Corriere 24.5.16
Anatomia del populismo I tribuni della plebe
risponde Sergio Romano
Il
populismo, secondo la definizione che ne danno i dizionari e i testi, è
«un atteggiamento culturale e politico che esalta il popolo, sulla base
di principi e programmi ispirati al socialismo. Questo movimento che si
sviluppò nella Russia alla fine del 1800, si proponeva di raggiungere,
attraverso un’attività di propaganda e proselitismo svolta dagli
intellettuali, un miglioramento delle condizioni di vita e di
partecipazione delle classi popolari». Perché il suo significato viene
spesso associato a quello di demagogia e disprezzato?
Giuseppe Zaro
Caro Zaro,
Non
tutte le definizioni sono altrettanto positive. Per molti studiosi il
populismo è anzitutto un movimento di protesta e rivolta contro le
istituzioni esistenti: lo Stato nelle sue diverse espressioni, ma anche
categorie più generiche come l’Industria, la Finanza, la burocrazia, la
Chiesa. Appare nelle fasi storiche in cui le società subiscono
trasformazioni che mettono in discussione le gerarchie tradizionali o
cambiano radicalmente i metodi di produzione e di lavoro. Le rivoluzioni
economiche e tecnologiche, in questo quadro, non sono meno importanti
delle rivoluzioni politiche. Le ferrovie hanno creato le metropoli
dell’Ottocento. La rivoluzione industriale ha creato il socialismo e il
sindacalismo. La rivoluzione informatica ha modificato la geografia del
pianeta, ha inventato nuove tipologie professionali e ha distrutto
qualche centinaio di lavori obsoleti.
Nel corso di queste
trasformazioni entra in scena, quasi sempre, un tribuno della plebe che
si appella al popolo, si promuove a rappresentante dei suoi interessi,
promette di restituire benessere e giustizia a tutti coloro che si
considerano umiliati e offesi. Questo «popolo» è una entità imprecisa,
difficile da definire e circoscrivere. Per creare l’illusione della
propria esistenza ha bisogno di un «altro» a cui contrapporsi. Questo
«altro» è stato il papismo nell’America populista e protestante
dell’Ottocento; l’ebreo nella Francia del caso Dreyfus dopo la sconfitta
di Sedan nella guerra contro la Prussia; ancora l’ebreo nella Russia
dei pogrom, all’inizio della sua rivoluzione industriale; e sempre
l’ebreo nella Germania nazista dopo la sconfitta nella Grande guerra.
Oggi l’«altro» sembra essere il musulmano, soprattutto se è un migrante
clandestino. Il mito del nemico è quello che maggiormente permette al
tribuno della plebe di atteggiarsi a difensore del popolo contro
l’impotenza e l’ignavia delle pubbliche istituzioni.
La marea
populista tende a crescere durante le crisi economiche e a calare non
appena la macchina dell’economia ricomincia a girare. Non so dirle, caro
Zaro, quando questo accadrà. Ma posso garantirle che non appena le
fabbriche avranno bisogno di lavoratori provenienti dall’Africa e
dall’Asia, dimenticheremo che erano stati clandestini.