mercoledì 25 maggio 2016

La Stampa 25.5.16
L’Anpi contro la Boschi
«Campagna inaccettabile, non si discriminano i partigiani»

Un documento dell’Anpi, l’associazione partigiani, senza mai nominarla critica il ministro Maria Elena Boschi. La nota «deplora l’inaccettabile campagna introdotta contro l’Anpi, perfino tentando discriminazioni fra i partigiani», alludendo alla polemica sui “veri” partigiani. E «respinge altrettanto vergognosi avvicinamenti ad organizzazioni di stampo fascista», chiaro riferimento al «chi vota no vota come Casapound» detto dal ministro. La conclusione è un invito a «non accettare provocazioni e a non intervenire in polemiche che non riguardino i contenuti dei referendum».

Corriere 25.5.16
Quell’appello alla trasparenza che la politica sta ignorando
di Sergio Rizzo

Il silenzio è semplicemente assordante. Tanto da lasciare basito uno come Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia ed ex presidente della Consulta: «Eppure dovrebbe essere ovvio. Così ovvio che lo slogan “conosci il tuo cliente” l’abbiamo perfino usato nelle banche per combattere il riciclaggio del denaro sporco. Possibile che l’elettore non possa conoscere a chi dà il voto o amministra un ente pubblico?». Il silenzio è quello che continua a circondare le sollecitazioni avanzate il 30 aprile scorso in vista delle Amministrative del 5 giugno da una decina di associazioni.
Tra queste associazioni ci sono Transparency international, Riparte il futuro e Cittadinanzattiva, sotto l’egida di Pubblici cittadini di Gustavo Ghidini, storico fondatore del Movimento consumatori. La prima richiesta (ufficiale e per lettera) a tutti i partiti politici più rappresentati in Parlamento e nelle amministrazioni locali era di stabilire per legge l’obbligo di pubblicare via Internet il curriculum con le competenze professionali, lo status penale e i possibili conflitti d’interesse di ciascun candidato. Soprattutto di pubblicarlo prima, e non dopo le elezioni.
La seconda richiesta era di impegnarsi a garantire la medesima trasparenza preventiva anche in occasione di tutte le nomine ai vertici di società, enti, autorità e altri organismi pubblici. Proposte nemmeno troppo complicate: metterci nelle condizioni di sapere in anticipo chi votiamo e chi viene incaricato di amministrare le cosa pubblica, evitando anche sgradevoli sorprese postume, sarebbe appena il minimo sindacale.
Trascorso quasi un mese, però, le uniche risposte arrivate a quelle associazioni si possono sintetizzare così. Una email di solidarietà dal Movimento 5 Stelle, impegnativa quanto una email. E una telefonata di circostanza dal Pd: «Buona idea». Click. «Ma nessuno, dicasi nessuno, disposto a impegnarsi in un’impresa evidentemente tanto impopolare», conferma Ghidini. Facendo capire che forse, pur sperando in un esito diverso, un po’ se l’aspettava: «Non soltanto nei programmi dei vari aspiranti sindaco non ho visto alcun accenno alla trasparenza delle candidature, se non in qualche caso generici riferimenti alla pulizia delle liste. Ma neppure nelle loro interviste e dichiarazioni pubbliche si è potuto scorgere un segno in questa direzione. Niente di niente».
Prova provata che le vecchie logiche continuano allegramente a sopravvivere. Già è stato duro far passare il principio della trasparenza a posteriori, che vera trasparenza poi non è.
Basta ricordare le resistenze ad applicare la legge del 1982 che ha prescritto la pubblicazione dello stato patrimoniale degli eletti nelle amministrazioni locali entro 90 giorni dalla proclamazione: una norma recepita dalla Regione Calabria soltanto nel 2010, ben 28 anni dopo; e rispettata a corrente alternata come denunciarono i radicali, addirittura nel Comune di Roma. Figuriamoci quante sensibilità sia in grado di generare l’idea della trasparenza a priori, capace di mettere in crisi, soprattutto in alcune zone d’Italia, i ras del consenso clientelare.
Flick, che insieme a Romano Prodi, Giuliano Amato e Valerio Onida ha sostenuto le proposte di cui stiamo parlando, ne fa una questione di etica che va anche oltre la politica: «Tutto questo rientra nella logica secondo cui va tutto bene se non è passato il triplo grado di giudizio. Ciò spiega anche la generale allergia all’introduzione di codici etici che colpiscano conflitti d’interesse o comportamenti non necessariamente di rilievo penale: con l’idea che tutto debba essere regolato dai formalismi della legge. Perché fatta la legge, si può sempre trovare l’inganno».
E cambiare registro, per l’ex presidente della Consulta, è possibile solo a patto di saltare la barriera del giudizio della Cassazione come unico limite etico, per sposare «la cultura della reputazione e della vergogna, che poi non è niente altro che la cultura dell’articolo 54 della Costituzione, secondo cui i funzionari pubblici debbono esercitare il proprio compito con disciplina e onore». Basterebbe questo, il rispetto della Carta costituzionale…