La Stampa 24.5.16
Carlo Mastelloni
“Italia, il primo Lodo Moro fu con la Libia di Gheddafi”
Il
giudice Mastelloni rivela i dettagli di un accordo segreto di non
belligeranza stipulato con Tripoli, che servì poi da modello per quello
di tre anni dopo con i palestinesi
di Francesco Grignetti
Nella
storia segreta della Repubblica c’è stato un altro Lodo Moro, oltre a
quello stipulato nel 1973 con Arafat. Tre anni prima, Aldo Moro, che era
ministro degli Esteri, raggiunse un analogo accordo con Gheddafi. Anche
questo l’ha scoperto il giudice Carlo Mastelloni, oggi procuratore capo
a Trieste, che più di tutti ha indagato sui rapporti tra italiani e
mondo arabo. Racconta: «Avvenne al tempo della cacciata degli italiani
dalla Libia, nel 1970, e fu preceduto da un lungo lavorio
paradiplomatico. Su ordine dell’allora capo di stato maggiore
dell’Esercito, il generale Francesco Mereu, ci furono diverse missioni
preparatorie di un giovane colonnello dei carabinieri, Roberto Jucci,
che poi fece carriera. Moro si affidava a queste missioni non ortodosse
per battere la strada. Ma per raggiungere l’accordo non bastò un primo
incontro: Gheddafi ricevette il ministro italiano senza scendere da
cavallo e lo costrinse a guardare dal basso in alto. Al secondo
incontro, presente anche il segretario generale della Farnesina, Roberto
Gaja, finalmente i due si capirono».
In che cosa consisteva questo secondo Lodo Moro?
«In
cambio della liberazione di alcuni italiani imprigionati, e della
possibilità per tutti di rientrare in patria, ci impegnammo a
consistenti forniture militari e soprattutto a vigilare contro tentativi
di rovesciare il regime che fossero partiti dal nostro territorio. Noi
rispettammo gli impegni. Inviammo carri armati riverniciati di fresco,
che permisero a Gheddafi di farsi bello nelle parate, ma non prima di
avere avuto l’assenso dall’ambasciata Usa. E nel 1971 fu bloccata una
nave di congiurati nel porto di Trieste. Era un tentativo di putsch
sobillato dagli inglesi: Gheddafi aveva quasi del tutto estromesso la
British Petroleum, che sotto re Idris, grazie anche a una lady sposata
con un maggiorente di corte, si era accaparrata i migliori pozzi di
petrolio, e aveva cacciato le loro truppe dalla Libia. Da quel momento
in poi, peraltro, Tripoli spalancò le porte alle imprese italiane,
compresa l’Eni. Si consideri che i libici non sapevano aggiustare un
frigorifero; per le nostre ditte fu un’età dell’oro».
Tornando al
più celebre Lodo Moro, quello con i palestinesi, la commissione Moro ha
scovato un cablo finora segreto del 18 febbraio 1978, risalente cioè a
un mese prima della strage di via Fani.
«Considero quel cablo solo
il primo brandello di un carteggio tra la Centrale e l’ufficio di
Beirut, retto dal colonnello Stefano Giovannone, che dev’essere molto
più corposo. Peccato che, alle mie richieste di vedere le carte,
l’allora direttore del Sismi, ammiraglio Fulvio Martini, mi disse che il
carteggio era andato smarrito...».
Ora sappiamo che non è andata
così, tant’è vero che in Parlamento alcuni chiedono la desecretazione di
tutto il resto. Il cablo di Giovannone, liberalizzato dalla direttiva
Renzi, è però la prima prova documentale dell’esistenza del Lodo Moro.
Di che cosa si trattava?
«Era un accordo non scritto, che si è
andato affinando nel tempo. Qualcosa del genere lo siglarono anche i
francesi. Il nostro, però, era più articolato: prevedeva, in cambio
della non belligeranza dei palestinesi contro l’Italia, sostegno
politico nelle sedi internazionali e molti aiuti materiali. Mi risultano
consegne di armi, nascoste dietro il sistema delle triangolazioni, e
poi camion, ospedali, soldi, borse di studio per i loro studenti, i
quali peraltro tutto facevano meno che studiare, libero transito per il
nostro territorio di armi e di combattenti. L’accordo prevedeva anche la
liberazione di terroristi palestinesi nel caso la polizia li avesse
arrestati».
Un accordo politico.
«Ci furono naturalmente
delle resistenze. Il segretario generale della Farnesina, per dire, non
permise mai l’ingresso di Farouk Kaddoumi, che era una sorta di ministro
dell’Olp, nel palazzo».
E gli israeliani?
«Ho letto il
resoconto di un gelido incontro tra i ministri della Difesa Arnaldo
Forlani e Moshe Dayan. Dayan chiedeva conto di una fornitura di
elicotteri ai palestinesi, noi dicevamo di non sapere».
Giovannone cita informazioni che arrivano dall’organizzazione marxista palestinese Fplp.
«Ai
miei occhi questa è la rivelazione più importante. È la prova che il
Lodo Moro era stato esteso anche all’Fplp, e considerando che i suoi
capi, George Habbash e soprattutto Wadi Haddad, erano collegati con il
Kgb, con il terrorismo internazionale, e con Carlos, penso che qui
stiano i veri segreti».
Dal Libano avvertivano che vi era stata
una riunione tra più organizzazioni terroristiche a cui avrebbero
partecipato anche italiani.
«Nessun pentito delle Br ci ha mai parlato di riunioni preparatorie con terroristi stranieri».
Eppure,
qualche giorno fa sulCorriere della Serail palestinese Bassam Abu
Sharif, che aveva un ruolo importante nell’Fplp, ammette di essere stato
informato da terroriste tedesche della Raf e di avere dato lui la
dritta.
«A volte la memoria fa brutti scherzi. E mi sembra difficile che le Br raccontassero i loro piani a gruppi estranei».
Non è vero il rapporto delle Br con le Raf, la temibile banda Baader-Meinhof?
«Qualche
contatto c’era, ma le Br ne diffidavano perché li consideravano, non a
torto, legati al Kgb. E se Giovannone avesse saputo, la storia sarebbe
andata diversamente».
Dopo il delitto Moro, però, Moretti strinse
accordi. Lei stesso ha scoperto la storia di quel veliero, il Papago,
che andò in Libano a rifornirsi di armi da dividersi tra Br, Eta e Ira.
«Vero.
Ma ciò avveniva un anno dopo, nel settembre ’79, dopo che le Br furono
ammesse nel giro grosso del terrorismo internazionale».