martedì 24 maggio 2016

La Stampa 24.5.16
Il Paese ha perso vent’anni di crescita
L’ultimo treno per il governo Renzi
Più liberalizzazioni e meno burocrazia per agganciare la ripresa
di Stefano Lepri

Forse vent’anni perduti: questa è la dimensione del problema italiano come ce la spiega il Fondo monetario internazionale. La grande crisi ha tolto alle altre economie avanzate da 5 a 10 anni di crescita del benessere, ormai terminati o quasi; a noi molti di più, e possiamo soltanto fare supposizioni su quando ne usciremo, verso la metà del prossimo decennio.
La lettera di ieri al governo italiano può essere letta come un invito alle nostre forze politiche, tutte, di considerare la vastità del compito che hanno di fronte, piuttosto che azzuffarsi su questioni di corto fiato. Il nostro Paese rischia di avvicinarsi a quella «stagnazione secolare» che nel mondo è una ipotesi pessimistica dibattuta, con pro e contro, dagli intellettuali.
Se vi si vuole vedere un giudizio sul governo Renzi, è di caloroso appoggio per le riforme che sono state realizzate con un progetto valido, a cominciare dal «Jobs Act», e di biasimo per la mancanza di coraggio a farne altre, o per la ricerca di popolarità immediata (una «moderna tassazione sulla casa» sarebbe opportuna, è stato sbagliato abolirla).
Non si va lontano se da una parte si dà dei «gufi» ai non entusiasti delle realizzazioni renziane, dall’altra ci si accanisce a trovare sbagliato tutto quanto il governo fa, rinnegando quanto si era detto fino a poco prima (ad esempio, che il bicameralismo era superfluo). Il Fmi ci dice che rimettere in piedi l’Italia sarà un lavoro lungo, per il quale occorrono tenacia e senso della misura. Purtroppo non è facile spiegare agli elettori di oggi che gli errori del passato non possono essere fatti sparire in qualche mese; né «cambiando verso», né rinnovando del tutto il personale politico in assenza di qualsiasi progetto, come offrono i Cinque Stelle, né trovando capri espiatori di comodo come gli immigrati o la cattiveria di altre nazioni.
L’Italia è gravata da un debito pubblico accumulato soprattutto negli Anni 80 e tornato ad aumentare quando Silvio Berlusconi prometteva un «secondo miracolo». Segni di rallentamento dell’economia erano già apparsi negli Anni 90, prima dell’euro. In recessione ci siamo entrati già nella seconda metà del 2007, quando ancora la crisi finanziaria non aveva varcato l’Atlantico. La crisi dell’euro ci ha colpito per gli errori combinati degli altri Paesi nel gestirla e di un governo nostro che negava l’evidenza. Abbiamo dovuto difenderci da un crac che avrebbe fatto tremare tutto il mondo prendendo misure, quelle del governo Monti, che erano drastiche e impietose proprio perché arrivavano tardi, sull’orlo del baratro.
Il Fondo monetario dissuade da speranze facili per il futuro prossimo: senza altre riforme, la debole ripresa in atto potrebbe afflosciarsi presto, e una volta cessate le generose deroghe ottenute dall’Europa per il 2016 le regole di bilancio tornerebbero stringenti in un momento poco opportuno. Ovvero, non si possono rinviare le decisioni a dopo il referendum. Se c’è un limite, nei consigli giunti ieri, è che la ricetta sicura per la crescita non ce l’ha nessuno; lo stesso Fondo ha operato nell’ultimo decennio una svolta ampia, contraddicendo parecchie delle sue prescrizioni passate. Oggi è certo utile liberalizzare i mercati, rendere più efficiente la burocrazia, decentrare la contrattazione sindacale: ma quanto utile? Che le «riforme strutturali» possano rilanciare la crescita è una speranza in cui tutti i Paesi avanzati si cullano. Però noi italiani abbiamo motivi più forti per tentare: perdiamo terreno rispetto agli altri, rischiamo di tornare indietro dal benessere.