La Stampa 22.5.16
“Io, in cella da un mese al Cairo perché chiedo la verità su Regeni”
Prorogato l’arresto del consulente della famiglia: una ritorsione
di Francesca Paci
«Non
sono fiducioso, una decina di giorni fa, quando 14 delle 18 persone
arrestate insieme a me sono state rilasciate, un ufficiale della State
Security mi ha detto che io restavo in carcere per via del caso Regeni».
Il consulente al Cairo della famiglia Regeni Ahmed Abdallah parla dalla
gabbia con le maglie strettissime nell’aula del Tribunale di al Abaseya
da cui attende il verdetto della Corte d’Appello. La prevedibile
conferma di altri 15 giorni di custodia cautelare arriverà dopo ore, ma
nel frattempo il giovane direttore dell’Egyptian Commission for Rights
and Freedoms può raccontarci i 28 giorni trascorsi in prigione con
l’accusa formale di attività sovversiva. Accanto a lui, dietro la grata,
siedono sul pavimento lurido altri detenuti in attesa di giudizio.
«Non
mi hanno torturato finora» dice interrompendo la conversazione con la
madre e con la fidanzata Esra, che gli hanno portato il cibo, altrimenti
scarsissimo. Abdallah ha occhiaie profonde, le manette a un polso ed è
provato, ma saluta gli amici che si avvicinano: «La mia cella è grande
tre metri per uno, compreso il “bagno”, e ci stiamo dentro in dieci. Di
dormire nemmeno l’idea. Gli altri sono tutti Fratelli Musulmani. A un
certo punto ci hanno sbattuto dentro anche uno dell’Isis e lui ha
cominciato a indottrinarli. Io gli ho detto subito che sono laico e con
me non c’era gioco ma ho sentito come lavorava per radicalizzare i
Fratelli, poi a un certo punto lo hanno portato via».
La camicia
azzurra di Abdallah è zuppa di sudore. Fa caldissimo, non c’è traccia
dell’aria condizionata onnipresente al Cairo e nemmeno di vecchi
ventilatori. L’ingresso del Tribunale è occupato da alcuni sgangherati
banchi tipo quelli di scuola a cui sono appoggiati poliziotti in divisa
bianca. L’aula è caotica, un andirivieni di agenti, avvocati seri e
azzeccagarbugli, parenti, curiosi. C’è anche una rappresentanza
diplomatica dell’Italia, che sin dal principio ha seguito Abdallah,
impegnato per Regeni come per centinaia di casi di sparizioni forzate al
Cairo. Durante le due udienze precedenti, in un clima molto teso, i
nostri connazionali sono stati fatti uscire insieme ad altri delegati di
ambasciate straniere. Stavolta l’atmosfera è migliore ma non l’esito.
Abdallah crede che continueranno così, altri 45 giorni di custodia
cautelare e poi altri 45 e poi ancora fino alla sentenza, che nel suo
caso può andare dai 2 ai 5 anni di carcere. Ma lui sorride, chiede
all’Italia e alla famiglia Regeni di non mollare: «Le autorità hanno
sempre negato la relazione tra il mio arresto e il fatto che mi
occupassi di Giulio, ora invece mi hanno detto che la ragione è proprio
quella. La verità prima o poi esce fuori. Un giorno nella cella accanto
alla mia è stato portato il figlio di uno degli uomini della presunta
banda criminale ammazzati nel tentativo di depistare e mi ha raccontato
che quando sono arrivati i poliziotti a casa loro avevano in mano i
documenti di Regeni, dopo poco l’hanno spostato e non l’ho più visto».