La Stampa 17.5.16
Troppo tardi per cambiare le date del voto
di Marcello Sorgi
Avrebbero
dovuto pensarci meglio, Matteo Renzi e Angelino Alfano, prima di
proporre, per poi doverci rinunciare, l’allungamento di mezza giornata,
il 6 e il 20 giugno, dell’apertura dei seggi elettorali per le prossime
amministrative, riservandosi di decidere la stessa cosa per il
referendum costituzionale di ottobre. E se anche quest’ultima era la
scadenza che più premeva al presidente del Consiglio, che ieri ha
lanciato in grande stile la campagna per la fondazione dei «comitati per
il Sì» alla riforma, avrebbe dovuto riflettere sul fatto che meno di un
mese fa s’è votato per una sola domenica per il referendum sulle
trivelle, fallito, malgrado la maggioranza di elettori contrari al
prolungamento delle licenze di estrazione del petrolio, per mancanza di
partecipazione, e celebrato, malgrado le richieste dei promotori di
accorparlo alle comunali, in una data diversa, dato che il governo aveva
invitato all’astensione e un eventuale abbinamento avrebbe potuto
incentivare l’affluenza.
Cosa deponesse contro il ritorno ai due
giorni di votazioni, neanche tre anni dopo la riduzione a un giorno
solo, in vista della concentrazione della maggior parte possibile delle
scadenze elettorali in un election day, lo aveva spiegato chiaramente
l’ex-premier Enrico Letta, che tra l’altro aveva firmato la riforma
dell’accorciamento dei tempi di apertura dei seggi che avrebbe dovuto
esser cancellata ieri dalla controriforma: in tutta Europa, per non dire
della stragrande maggioranza dei Paesi del mondo, si vota un giorno
solo. Inoltre in Italia la scelta della giornata unica di votazioni era
stata presa anche per ragioni di taglio dei costi, un centinaio di
milioni che di questi tempi fanno assai comodo al bilancio dello Stato.
Ancorché
presentata come un’iniziativa mirata a contrastare l’astensionismo
crescente, la proposta del governo s’è infranta, non solo sulle
polemiche subito levatesi, ma su ragioni di opportunità che suggerivano
di evitare un cambio delle regole a gioco iniziato e a sole tre
settimane dal primo turno elettorale. Stabilito inoltre che sarebbe
stato impossibile riproporre l’appuntamento per la consultazione
referendaria di ottobre, visto il precedente di aprile, anche
l’interesse del governo è divenuto meno pressante. Con un’elezione a due
turni, come sarà quella delle città più importanti, il passaggio più
delicato è quello dei ballottaggi; una volta esclusi (e il Pd in alcuni
casi rischia), aver allungato i tempi del voto al secondo turno
diventerebbe inutile oltre che indifferente per chi è rimasto fuori.
Infine
non è detto che aver un giorno e mezzo, anziché uno solo, serva a
decidere meglio per chi votare o se andare o no a votare: in molti casi
la disaffezione al voto è ormai radicata e ha ragioni più profonde, che i
partiti, o quel che resta dei partiti, non sono riusciti a contrastare,
o neppure hanno cercato di farlo. Mentre è più vero che il disincanto
fa presto a trasformarsi in disgusto, e poi in rabbia legata alla
sofferenza che si allarga da uno strato all’altro della società civile, e
ancora che il contagio tra tutti questi elementi può fornire argomenti
al desiderio di azzeramento, costi quel che costi, della classe politica
di governo e al voto di protesta che abbiamo visto crescere, o calare
di poco, negli ultimi anni, e che ogni volta trasforma una normale
scadenza elettorale in un giudizio di Dio. In questo senso Renzi, anche
se non c’è riuscito, non aveva tutti i torti a cercare di premunirsi.