La Stampa 26.5.16
Mancano controlli, non i soldi
di Mario Tozzi
È
difficile imputare, per il momento, il crollo del Lungarno Torrigiani
al generico dissesto idrogeologico che interessa l’82% dei Comuni del
nostro paese (Firenze compresa). Ma non è impossibile addebitarlo
all’altra faccia della stessa medaglia, la cronica mancanza di controlli
capillari e manutenzione, con buona pace dell’errore umano pur sempre
possibile. Con tutte le cautele che impone la ricerca appena iniziata
delle cause, questa è una di quelle vicende che mette i cittadini di
fronte alla cronica assenza di investimenti nella manutenzione
strutturale del patrimonio storico artistico monumentale, quella a cui,
comunque, andrebbe destinata una parte delle risorse pubbliche. E, nel
caso specifico, impone di rendere conto degli investimenti che, invece,
siano stati effettivamente destinati allo scopo.
Ci si chiede se è
possibile che tutto si sia potuto svolgere così in fretta, ma meglio
sarebbe domandarsi se il fenomeno non sia per caso iniziato con perdite
inizialmente irrilevanti e che, eventualmente protraendosi nel tempo,
avrebbero potuto preparare la catastrofica perdita di coesione del
terreno. Bene sarebbe anche domandarsi se ci fossero difetti costruttivi
nel sottomanto stradale, e se si era, per caso, già intervenuti in
quegli stessi 200 metri, anche tempo addietro. E, infine, se ci fossero
situazioni strutturali particolari nei terreni di riporto su cui
poggiava il manufatto stesso. Il problema è che il sottosuolo delle
nostre città è praticamente sconosciuto, e non solo agli uffici tecnici
preposti, ma anche a noi cittadini, che siamo capaci di prendere mille
precauzioni prima di acquistare un’auto usata e nulla invece sappiamo
del terreno su cui poggia la nostra abitazione, spesso l’investimento
più importante delle nostre esistenze.
Il crollo del Lungarno però
non è una vicenda isolata. Non va dimenticato che in questo Paese ci
sono città come Napoli, dove sorgono quartieri interi su un sottosuolo
groviera, e come Roma, Foggia o Barletta, dove crollano interi edifici
senza nemmeno la classica fuga di gas. O dove città importanti come
Genova e Messina assistono impotenti ai loro tragici destini
determinati, in questi casi, dalla incapacità degli uomini di tenere
conto dell’ambiente quando non dal vero e proprio malaffare. Il
patrimonio edilizio italiano sembra sempre più minacciato, anche dove
non ci sono terremoti o frane e pure se non si considerano costruzioni
antiche. Ma qui il caso non c’entra, c’entra solo la responsabilità
degli uomini.
Gli amministratori locali sostengono di non avere
denari da investire nella manutenzione e nel controllo, però, anche
quando li hanno, è dubbio che li spendano per quegli scopi. L’Unità di
Missione del Governo contro il dissesto e per la qualità delle acque ha
riscontrato fino a oltre un miliardo di euro stanziato e mai speso in
tutta la penisola. Senz’altro le finanze locali sono esigue, ma oltre a
controllare gli acquedotti, forse bisognerebbe anche verificare dove
finiscono i soldi destinati a risanare. Ci siamo riempiti la bocca di
grandi opere e non dell’unica grande opera che ci vorrebbe: la
ristrutturazione dei centri storici di una buona parte delle città
italiane, perlopiù città d’arte, cartoline sempre meno convincenti
dell’Italia nel mondo.