La Stampa 20.5.16
“Così salvo i malati di mente nell’Africa dei riti magici”
Lo
chiamano il “Basaglia nero”, la sua missione è di aiutare i folli che i
villaggi considerano posseduti. Domenica sarà a Gorizia per èStoria
di Mirella Serri
«Non
so perché l’ho fatto: non sono un medico, non sono uno specialista di
malattie mentali e non sono un prete», si schernisce così, un po’ timido
e impacciato, Grégoire Ahongbonon nato da una famiglia di contadini a
Ketoukpe, un piccolo villaggio del Benin al confine con la Nigeria e poi
emigrato in Costa d’Avorio. «E’ stato Dio che mi ha guidato», afferma
Grégoire che non aveva compiuto ancora 30 anni quando alla periferia di
Bouaké si è imbattuto nell’uomo che lo ha condotto sulla sua personale
via di Damasco: «Étienne vagava nudo, dormendo dove capitava, cibandosi
di spazzatura. Da lui mi è venuta l’ispirazione, è stato il mio primo
“paziente”, chiamiamolo così», aggiunge sorridente l’ex meccanico.
Grégoire
quando ha incontrato Étienne ha capito che quel miserabile mostrava
segni di profondo squilibrio e che sarebbe morto se qualcuno non si
fosse preso cura di lui. E’ iniziato così il lungo viaggio
dell’avventuriero Grégoire, scopritore di inaspettate e inimmaginabili
prigioni, delle ultime forme di schiavitù nel cuore dell’Africa
occidentale. Ahongbonon, che è padre di sei figli, ha infatti liberato e
riportato alla vita migliaia e migliaia di malati di mente, spesso
molto giovani, facendoli evadere da quelle speciali carceri dove vengono
destinati tutti coloro che accusano disagi psichici in Togo, Costa
d’Avorio, Benin, Burkina Faso e in tante altre nazioni africane.
Per
questa attività trentennale, Grégoire è stato ribattezzato il «Basaglia
nero» (ha avuto molti riconoscimenti, tra cui anche quello che porta il
nome del celebre psichiatra veneziano) e domenica sarà a Gorizia:
nessuno più di lui è adatto a fare da testimonial a questa edizione del
Festival «èStoria» dedicata al tema degli «Schiavi» (la manifestazione
organizzata da Adriano Ossola si svolgerà dal 19 al 22 maggio).
«Schiavitù a volte è una parola usata in Occidente con troppa facilità.
In Africa questa condizione è molto diffusa e drammatica», dice Grégoire
il quale ha attraversato anche lui momenti difficili.
Dopo aver
avuto un periodo di benessere come conducente di taxi, è stato vittima
di un tracollo economico, è finito sul lastrico e ha tentato il
suicidio. Poi, durante un viaggio a Gerusalemme, si è avvicinato alla
Chiesa cattolica. «Ho capito che dovevo cambiare la mia esistenza e
quando sono tornato in Costa d’Avorio mi sono accorto di situazioni
orribili che avevo ignorato per decenni».
Ha scoperto che nei
centri urbani e nelle campagne vivevano in condizioni tremende
moltissimi «posseduti» dalla pazzia: il disagio mentale in Africa è
considerato contagioso e chi ne è afflitto deve essere isolato. In città
i «matti», ma anche gli epilettici, vengono cacciati dalle case tutti
nudi, in modo che siano facilmente riconoscibili. Nelle campagne invece
vengono messi in ceppi con le gambe bloccate all’interno di grossi
tronchi ed esposti a tutte le insidie e i pericoli della foresta.
«Spesso
sono le famiglie che chiedono questi trattamenti», osserva Grégoire. I
parenti di coloro che sono fuori di senno di solito si rivolgono per
essere aiutati al capo del villaggio che cerca di liberare il poveretto
dagli spiriti maligni. Uno dei riti più praticati è l’immersione nel
sangue di un animale appena sgozzato. Oppure vi sono le percosse, la
privazione di cibo in modo che il diavolo abbandoni il corpo in cui si è
rifugiato. Nessuno vuole comunque prendersi cura di fratelli, figli e
padri considerati una vergogna, si preferisce incatenarli ai tronchi,
gettando loro un po’ di cibo da lontano. Così, per esempio, Aime di 26
anni, Jidikael che segue corsi per diventare sarto, Tenin, 32 enne in
ceppi per 12 anni, e la bellissima Celestin, oggi non sarebbero persone
libere se non ci fosse stato Grégoire che ha iniziato la sua opera
fondando l’Associazione St. Camille e poi è riuscito ad aprire parecchi
centri di recupero nel suo continente.
«Di solito gli africani
vengono immaginati poveri ma privi delle crisi esistenziali che
colpiscono chi vive nel benessere», dice Ahongbonon. «Non è affatto
così: tra miseria, fame e desideri non realizzati è assai facile
piombare nel buio mentale. Io cerco di offrire quella che chiamo la
“terapia dell’amore”. Pago il riscatto al capo del villaggio e dopo aver
tolto le catene ai piedi di un uomo o di una donna non credo vi sia
niente di più bello che lavarli e abbracciarli». Molto però c’è ancora
da fare, molti gli schiavi ancora da slegare.