domenica 22 maggio 2016

La Stampa 22.5.16
Welfare Ue contro i populismi
di Tito Boeri*

Le elezioni presidenziali in Austria hanno messo ben in evidenza una delle sfide fondamentali dell’Europa. Nel primo turno, il 24 aprile, Norbert Hofer del Partito della Libertà Austriaco (Fpö), di estrema destra, ha vinto la quota maggiore del voto popolare.
Ha vinto dopo aver fatto una campagna fondata sull’idea che l’immigrazione incontrollata rischia di appesantire lo Stato sociale austriaco, fino al collasso. Oggi andrà al ballottaggio contro Alexander Van der Bellen, un membro dei Verdi.
Affermazioni come quelle di Hofer sono oggetto di feroce disaccordo tra gli economisti del lavoro, ma fanno vibrare una corda nell’elettorato europeo. In tutto il continente i partiti della destra populista stanno guadagnando terreno sfruttando le preoccupazioni degli elettori per la migrazione e l’accesso al welfare. E nel Regno Unito, le ansie sul «turismo sociale» stanno alimentando il tentativo di far uscire il Paese dall’Unione europea.
Se l’Ue sopravviverà come zona di libera mobilità, avrà bisogno di un rafforzamento dei suoi confini esterni, associato a una più rigorosa applicazione dei principi di assicurazione sociale all’interno dei suoi confini. La creazione di un più stretto collegamento tra i benefici erogati e i contributi passati per i lavoratori che si sono trasferiti da un Paese all’altro sarà essenziale per l’integrità a lungo termine del mercato comune del lavoro.
Il dibattito politico europeo ha prestato una certa attenzione al rafforzamento delle frontiere esterne, ma non si è affatto parlato di coordinare le prestazioni sociali attraverso le frontiere dell’Ue. È giunto il momento per l’Ue d’introdurre un unico codice di identificazione di sicurezza sociale che consenta di tenere traccia dei lavoratori mentre si spostano da un Paese all’altro e assicuri che le prestazioni assistenziali siano trasferibili tra le giurisdizioni nazionali.
Tale misura non solo contribuirebbe a ribadire un’identità europea per quanto riguarda il lavoro e lo Stato sociale; aiuterebbe anche un dibattito più informato sulla migrazione e la crisi dei rifugiati in corso, rendendo possibile stabilire quale sia la contribuzione fiscale netta che i nuovi arrivati danno ai programmi di previdenza sociale.
Ed è possibile che i risultati facciano infine chiarezza. I migranti economici sono in genere più giovani dei nativi e quindi hanno meno probabilità di ricevere benefici rispetto alla media della popolazione generale. A dire il vero, una generazione di immigrati invecchiando contribuisce di meno alla sicurezza sociale. Ma non tutti i migranti, in definitiva ottengono le pensioni a cui avrebbero diritto grazie ai loro contributi.
In Italia, ad esempio, i migranti pagano circa 5 miliardi di euro (5,7 miliardi) all’anno (circa il 0,3% del Pil) in più in contributi rispetto ai benefici che ricevono. E l’Istituto di previdenza sociale italiano (Inps) ha stimato in circa 15 miliardi di euro i contributi al sistema pensionistico italiano pagati dai migranti nel corso degli ultimi 20 anni e mai rivendicati.
Per i rifugiati, tuttavia, la situazione è diversa. Tanto per cominciare non sono autorizzati a lavorare fino a quando la loro domanda di asilo non è stata approvata. La migrazione dei rifugiati arriva in ondate più massicce rispetto alla migrazione economica. Di conseguenza, i rifugiati entrano nel mercato del lavoro dopo i migranti economici e guadagnano meno, sottraendo ai nativi risorse per prestazioni sociali.
I lavoratori che si spostano ripetutamente attraverso i confini possono avere anche loro una responsabilità se traggono indebitamente vantaggio dai sistemi di sicurezza sociale che pagano. Ci sono casi documentati di lavoratori che chiedono sussidi di disoccupazione in un Paese dell’Ue mentre lavorano in un altro. Inoltre, i contributi versati nel Paese d’origine del lavoratore raramente sono verificati e vi è un serio rischio che alcuni vincoli contrattuali, come i limiti all’orario di lavoro, non siano applicati quando un lavoratore è distaccato altrove.
L’unico modo per monitorare questi rischi e ridurre gli abusi è quello di sviluppare un archivio di previdenza sociale armonizzato che copra tutti i lavoratori entro le frontiere dell’Ue. I governi nazionali dovrebbero adottare un numero di previdenza sociale europeo (simile al Social Security number negli Usa o al National Insurance number nel Regno Unito) e scambiarsi regolarmente informazioni. Questo numero identificativo di sicurezza sociale europeo (Essin) ricalcherebbe quello specifico del Paese e conterrebbe un identificatore (magari le prime tre cifre) che indichi il primo Paese in cui è stato impiegato il lavoratore. Sarebbe anche collegato ai codici fiscali nazionali.
Facilitare la libera mobilità dei lavoratori è fondamentale per il rilancio della crescita in Europa. La grande divergenza dei tassi di disoccupazione dopo la crisi finanziaria del 2008 e la crisi del debito della zona euro ha solo aumentato l’urgenza dei provvedimenti. Un’unione monetaria che non può basarsi su un aggiustamento dei tassi di cambio o sui trasferimenti fiscali per ridurre gli squilibri del mercato del lavoro, richiede mobilità attraverso i confini nazionali. Ma per essere politicamente sostenibile la mobilità del lavoro deve essere adeguatamente governata. Nel contesto della crisi dei rifugiati, per esempio, la mobilità può venire facilmente percepita come una minaccia piuttosto che un’opportunità per assicurarsi contro i rischi del mercato del lavoro locale. L’Essin potrebbbe accentuare i vantaggi dell’adesione all’Ue e al contempo reprimere il flusso illegale di lavoratori che alimentano il sospetto verso la libertà di movimento, che sarebbe concessa solo ai lavoratori che pagano regolarmente i contributi previdenziali. Potrebbe anche essere utilizzata come base per l’accesso ai programmi gestiti dalla Ue, come ad esempio un sistema europeo di occupazione.
L’Europa ha bisogno di un sistema in grado di monitorare la mobilità dei lavoratori tra le giurisdizioni nazionali e i loro contributi via via che passano da uno Stato membro a un altro. Affrontare questa lacuna cambierebbe il discorso sulla politica e sulle politiche europee, non solo per quanto riguarda la sostenibilità e equità dello Stato sociale, ma anche per alcune delle questioni più controverse che attendono l’Ue - come il modo di gestire l’immigrazione economica e i flussi di rifugiati. Dell’inazione beneficiano solo Hofer e i suoi compagni populisti.
*Presidente dell’Inps