primo partito — si moltiplicano le tensioni interne al Pd. L’ex segretario Pier Luigi Bersani (che ha votato in Aula a favore della riforma costituzionale) puntualizza che il suo Sì al referendum è condizionato: «Suggerisco che venga dichiarata la disponibilità, una volta approvata la riforma, a rivedere l’Italicum». Ma il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, è gelido sul punto: cambiare l’Italicum «non è all’ordine del giorno, il Parlamento ha approvato una legge elettorale su cui non ci sono le condizioni per una discussione diversa». E anche il premier e segretario del Pd, Matteo Renzi, impegnato al G7, manda il suo messaggio quotidiano sul referendum: «Le riforme non toccano i poteri del governo e del premier ma aumentano i poteri di opposizione e dei cittadini...».
Al ping-pong di dichiarazioni, che lascia perfino l’eco nelle aule parlamentari ormai vuote fino al primo turno delle Amministrative (5 giugno), non si sottrae l’ex premier Massimo D’Alema: «Spero che ci possa essere un confronto civile sulle riforme». Tuttavia — aggiunge, caustico, il presidente della fondazione Italianieuropei — «se si va a un sistema in cui più della metà dei deputati saranno nominati dai capi dei partiti e i senatori saranno nominati dai consigli regionali, ai cittadini cosa rimane da fare? Giocare a briscola?».
Ma la partita tra Sì e No che dilania la sinistra si gioca anche in periferia, dove in particolare i comitati per il Sì sono alla ricerca di testimonial di rango per «comunicare» al popolo del Pd i contenuti della riforma. A Torino, dove il fronte del No è ancorato al carisma del professor Gustavo Zagrebelsky, sembra che non sia andata a buon fine la proposta di coinvolgere in prima persona il governatore Sergio Chiamparino. Invece sono disponibili a promuovere comitati per il Sì il sindaco di Catania, Enzo Bianco, e quello di Pescara Marco Alessandrini. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, non si espone. L’Associazione nazionale dei partigiani (Anpi), schierata per il No, propone confronti bipartisan: dopo Marzabotto (Ceccanti-Gallo) ora tocca a Cesano Boscone dove si confrontano Matteo Mauri (Pd) e l’avvocato anti Italicum Felice Besostri. La confederazione combattenti lascia libertà di voto. Non il Comitato famiglie per il No al referendum (già contrario alle unioni civili) .

Repubblica 27.5.16
Massimo Cacciari.
Il filosofo, ex deputato e sindaco, fa autocritica “Anche noi volevamo dare più potere decisionale alla democrazia, il Pci frenò”. “Ora Renzi però fa un errore capitale se personalizza il confronto”
“Riforma maldestra ma è una svolta l’attacca chi ha fallito per 40 anni”
colloquio con Ezio Maurp

PROFESSOR Cacciari, lei è una coscienza inquieta della sinistra italiana che ha visto anche all’opera da vicino, quando è stato parlamentare. Si aspettava questa battaglia all’ultimo sangue sul referendum?
«Devo essere sincero? C’erano tutti i segnali. Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant’anni, e non ci siamo riusciti. La strada della grande riforma sembra un cimitero pieno di croci, i nostri fallimenti. Adesso Renzi forza, e vuole passare. Chi ha fallito si ribella».
Fuori i nomi, professore: chi ha fallito?
«Noi, la mia generazione, a destra come a sinistra. Sia i politici che noi intellettuali. Ci sono anch’io, infatti, insieme con Marramao, Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, si ricorda? E dall’altra parte, a destra, il professor Miglio alla Cattolica, le idee di Urbani. Eravamo nella fase finale degli anni di piombo, la democrazia faticava. Ragionavamo sulla necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza scettro, come dicevamo allora, perché necessariamente era nata con la paura del tiranno. Di fronte alla crisi sociale di quegli anni, pensavamo fosse venuto il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema democratico ».
Di cosa avevate timore?
«Si parlava molto del fantasma di Weimar. Ragionavamo su basi storiche, scientifiche, costituzionali. La crisi ci faceva capire come una Costituzione che ostacola un meccanismo di governo forte e sicuro sia debole, perché quando la politica e le istituzioni sono incerte decidono altri, da fuori».
Oggi diremmo la finanziarizzazione, la globalizzazione?
«Certo. Ma non dobbiamo pensare solo alle lobby e all’economia finanziaria o ai grandi monopoli, bensì anche alle tecnocrazie create democraticamente, come le strutture dell’Unione europea, che rischiano in certi momenti di soverchiare la politica».
Come mai quell’idea non ha funzionato?
«Per un ritardo culturale complessivo del sistema, evidentemente. Ma devo dire in particolare per il conservatorismo esasperato del Pci e del suo gruppo dirigente, che parlavano di riforme di struttura per il mondo economico-industriale, ma sulle istituzioni erano bloccati. Dibattiti tanti, convegni dell’istituto Gramsci, qualche apertura di interesse da Ingrao e Napolitano. Ma niente, rispetto alla nostra discussione sul potere e la democrazia».
Per la paura comunista, dall’opposizione, di rafforzare l’esecutivo?
«Un riflesso automatico. Ma vede, noi non parlavamo solo di rafforzare l’esecutivo, è una semplificazione banale. Il potere non è una torta di cui chi vince prende la fetta più grande e chi perde la più piccola, la somma non è zero. Noi volevamo rafforzare tutti i soggetti del sistema democratico. Più potere al governo, dunque, ma con un vero impianto federalista che articola il meccanismo decisionale, e un autentico Senato della Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d’Italia, come oggi».
Ma un governo più forte significa un parlamento più debole?
«Non se lo dotiamo di strumenti di controllo e d’inchiesta all’americana, e se è capace di agire autonomamente, senza succhiare le notizie dai giornalisti o dai giudici: un’autorità quasi da tribunato».
Quindi un nuovo bilanciamento, tra poteri tutti più forti? E’ questa la riforma che vorrebbe?
«Un potere rafforzato e ben suddiviso. Il potere non si indebolisce se è articolato razionalmente e democraticamente tra i soggetti giusti. E’ quando si concentra in poche mani e si irrigidisce che diventa debole».
Non è quello che denuncia Zagrebelsky?
«E’ quello che capisce chiunque, salvo chi è digiuno culturalmente. Il potere per funzionare deve essere efficace ma anche articolato come ogni organizzazione moderna. Chi può pensare in questo millennio che si ha più potere se lo si riassume in un pugno di uomini invece di regolarlo con una diffusione partecipata e democratica? ».
E’ esattamente l’accusa che viene rivolta dal fronte del “no” alla riforma del Senato, non le pare?
«Esattamente proprio no. Manca l’autocritica che sta dietro tutto il mio discorso: la presa d’atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur sapendo che ce n’era bisogno. Diciamola tutta: la nostra idea di rispondere al bisogno di modernizzazione dell’Italia riformando le istituzioni ha contato in questi quarant’anni come il due di coppe quando si va a bastoni. Bisognerà pur prendere atto di questo, e trarne le conseguenze politiche».
Quali?
«Non abbiamo la faccia per dire no a una riforma dopo aver buttato via tutte le occasioni di questi quattro decenni. Non siamo riusciti a costruire nulla di positivo dal punto di vista della modernizzazione del sistema: niente di niente».
E dunque per questo – mi ci metto anch’io – dovremmo stare zitti?
«Dovremmo misurare i concetti, le parole, le proporzioni tra ciò che accade e come lo rappresentiamo. La riforma crea danni ed è autoritaria? Balle: è vero che punta sulla concentrazione del potere, ma la realtà è che si tratta di una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino. Erano meglio persino quei progetti delle varie Bicamerali guidate da Bozzi, De Mita e D’Alema, più organici e articolati, anche se centralisti e nient’affatto federalisti ».
Ma la critica sulla concentrazione oligarchica del potere è la stessa di Zagrebelsky, no?
«Certo ma, ripeto, non condivido certi toni da golpe in arrivo, che non sono di Zagrebelsky. Il vero problema, secondo me, non è una riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale, correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e la riforma passerebbe tranquillamente ».
Lo chiede la minoranza Pd, lo propone Scalfari, ma Renzi finora ha risposto di no: dunque?
«La posta è stata alzata troppo, da una parte e dall’altra, anche se in verità ha cominciato Renzi, personalizzando il referendum e legandolo alla sua sorte. Un errore capitale. Penso che lo abbia capito ma ormai non possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata, e si gioca tutta su di lui, da una parte e dall’altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo chiesti cosa succede dopo? ».
Anche lei prigioniero del “non c’è alternativa”?
«No, io so cosa c’è, è evidente. Renzi va da Mattarella, chiede le elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e lancia una campagna all’insegna del sì o no al cambiamento, con quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che vogliamo? ».
Ma non le sembra che così lei si stia autoricattando?
«Perché quante volte lei e tante persone di sinistra non hanno fatto la stessa cosa in questi anni? Vuole fingere che non abbiamo votato spesso turandoci il naso? C’è una teoria della cosa, si chiama il “male minore”. D’altra parte stiamo parlando della povera politica italiana, non di Aristotele».
E se si trovasse in emergenza una maggioranza per una diversa legge elettorale?
«Illusioni. Se mai, non escludo il contrario. E cioè che Renzi come extrema ratio punti lui a una rottura verticale per ottenere il voto anticipato. E in ogni caso, pensiamo all’effetto che avrebbe sull’opinione pubblica un nuovo fallimento, dopo i tanti che noi abbiamo collezionato. Significherebbe certificare che in Italia il sistema non è riformabile, per due ragioni opposte unite nel “no”: chi vede un pericolo autoritario, chi solo dei dilettanti allo sbaraglio».
Sta dicendo che rifiuta il “no”?
«Come ho cercato di spiegare capisco molte delle ragioni del fronte del “no”, non il tono e l’impianto generale. Dopo aver detto tutto quel che penso della riforma, considero che realizza per vie traverse e balzane alcuni cambiamenti che volevamo da anni».
Dunque?
«Voterò sì, per uno spirito di responsabilità nei confronti del sistema. Penso che si possa essere apertamente critici e sentire questa responsabilità repubblicana ».
Lei è stato tre volte sindaco di una città come Venezia.
Pensa che il voto amministrativo potrà modificare il quadro o i rapporti di forza?
«E’ inutile girarci intorno, è Milano che decide l’intera partita. Se il Pd perde a Milano, il centrodestra capisce come deve muoversi, ricostruisce un campo, prova a sfondare sul referendum sfruttando la ferita aperta di Renzi».
E a sinistra?
«Nessun segno di vita pervenuto, dunque poche speranze».
Professore, non rischiamo così di incoraggiare un cinismo distruttivo che la sinistra già produce in abbondanza? E proprio mentre una nuova destra al quadrato bussa ai confini con l’Austria e con tutta l’Europa di mezzo?
«Di più. Stiamo coltivando una cultura della sconfitta, guardi com’è ridotta la socialdemocrazia che poco tempo fa governava l’Europa. Oggi è schiacciata da derive di sinistra, come Tsipras, e di destra magari anche al cubo, come Hofer ».
E’ colpa della crisi o della lettura che la sinistra fa della crisi?
«E’ colpa della sua incertezza identitaria. Anche in politica l’identità è tutto, non ci sono solo gli interessi, sia pure legittimi. La sinistra perde perché è identificata col sistema vigente, anzi con la sua élite, a cui viene imputata la crisi. Ma così perde la sua ragione di stare al mondo che è ancora e sempre una sola: cercare di cambiare lo stato di cose esistente».

Corriere 27.5.16
Atac, l’eden dei permessi In un anno 111 mila ore per i distacchi sindacali
Roma, le gomme comprate da un dipendente dell’azienda
di Sergio Rizzo

Ci sono fatti che non possono accadere in un’azienda. Perché se accadono, quella non è un’azienda normale. L’Atac, per esempio. Può un suo dipendente in aspettativa dirigere la ditta privata che le fornisce gomme per milioni di euro l’anno? Il fornitore dell’Atac in questione si chiama Gommeur e il funzionario dell’Atac che la dirige è Roberto Alviti: da tempo in aspettativa per «motivi personali». Incredibile. Ma non come la reazione di incredulità del Nostro davanti alla lettera che preannunciava il suo licenziamento: «Perché mi mandate via»? Ben altre domande suscita però questa storia. Quanti suoi colleghi sapevano? E perché non hanno mai parlato?
Tanto basta per dare l’idea della mostruosità della missione che il nuovo direttore generale Marco Rettighieri si è intestardito a compiere: ristabilire alcune regole elementari. L’Atac è la municipalizzata più grande del Paese. Ha 11.871 dipendenti. Numero pari a quasi metà degli operai Fiat in Italia. E in nessun’altra azienda pubblica l’impasto fra interessi affaristici, potere sindacale e interferenze politiche si presenta così torbido. Al punto da costituire un partito trasversale, dove non c’è destra né sinistra: perché la ragione sociale è la difesa di interessi e privilegi a spese dei contribuenti. Il dossier che il senatore democratico Stefano Esposito, ex assessore alla mobilità della giunta di Ignazio Marino, ha spedito al procuratore della Repubblica di Roma dopo averlo ricevuto anonimamente contiene cose spaventose.
Cominciando proprio dalle gomme. Nel periodo 2013-2015, a fronte di un contratto full service per un importo di 8 milioni 797.860 euro, l’Atac ne ha sborsati 16 milioni 758.257. Il doppio. Motivo? Dice l’audit interno che per un parco di circa 12 mila pneumatici in tre anni ne sono stati sostituiti 11.400 per usura e ben 15.371 per rottura. Le strade di Roma sono una groviera disastrosa, lo sappiamo. Ma questi numeri, sostengono gli ispettori, destano comunque serie perplessità in rapporto alle percorrenze medie dei bus, 45 mila chilometri l’anno: un terzo della durata media di 130 mila chilometri offerta dal fornitore in sede di gara. Perplessità destinate ad aumentare considerando come «nel solo ultimo anno precedente al rinnovo contrattuale», ovvero il 2012, «erano già state sostituite 10 mila gomme per usura e 8.500 per rottura». Per non parlare dell’acquisto di 4.800 gomme termiche e dei 337 nuovi autobus entrati in esercizio nel periodo, comprensivi di altri 2.500 pneumatici già pagati con il mezzo e per i quali è stato pagato anche il relativo canone full service.
E i distacchi sindacali? Nel relativo corposo capitolo del dossier si racconta che nel 2015 sono state concesse 111.664 ore di «agibilità sindacali», ben 11.283 più del monte a disposizione. E che quest’anno, considerando anche i permessi retribuiti, si dovrebbe toccare quota 131 mila, corrispondenti al lavoro di 82 persone, con un costo per l’azienda di 3 milioni 772 mila euro. Ciliegina sulla torta: «Risultano inoltre in distacco continuativo presso due sindacati, Cgil e Cisl, tre dipendenti per i quali non vi è alcuna giustificazione a partire dal 2015, in seguito all’interruzione del rapporto associativo dell’Atac con Asstra ( l’associazione delle aziende di trasporto, ndr )».
Altrettanti sono poi distaccati al dopolavoro, che in un’azienda così poco normale non poteva che avere una funzione anormale. Un’esagerazione? Non esiste al mondo azienda pubblica o privata dove il servizio di mensa sia gestito da un dopolavoro: cioè dai sindacati. Tranne, naturalmente, l’Atac. Tutte le 18 mense qui sono gestite dai sindacati, che per questo servizio incassano dall’azienda circa 4,2 milioni l’anno. Più 2 euro e dieci centesimi pagati da ciascun dipendente per ogni pasto. L’Atac mette anche a disposizione gratis i locali, paga luce, gas, pulizie e tassa sui rifiuti. Il dopolavoro gestisce pure i bar aziendali e 151 distributori di bevande e snack. Da quale contratto derivi questa singolarissima rendita di posizione, non è dato sapere. Si sa solo che tutto nasce nel 1974, ma carte non ce ne sono. Né esiste rendicontazione dei pasti effettivamente distribuiti.
Ci fermiamo qua. Limitandoci a suggerire ai vari candidati sindaco maggiore cautela in certe dichiarazioni, tipo quella secondo cui l’Atac dovrebbe essere «un fiore all’occhiello» della Capitale. E a chi insiste sul tabù della proprietà municipale, per la paura di perdere voti, ricordiamo che se si vuole risanare un’azienda ridotta così serve innanzitutto un coraggio da leoni. Certo non la difesa, che invece quasi tutti pare abbiano a cuore, dello status quo.

il manifesto 27.5.16
Loi Travail: le manifestazioni continuano
Francia . Cortei in tutto il paese. Valls: la riforma resta. Ma il governo si incrina e cerca un cuneo tra Fo e Cgt. Il tempo stringe: il 10 giugno inizia l'Euro di calcio
di Anna Maria Merlo

PARIGI Ottava giornata di manifestazioni in tutto il paese contro la Loi Travail, la 18esima a Nantes, per esempio, a Parigi tra 18-19mila (fonti Prefettura) e 100mila persone (fonte Fo), con le solite code di scontri. Manifestanti con caschi, occhiali da piscina o da sci, 16 fermi nella capitale, con vetrine spaccate, lacrimogeni, ecc. “Restituiteci i nostri compagni” hanno reagito dei manifestanti alla fine del corteo, in place de la Nation, contestando i fermi. Gli slogan confermano la frattura inconciliabile di quella che un tempo era la sinistra: “fuori questo governo”, “social-traditori”.
In testa al corteo parigino, i leader dei due sindacati Cgt e Fo. Philippe Martinez, della Cgt, afferma di aver chiesto un incontro con François Hollande, ma di non aver ricevuto risposta. Hollande ieri era in Giappone, per il G7, dove ha affermato di seguire gli avvenimenti e ha appoggiato Manuel Valls. Il primo ministro ha “detto quello che doveva dire”, ha affermato il presidente. Valls, al Senato, ha tuonato di nuovo contro la Cgt: “non si puo’ bloccare il paese, non si puo’ attaccare in questo modo gli interessi economici della Francia”. Il 10 giugno inizia l’Euro di football, due milioni di persone sono attese per un avvenimento sportivo trasmesso in tutte le tv del mondo, la Francia non puo’ permettersi immagini di protesta che fanno il giro del mondo, mentre Hollande insiste sul fatto che “va meglio”. Se manca la benzina e i trasporti non funzionano, ci saranno seri problemi. Le raffinerie e i depositi di carburanti sono rimasti bloccati ieri.
Nel backstage, qualcosa si muove. C’è il tentativo di spaccare ulteriormente il fronte sindacale, dando qualcosa a Fo, meno radicale, per isolare la Cgt. Cacofonia nel governo. Valls ha fatto cenno a “possibili miglioramenti” del famigerato articolo 2, quello dell’”inversione della gerarchia delle norme”, che favorisce gli accordi a livello di impresa, al di sotto di quelli di categoria (ma solo per l’organizzazione dell’orario di lavoro, dice Laurent Berger della Cfdt, senza toccare lo Smic, il salario o la sicurezza). Ma pas question di ritirarlo. Valls ha zittito il ministro delle Finanze, Michel Sapin (che in passato era stato responsabile del Lavoro), che ieri ha affermato che sarebbe possibile “ritoccarlo”. Sapin ha cercato di sminare il terreno sociale su un altro fronte: ieri in commissione è passato il progetto di “inquadrare” i guadagni dei grandi manager, non ci sarà un “tetto” ma fa passi avanti l’idea di una legge di regolazione, che imponga ai dirigenti il voto delle assemblee degli azionisti (alla Renault, il consiglio di amministrazione era passato oltre, concedendo al pdg Carlos Ghosn quello che chiedeva – 7 milioni l’anno, a cui si aggiungono altri 7 dalla Nissan – senza rispettare il parere degli azionisti).
I manifestanti restano determinati, dopo quasi tre mesi di proteste, tanto più che il governo comincia a vacillare e l’opinione pubblica continua ad appoggiare la protesta, malgrado i disagi (benzina, trasporti). Anche se a Fos-sur-Mer, nel sud, un’automobile ha travolto uno sbarramento facendo un ferito grave e a Vitrolles un camionista esasperato ha ferito due persone. Nelle ferrovie e nella metropolitana parigina gli scioperi rischiano di esplodere dalla prossima settimana, se non viene trovata una via d’uscita. Per Gilbert Garrel, Cgt Ferrovieri, “il 75% della popolazione rigetta la Loi Travail, quindi dire che c’è un braccio di ferro tra sindacati e governo è falso, la popolazione è contro. Bisogna che Valls prenda atto della situazione e accetti di rinegoziare”. La Cgt prevede “altre mobilitazioni” prima dell’appuntamento della prossima giornata nazionale di protesta, il 14 giugno, quando la Loi Travail inizierà ad essere discussa al Senato (e probabilmente riportata al testo iniziale, quello voluto dal padronato, poiché qui la destra ha la maggioranza). Per Thierry Chevalier, Cgt Energia, “la radicalizzazione è del governo che mantiene posizioni antidemocratiche”, dopo aver forzato l’approvazione della riforma senza voto, con il ricorso all’articolo 49.3.
Grosse polemiche, ieri, sull’assenza dei giornali nelle edicole, fatta eccezione per L’Humanité. La Cgt Livre ha bloccato la stampa, a causa del rifiuto di tutti i quotidiani di pubblicare un “intervento” del segretario Cgt, Philippe Martinez, che era stato inviato alle redazioni. Il testo è uscito su L’Humanité, unico giornale ad aver accettato.


Corriere 27.5.16
Quei gruppi armati nell’era di Trump
di Massimo Gaggi

Sono gruppi di decine di militanti, spesso seguiti sui social network da migliaia di fan. Girano con una pistola in una tasca e la Costituzione nell’altra. Accumulano scorte alimentari, si addestrano a pratiche di sopravvivenza, a sparare e a curare ferite da arma da fuoco. E ai giornalisti americani che vanno a intervistarli dicono: «Ci prepariamo per i terremoti e altri disastri naturali, ma siamo più preoccupati dai disastri umani provocati dal governo». Si autodefiniscono Patrioti per la difesa della Costituzione, ma sono stati soprannominati «Vanilla Isis». Eppure di questi gruppi paramilitari estremisti negli Usa si parla poco. Fanno notizia quando c’è una crisi come il recente assedio al ranch della famiglia Bundy che faceva pascolare le sue mandrie su suolo pubblico senza pagare il canone o gli scontri a fuoco tra queste sette e le forze dell’ordine che negli anni Novanta fecero decine di morti a Waco, in Texas, e a Ruby Ridge, in Idaho. Intanto, però, questi nuclei che possono alimentare forme di terrorismo domestico stanno crescendo rapidamente e sono sempre più difficili da controllare per le autorità: l’osservatorio del Southern Poverty Law Center che li censisce, sostiene che il numero di queste organizzazioni è passato, dal 2008 ad oggi, da 150 a più di mille. Se ne parla poco anche perché sono diffuse soprattutto nelle aree poco abitate degli Stati rurali -— dall’Oregon al Nevada, dal Montana allo Utah — mentre sono pressoché inesistenti nelle metropoli. Ma non per questo sono meno pericolose. Il Washington Post ha tracciato l’identikit degli aderenti a questi gruppi: falegnami, cow boy, muratori, operai e anche studenti che vivono in aree impoverite e sempre più spopolate. Detestano il governo e considerano una forma di legittima difesa non pagare i canoni per l’uso di risorse pubbliche, pascoli o miniere (alcune di quelle del West che sono diventate campi di battaglia).
La baldanza di questi gruppi paramilitari è alimentata da Internet, canale efficace per fare proseliti (gli ex militari ed ex poliziotti di «Oath Keepers» hanno collezionato 525 mila like su Facebook), ma anche da un fattore politico: l’ostilità a Obama in quanto nero e «socialista» e il senso di legittimazione offerto dall’antistatalismo dell’estrema destra. Ha detto J.J. MacNab, studioso dei gruppi anti-Stato della George Washington University: «È cominciato tutto coi Tea Party, ma era solo un sentiero. Con Trump è diventata un’autostrada a 18 corsie».

Corriere 27.5.16
L’uomo forte e le democrazie
di Zygmunt Bauman

Uno spettro si aggira nella terra della democrazia: lo spettro di un Uomo (o Donna) forte. Come suggerisce Robert Reich, nel suo «Donald Trump e la rivolta della classe ansiosa», quello spettro (che nel caso in questione indossa le vesti di Donald Trump, benché non disdegni di indossare molti e variegati costumi, sia popolari che nazionali) nasce (proprio come Afrodite emerse dalle onde spumeggianti del Mar Egeo) dall’ansia che di questi tempi sta attanagliando «la grande classe media americana», oggi impaurita dalle «elevatissime probabilità di finire in miseria».
Due terzi dei cittadini americani oggi vivono con i soldi contati e la stragrande maggioranza rischia di perdere il posto di lavoro da un momento all’altro. Molti ingrossano le file della manodopera «a chiamata» — lavorano cioè quando sono necessari, si accontentano dei compensi che gli vengono offerti, a discrezione del datore di lavoro. Eppure, queste stesse persone, nel momento in cui non riescono più a pagare l’affitto o il mutuo della casa, rischiano di precipitare nel baratro. Questi «due terzi degli americani» sono costretti a camminare sull’acqua, squassati da venti di tempesta non meno impetuosi di quelli che agitavano il Mar di Galilea, descritti nel Vangelo di Matteo. Nelle parole dell’evangelista, camminare sulle acque era una questione di fede: ma oggi la «classe ansiosa» di Reich non sa più in che cosa riporre la sua fiducia. «Le reti di sicurezza sono piene di buchi. La maggior parte di coloro che perdono il lavoro non ha nemmeno diritto alla disoccupazione. Il governo non fa nulla per proteggere il lavoro, impedendo che le aziende delocalizzino in Asia oppure che i posti di lavoro vengano presi da immigrati clandestini disposti a lavorare per meno».
«Trucchi da impostore»
Tuttavia, osserva Reich, affidarsi all’onnipotenza dell’uomo forte rappresenta un «sogno impossibile», e se Trump è riuscito a guadagnarsi la fiducia dell’elettorato, lo ha fatto ricorrendo a «trucchi da impostore». Eppure, la chiamata a raccolta della «classe ansiosa» per stringersi attorno al mago, che li inganna facendo balenare ai loro occhi quel sogno impossibile, non rappresenta necessariamente una reazione scontata e inevitabile. La risposta alla domanda posta di recente da Joseph M. Schwartz, professore di Scienze politiche alla Temple University — «La classe media e i lavoratori bianchi, oggi in difficoltà economiche, sono pronti a seguire la politica razzista e nazionalistica di Trump e del Tea Party (convinti che il gioco sia tutto predisposto a favore delle fasce più povere della popolazione di colore), oppure si uniranno per dare battaglia contro le élite imprenditoriali, che hanno sancito l’annientamento della classe operaia?» —, non è per nulla ovvia. Come suggerisce Schwartz, un sondaggio effettuato da New York Times/Cbc News «appena prima del discorso del senatore Bernie Sanders alla Georgetown University sul socialismo democratico il 19 novembre 2015» rivela che il 56% degli elettori storici del partito democratico erano favorevoli al socialismo, contro il 29% dei contrari, e questo ci consente di ipotizzare che «la maggior parte degli intervistati associ il capitalismo con la disuguaglianza, l’eccessivo indebitamento per gli studi universitari e un mercato del lavoro stagnante. Costoro vedono invece nel socialismo una società più giusta e ugualitaria». Dalle attuali difficoltà in cui si dibatte la «classe ansiosa» (oppure i ranghi sempre più affollati del «precariato»), scaturiscono molteplici scelte politiche. Una di queste fa appello a un uomo forte; l’altra, a un popolo forte.
La paura cosmica
Nelle parole del grande filosofo russo, Mikhail Bakhtin, tutte le potenze terrestri si alimentano e prosperano sulla diffusione di «timori cosmici», i quali possono essere innati o endemici per gli esseri umani: ciò vuol dire il timore davanti a tutto ciò che è sconfinato e potente; davanti al cielo stellato, la mole materiale delle montagne, il mare, la paura degli sconvolgimenti cosmici e delle catastrofi naturali istillata da antiche mitologie, credenze, immaginazioni, persino la paura delle lingue e dei modi di pensare a loro connaturati... questo terrore cosmico, in senso stretto anziché mistico (trattandosi di timore di tutto ciò che è materialmente grande e rappresenta una potenza difficile da definire) viene sfruttato da tutte le grandi religioni per reprimere la persona e la sua coscienza, trasformandola in una variante artificiale e volutamente «ufficiale».
Nel suo studio delle complesse relazioni tra i gestori terrestri della «paura ufficiale» e i soggetti nei quali si inducono questi timori, ricorrendo all’aiuto de «Il processo» e de «Il castello», i due celebri romanzi di Franz Kafka, Roberto Calasso dimostra che l’azione della «paura ufficiale» è tutt’altro che semplice e immediata. «Se i cittadini avessero sentito gli esegeti de “Il castello” dilungarsi su Dio e divinità e su come questi interferiscono nella loro vita, avrebbero reagito con sdegno», suggerisce Calasso. Si sarebbero risentiti dei tentativi colti di paragonare gli occupanti del Castello a Dio o ad altre divinità a loro ben note per gli insegnamenti religiosi ricevuti. «Come sarebbe facile trattare con gli abitanti del Castello se, come nel caso di Dio, bastasse studiare un po’ di teologia e affidarsi alla devozione — potrebbero pensare. Ma i funzionari del Castello sono assai più complessi. Non esiste scienza né disciplina che possa aiutarci a trattare con loro».
Difatti i sistemi religiosi — che secondo Bakhtin rappresentano i primi tentativi per riciclare il timore «cosmico» in un timore «ufficiale» (in altre parole, fabbricare la «paura ufficiale» sullo stampo di quella «cosmica», e capitalizzando allo stesso tempo sulle fondamenta già predisposte dalle fonti primordiali e originali della paura) — tendevano ad assicurare la sottomissione e l’obbedienza dei soggetti con la promessa (spesso disattesa per quantità e qualità in confronto a quanto stipulato) di ricette infallibili per attirare la grazia e i favori divini, o per placare la Sua collera qualora ogni sforzo per rispettare i Suoi dettami alla lettera si fosse dimostrato, all’atto pratico, troppo difficile e oneroso. Senza perdere nulla della sua temibilità, a Dio si poteva parlare — a differenza delle fonti mute e ottuse della paura cosmica. Dio poteva essere pregato, implorato, scongiurato, tramite parole e azioni, per impetrare il perdono dei peccati e la ricompensa delle virtù. E a differenza della Natura sorda e cieca, Dio magari poteva ascoltare, ed esaudire i voti dei peccatori contriti. Le chiese, plenipotenziari terreni dell’autorità divina, spiegavano meticolosamente, fin nel minimo dettaglio, il codice di condotta indispensabile per indurre Dio, con un gioco simultaneo di benedizioni e tribolazioni, ad esaudire il credente. Doloranti sotto i colpi del destino, le vittime dell’ira divina sapevano esattamente che cosa fare per meritarsi la redenzione. Quando la redenzione tardava ad arrivare, si convincevano di aver mancato di zelo, e pertanto si ritenevano colpevoli di una manchevolezza facile da correggere.
Potere e «delega» alla società
Ma questo è esattamente il dispositivo che la paura ufficiale, nella sua veste moderna, arruolata e dispiegata nuovamente in campo dai poteri politici laici, respinge nella pratica — anche se ben di rado si sottrae alla tentazione ipocrita di esaltare a parole i suoi precetti. In un’aperta violazione dell’intenzione e promessa moderna di sostituire i ciechi giochi del fato (cioè quel divario irritante e confuso tra le azioni umane e le loro conseguenze sia per coloro che le compiono che per coloro che le subiscono) tramite un ordine di cose coerente e relativamente inequivocabile, guidato dai principi morali di giustizia e responsabilità — pertanto assicurando una stretta corrispondenza tra la situazione in cui vengono a trovarsi gli esseri umani e le loro scelte di comportamento — gli uomini di oggi si ritrovano esposti a una società traboccante di rischi e al contempo vuota di certezze e di garanzie.
Due nuove circostanze ci invitano a ripensare e, se non a correggere, perlomeno a integrare il modello di Bakhtin. La prima è l’«individualizzazione» su vasta scala — un nome in codice che vede nel potere costituito un’immagine complessiva della «società» che mira a «delegare» il compito di affrontare i problemi innescati dall’incertezza esistenziale sui singoli individui e sulle loro risorse del tutto inadeguate. Nelle parole dello scomparso Ulrich Beck, oggi si addossa agli individui la responsabilità irrealizzabile di trovare, da soli, le soluzioni ai problemi generati dalla società.
Lo spettro che si aggira in una società di attori-per-decreto incarna l’orrore che si prova nel trovarsi inetti e inefficaci; come pure il terrore dei suoi effetti immediati, la perdita di autostima e le sue probabili conseguenze: l’emarginazione e l’esclusione. Come generatori di paura ufficiale, i detentori del potere si affannano a ingigantire le incertezze esistenziali che hanno dato forma allo spettro e perennemente lo ricreano; i detentori del potere puntano a fare qualsiasi cosa per rendere quello spettro il più tangibile e credibile — il più «realistico» — possibile. Dopo tutto, la paura ufficiale dei loro soggetti è ciò che, in ultima analisi, li mantiene al potere. Tuttavia, in una società disgregata e ridotta a un ammasso di attori individuali (costretti a fingere la loro autosufficienza), i detentori del potere potrebbero anche essere tentati di appoggiarsi sempre di più su di noi, i loro stagisti insicuri, precari, non retribuiti e non tutelati, che vivono la loro vita frammentata in una società la cui frammentazione è da loro voluta, alimentata e giornalmente riprodotta.
Avendo attraversato le incarnazioni religiose e politiche della «paura ufficiale» della «società disciplinata», la paura cosmica che emana dalla dolorosa fragilità e finitudine delle capacità cognitive e pragmatiche si è calata nella «società di attori» nell’arena della «politica della vita» (definizione di Anthony Giddens) ed è atterrata sulle spalle dei praticanti individuali di quella vita. Stretti tra l’infinità di opzioni e tentazioni presumibilmente accessibili, come pure le sconfinate richieste rivolte all’individuo che si presuppone «autonomo, capace e risoluto» , stimolati a «sforzarsi incessantemente a migliorarsi» da un lato — e dall’altro la scarsità di risorse a disposizione, messa tristemente a nudo dalla grandiosità pura e semplice di quella sfida — agli attori-per-decreto, tormentati dalla consapevolezza della propria inadeguatezza, non resta altra scelta che quella di invocare la salvezza dall’imminente depressione rivolgendosi «alle loro divinità». Nelle parole memorabili di Ulrich Beck, «alle divinità da loro scelte». Ma questo scambio di appartenenza ha fatto ben poco per mitigare sia l’assillante ansietà generata dalla precarietà ovvia del loro stato esistenziale, sia il dolore dell’autocensura e dell’autocondanna per non essere riusciti nemmeno a fermare — figuriamoci invertire — il suo progressivo aggravarsi.
Immigrazione e razzismo
La seconda circostanza nuova è l’erosione della sovranità territoriale delle attuali unità politiche, provocata dal processo oggi in corso della globalizzazione del potere (ovvero la capacità di realizzare certe cose) cui non è seguita la globalizzazione della politica (ovvero la capacità di decidere quali cose debbano essere realizzate), ottenendo come risultato una discrepanza irritante tra gli obiettivi e i mezzi a disposizione per un’azione efficace. Il risultato è la scomparsa delle cause della «paura ufficiale» dal modello tratteggiato da Bakhtin: invisibili e irraggiungibili a tutti gli effetti, esse sono — proprio come le fonti della «paura cosmica» — mute e ottuse. A grande distanza dai richiedenti, esse restano sorde alle loro istanze generiche, per non parlare delle loro specifiche richieste. La maggior parte dei loro soggetti sono tagliati fuori dalle comunicazioni — e sempre in maggior numero hanno perso, o stanno perdendo rapidamente, ogni speranza di dialogo sensato con le istituzioni.
Eric Hobsbawm, uno degli storici più acuti dell’era moderna, intuiva già, un quarto di secolo addietro (ben prima dell’attuale «crisi dell’immigrazione», e ancor prima che si diffondesse l’odierna consapevolezza della nuova «globalità» della condizione umana) che «l’urbanizzazione e l’industrializzazione, poiché si fondano su movimenti massicci e variegati, migrazioni e spostamenti di popolazioni, erodono il concetto nazionalistico di base per cui un territorio è abitato essenzialmente da una popolazione omogenea per etnicità, lingua e cultura. Xenofobia e razzismo rappresentano il sintomo, non la cura. Le comunità e i gruppi etnici nelle società moderne sono destinati a coesistere, qualunque sia la retorica che fa balenare il sogno del ritorno a una nazione pura». «Ogni volta — prosegue Hobsbawm — i movimenti di identità etnica sembrano scaturire da reazioni di debolezza e di paura, tentativi per innalzare barricate atte a tenere a bada le forze del mondo moderno... Ciò che alimenta queste reazioni di difesa, contro minacce reali o immaginarie, sono gli spostamenti di popolazioni internazionali che si accompagnano a drammatiche trasformazioni socio-economiche, senza precedenti e ultraveloci», trasformazioni che sono sotto gli occhi di tutti ai nostri giorni. «Dovunque viviamo, in una società urbanizzata, incontriamo stranieri: uomini e donne sradicati dai loro Paesi, che ci richiamano alla mente la fragilità e il decadimento delle nostre stesse radici familiari». «Loro, gli stranieri — ci ricorda Hobsbawm dall’aldilà —, saranno accusati di tutte le nefandezze, incertezze, disorientamento e confusione che molti di noi provano, dopo quarant’anni di sconvolgimenti così rapidi e profondi da risultare senza precedenti nella storia umana». Come dicevano i nostri antenati, «la storia è maestra di vita», un insegnamento, questo, che stiamo dimenticando a nostro rischio e pericolo. Per assicurare la nostra sopravvivenza, ascoltiamo quella maestra; leggiamo e rileggiamo l’opera cardine di Hobsbawm, «Nazioni e nazionalismi dal 1780», in cui ci insegna che le società in declino puntano tutte le loro speranze su un salvatore, su un uomo (o una donna) della provvidenza, e sono alla ricerca di un nazionalista risoluto, militante e battagliero: qualcuno che promette di spegnere l’interruttore del pianeta globalizzato, di sbarrare quelle porte che già da tanto tempo hanno perso — o a cui sono stati rotti — i cardini, rendendole inutilizzabili.
La verità è che le scorciatoie suggerite dagli uomini e dalle donne forti che aspirano al governo restano assai seducenti, per quanto fuorvianti. Tratteggiano una visione di ripristino e riappropriazione di tutto ciò di cui un numero crescente dei nostri contemporanei avverte la mancanza nella politica odierna, contraddistinta da una carenza progressiva di potere, incapace pertanto di impedire i danni arrecati da elementi che si sottraggono al suo controllo, pronta a ignorare, o a distruggere sul nascere, ogni tentativo messo in atto dai politici liberal-democratici per riconquistare la loro sempre più debole autorità. Il peccato imperdonabile della democrazia, agli occhi di un numero sempre crescente di quanti dovrebbero beneficiarne, è la sua incapacità ad attuare quanto promette. Il ruolo di uomo o donna forte, che tanto seduce i candidati elettorali, sta proprio nella promessa di agire. In ultima analisi, l’attrattiva dell’uomo o della donna forte si basa su una serie di pretese e promesse che restano ancora tutte da dimostrare.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Repubblica 27.5.16
Per un nocciolo duro dell’Unione
di Thomas Piketty

PROFUGHI, debiti, disoccupazione: la crisi dell’Europa sembra non aver fine. Per una parte crescente della popolazione, la sola risposta leggibile è quella del ripiegamento nazionale: usciamo dall’Europa, torniamo allo Stato-nazione e tutto andrà meglio. Di fronte a questa promessa illusoria — ma che ha il merito della chiarezza — il campo progressista non fa che tergiversare: certo, la situazione non è brillante, ma bisogna persistere e attendere che le cose migliorino, e in ogni caso è impossibile cambiare le regole europee. Questa strategia mortifera non può durare. È venuto il momento che i Paesi più importanti della zona euro riprendano l’iniziativa e propongano la costituzione di un nocciolo duro in grado di prendere decisioni e rilanciare il nostro continente.
Bisogna cominciare facendo piazza pulita di quell’idea secondo cui lo stato dell’opinione pubblica impedirebbe di toccare i trattati europei: i cittadini detestano l’Europa attuale, quindi non cambiamo nulla. Il ragionamento è assurdo, e soprattutto falso. Per essere più preciso: rivedere l’insieme dei trattati conclusi dai 28 Paesi per istituire l’Unione Europea, in particolare in occasione del trattato di Lisbona del 2007, probabilmente è prematuro; il Regno Unito e la Polonia, per citarne solo due, hanno programmi che non sono i nostri. Ma questo non significa che si debba restare inoperosi: ci sono tutte le condizioni per concludere, parallelamente ai trattati esistenti, un nuovo trattato intergovernativo fra i Paesi della zona euro che lo desiderano.
La prova migliore è quello che è stato fatto nel 2011-2012. In pochi mesi, i Paesi dell’Eurozona negoziarono e ratificarono due trattati intergovernativi con pesantissime conseguenze sui bilanci pubblici: uno istituiva il Mes (Meccanismo europeo di stabilità, un fondo provvisto di 700 miliardi di euro per venire in aiuto ai Paesi dell’Eurozona); l’altro, chiamato «trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria », e volgarmente noto come fiscal compact, fissava le nuove regole di bilancio e prevedeva sanzioni automatiche da applicare agli Stati membri.
Il problema è che questi due trattati sono serviti solo ad aggravare la recessione e la deriva tecnocratica dell’Europa. I Paesi che richiedono il sostegno del Mes devono firmare un «protocollo di intesa» con i rappresentanti della famigerata «trojka» (articolo 13 del trattato del Mes). In poche righe è stato concesso a un pugno di tecnocrati della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale, a volte competenti e a volte molto meno, il potere di supervisionare la riforma dei sistemi sanitari, pensionistici, fiscali e così via di interi Paesi, il tutto nella quasi totale assenza di trasparenza e controllo democratico. Quanto al fiscal compact (articolo 3), fissa un obbiettivo assolutamente irrealistico di disavanzo strutturale massimo dello 0,5 per cento del Pil. Precisiamo che si tratta di un obbiettivo di disavanzo secondario, che quindi tiene conto anche degli interessi sul debito: quando i tassi di interesse risaliranno, significherà che per decenni tutti i Paesi che avranno accumulato debiti significativi in seguito alla crisi (cioè la quasi totalità dei Paesi della zona euro) dovranno mantenere un avanzo primario enorme, del 3-4 per cento del Pil.
Ci si dimentica, en passant, che l’Europa fu costruita negli anni Cinquanta proprio sulla cancellazione dei debiti passati (di cui beneficiò in particolare la Germania), e che furono quelle scelte politiche a consentire di investire nella crescita e nelle nuove generazioni.
Aggiungiamo a tutto ciò che questo bell’edificio — Mes e fiscal compact — è sottoposto al controllo del consiglio dei ministri dell’Economia della zona euro, che si riunisce a porte chiuse e ci annuncia regolarmente, nel pieno della notte, di aver salvato l’Europa, salvo poi renderci conto, il giorno seguente, che i suoi membri non sanno neppure loro cosa hanno deciso. Bel successo per la democrazia europea del XXI secolo.
La soluzione è evidente: bisogna rimettere in cantiere quei due trattati e dotare la zona euro di istituzioni democratiche autentiche, in grado di prendere decisioni chiare a seguito di discussioni condotte alla luce del sole. L’opzione migliore sarebbe costituire una camera parlamentare dell’Eurozona, composta di rappresentanti dei Parlamenti nazionali, in proporzione alla popolazione di ciascun Paese e ai diversi gruppi politici. Questa camera dovrebbe deliberare su tutte le decisioni finanziarie riguardanti direttamente l’Eurozona, a cominciare dal Mes, il controllo dei disavanzi e la ristrutturazione dei debiti. Potrebbe votare anche un’imposta comune sulle società e un bilancio dell’Eurozona che consenta di investire nelle infrastrutture e nelle università.
Questo nocciolo duro europeo sarà aperto a tutti i Paesi, ma nessuno deve poter bloccare chi desidera avanzare più in fretta. Concretamente parlando, se la Francia, la Germania, l’Italia e la Spagna, che rappresentano insieme più del 75 per cento della popolazione e del Pil della zona euro, pervengono a un accordo, questo nuovo trattato intergovernativo deve poter entrare in vigore.
In un primo momento, la Germania probabilmente avrà paura di essere messa in minoranza in questo Parlamento. Ma non potrà rifiutare apertamente la democrazia se non vuole correre il rischio di rafforzare in modo irrimediabile il campo anti-euro. Soprattutto, questo nuovo sistema rappresenta una proposta equilibrata: si apre la strada a cancellazioni del debito, ma nello stesso tempo si obbliga coloro che ne vogliono beneficiare — come la Grecia — a sottomettersi per il futuro alla legge della maggioranza. Un compromesso è a portata di mano, se solo si accetterà di mettere da parte conservatorismi ed egoismi nazionali.
Thomas Piketty è un economista francese specializzato sui temi dell’ineguaglianza sociale È autore de “ Il Capitale nel XXI secolo”, Bompiani. (Traduzione di Fabio Galimberti)

La Stampa 27.5.16
Tutankhamon
il pugnale venuto dallo spazio
Il ferro della lama è di origine meteoritica: lo ha accertato una ricerca italo-egiziana con la fluorescenza a raggi X
di Fabrizio Assandri

Gli antichi egiziani lo sapevano e, in fondo, ce lo avevano detto. Un papiro racconta di un «ferro piovuto dal cielo». Ma il mistero dell’origine di uno dei due pugnali trovati insieme alla mummia del faraone bambino, Tutankhamon, ha diviso gli studiosi fin da quando, nel 1925, fu aperto il sarcofago custodito nella Valle dei Re. A mettere la parola fine alla disputa è una ricerca italo-egiziana, nata anche dopo il ritrovamento di un cratere. Tra i tanti misteri e le superstizioni legati al faraone, a partire dalla maledizione che avrebbe colpito chi avesse profanato la sua tomba, almeno un’incognita è stata risolta. Con la fluorescenza a raggi X, gli scienziati hanno tolto ogni dubbio: il ferro della lama di quel pugnale arriva dallo spazio.
«Gli oggetti egizi di ferro sono pochissimi, non avevano sviluppato la metallurgia del ferro e non c’erano cave. Così, era considerato più prezioso dell’oro», spiega Francesco Porcelli, professore di Fisica al Politecnico di Torino. «Per questo il ritrovamento del pugnale di Tutankhamon aprì un dibattito». A stupire era anche la grande qualità della manifattura, segno della capacità nella lavorazione del ferro raggiunta già allora. Il pugnale, di circa 35 centimetri e per nulla arrugginito, era infilato tra le bende della mummia, per prepararsi all’incontro con l’aldilà: basti a dire quanto era ritenuto prezioso.
C’erano studiosi che già sostenevano si trattasse di un meteorite, mentre altri pensavano che fosse stato importato: in Anatolia nel XIV secolo a. C., quando visse Tutankhamon, il ferro c’era già. «Incredibilmente, però, finora nessuno aveva fatto analisi».
Porcelli è stato, per otto anni fino al 2014, addetto scientifico all’ambasciata italiana al Cairo e ha messo insieme il progetto di studio, portato avanti dagli esperti sui meteoriti dell’Università di Pisa, il Politecnico di Milano e un suo spin-off, la ditta XGLab, insieme con il Politecnico di Torino, il Cnr e per parte egiziana il Museo del Cairo e l’Università di Fayyum. L’iniziativa è stata finanziata dal ministero degli Esteri italiano e da quello della Ricerca scientifica egiziano.
L’antefatto di questa storia è la scoperta nel 2010, che finì sulla rivista Science, del Kamil Crater nel mezzo del deserto egiziano. Si tratta di un piccolo «cratere lunare», rarissimo sul nostro pianeta, perché di norma l’erosione cancella i segni degli impatti dei meteoriti. A quella spedizione parteciparono tra gli altri gli studiosi di Pisa e dell’osservatorio astronomico di Pino Torinese. «Quando fu scoperto il cratere, parlammo del mai risolto interrogativo sul pugnale sulla mummia del giovane faraone della diciottesima dinastia, e decidemmo di fare le analisi, superando un po’ di riluttanza delle autorità egiziane, che giustamente custodiscono gelosamente i reperti», spiega Porcelli.
Ma come si è arrivati a stabilire che si tratta di un metallo alieno? Dalla composizione: il ferro infatti contiene nichel al 10% e cobalto allo 0,6: «Sono le concentrazioni tipiche dei meteoriti. Pensare che possa essere il frutto di una lega, in queste concentrazioni, è impossibile». La strumentazione utilizzata sul reperto in Egitto non è stata invasiva, la fluorescenza a raggi X, poi i dati e i risultati sono stati analizzati in Italia. Il progetto bilaterale, iniziato nel 2014 e terminato con la pubblicazione in questi giorni, forse non sarebbe più possibile nell’Egitto di oggi. «Dopo il caso Regeni e il caos di questi mesi», racconta Porcelli, che sulla sua pagina Facebook ha l’appello perché si faccia chiarezza sul ricercatore ucciso, «molti studiosi non vogliono più partire per l’Egitto. Si è rotto un rapporto di fiducia. Spero che il seme delle primavere arabe torni a fiorire, intanto questo pugnale può essere un piccolo segno di quella collaborazione che dobbiamo tornare a intessere».

Corriere 27.5.16
Uso della bomba atomica,Hiroshima e Nagasaki
risponde Sergio Romano

Secondo il filosofo americano Michael Novak ( Corriere , 11 maggio), il presidente Truman avrebbe autorizzato l’uso della bomba atomica contro il Giappone, nell’agosto del 1945 per evitare grandi perdite nelle file americane se gli Stati Uniti avessero deciso di invadere il Giappone. Ma noi sappiamo che quando la bomba fu sganciata, il Giappone, in fatto di capacità offensiva, era ormai al lumicino e prossimo alla resa. Dobbiamo dunque propendere per un’altra motivazione. L’America, dopo l’attacco giapponese del dicembre 1941 contro la propria flotta a Pearl Harbor, si sentì pericolosamente indifesa sulla sponda del Pacifico e diede fulmineo corso ad un programma di costruzione di ulteriori navi da guerra. Ma non dimenticò. Così come non dimenticò l’abbattimento delle torri gemelle e diede la caccia a Osama bin Laden sino alla sua morte; così, alla stessa maniera, non dimenticò il proditorio attacco di Pearl Harbor e, detto brutalmente, gliela fece pagare. Lei è d’accordo?
Lorenzo Milanesi

Caro Milanesi,
Le propongo una diversa lettura. Vi furono altre occasioni in cui la strategia americana fu fortemente motivata dal desiderio di contenere, per quanto possibile, il numero dei caduti nelle proprie file. Agli inizi del 1945, mentre l’Armata Rossa si preparava alla conquista di Berlino, un alto ufficiale britannico, il generale Montgomery, esortò gli americani ad avanzare rapidamente da ovest per impedire che la capitale tedesca diventasse il maggiore trofeo di Stalin. Ma Eisenhower sapeva che la battaglia sarebbe stata particolarmente sanguinosa e non raccolse l’invito. La conquista di Berlino, incidentalmente, costò all’Armata Rossa 80.000 uomini.
Non è del tutto vero, d’altro canto, che il Giappone fosse «al lumicino». Esisteva a Tokyo un partito della pace che premeva nell’ombra per l’apertura di un negoziato con gli Stati Uniti. Ma esisteva contemporaneamente un partito della guerra che voleva combattere a oltranza, anche dopo l’invasione americana dell’Arcipelago, e poteva ancora contare su forze rispettabili: 800.000 uomini in Manciuria, un milione in Cina, un milione e centocinquantamila nella madre patria, e, secondo la Storia delle relazioni internazionali di Ennio Di Nolfo, 5.000 aerei kamikaze. I fattori che permisero al partito della resa di prevalere su quello della continuazione della guerra furono due: l’uso della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki, la dichiarazione di guerra dell’Urss al Giappone l’8 agosto 1945. Stalin arrivò all’ultimo minuto, ma pur sempre in tempo per impadronirsi rapidamente di una parte della Manciuria e della Corea. Piuttosto che essere occupati dai sovietici, i giapponesi preferirono essere occupati dagli americani.
Quanto agli scopi politici della bomba, caro Milanesi, non credo alla vendetta, ma sono disposto a pensare, maliziosamente, che Hiroshima e Nagasaki contenessero un messaggio per Mosca e, più generalmente, per l’intera comunità internazionale. Gli Stati Uniti, da quel momento, erano la maggiore potenza mondiale.

La Stampa 27.5.16
Leopardi scrive sui muri di Parigi
dal nostro corrispondente Stefano Montefiori

PARIGI I versi di Leopardi incisi sui muri di Parigi. Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, intervallato da quattro composizioni di Alfonso Gatto, Leonardo Sinisgalli, Lorenzo Calogero e Bartolo Cattafi, è scolpito da ieri sul muro dell’Hôtel Galliffet, il palazzo di fine Settecento che è sede dell’Istituto italiano di cultura. Le parole sono accompagnate da un «calco sonoro» realizzato dal compositore Stefano Gervasoni con la voce della mezzo soprano Monica Bacelli e la rielaborazione dei rumori del cantiere, che dialogano con i versi di Leopardi grazie a un algoritmo che genera nuove composizioni a ogni passaggio dei visitatori. Il graffito è stato realizzato da Giuseppe Caccavale, l’artista che ha rappresentato l’Italia alla 56ma Biennale di Venezia. Parole e suoni formano l’opera complessiva «Il Viale dei canti», nata da un’idea della direttrice dell’istituto Marina Valensise. «Il Viale dei canti è una specie di muro sonoro, un omaggio alla lingua e alla poesia italiana — dice Valensise —. I versi di Leopardi sono stati incisi dai ragazzi dell’École nationale supérieure des arts décoratifs grazie alla tecnica dello “spolvero”, usando caratteri tipografici composti a mano dal tipografo Enrico Tallone, che per la prima volta ha aperto le porte del laboratorio di Alpignano fondato dal padre Alberto». Il 13 giugno verrà poi inaugurata la mostra Le ali ritrovate dell’Hôtel de Galliffet, che illustra la ricostruzione di due ali dell’edificio storico che ospita l’Istituto.