La Stampa 17.5.16
I timori per il referendum sconfitti dal pressing di Sala
Il candidato milanese: lunedì al voto elettori di centrodestra E i maggiori costi smentivano la “narrazione” renziana
di Fabio Martini
Ci
ha provato, ma sul più bello ci ha ripensato. A due ore dal Consiglio
dei ministri chiamato ad approvare il decreto che raddoppiava l’apertura
dei seggi per Amministrative e referendum, nel suo ufficio di palazzo
Chigi Matteo Renzi ha frenato bruscamente e ha ordinato la retromarcia:
«Questo decreto ci provoca più problemi che vantaggi». Un’inversione che
è maturata nel giro di poche ore e che è la somma di tanti motivazioni,
non tutte riferibili in pubblico.
Tutto era iniziato quattro
giorni fa: davanti al moltiplicarsi dei sondaggi negativi sul referendum
istituzionale di ottobre, Matteo Renzi ha immaginato che l’apertura dei
seggi anche il lunedì avrebbe potuto favorire l’affluenza di elettori
favorevoli alla riforma e di conseguenza ha riservatamente chiesto al
ministro dell’Interno Angelino Alfano di esporsi. E il ministro, che l’8
aprile aveva firmato un decreto per votere solo la domenica, ha
dichiarato: «Proporrò al governo un decreto» per tornare a votare sia la
domenica che il lunedì. Per tre giorni tutto è filato liscio, le
opposizioni annuivano (sia pure con qualche sfotto’) e dunque tutto era
pronto. Poi, quando mancavano poche ore al Consiglio dei ministri che
avrebbe dovuto adottare il decreto, il vento è completamente girato. A
fine mattinata è intervenuto l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta
(autore del decreto che a suo tempo aveva riportato le elezioni ad una
sola giornata) con due tweet politicamente fastidiosi. Nel primo si
invitava a «non tornare indietro su voto solo in un giorno: saremmo i
soli. E poi cambiare per decreto a campagna elettorale in corso??». E
nel secondo tweet Letta aggiungeva: «Da questa mappa vedo che tranne in
Egitto e India #votoinunsologiorno è regola».
A quel punto, in
Renzi, sono riaffiorati i dubbi sopiti nei giorni precedenti. Uno in
particolare: i due giorni possono aiutare il governo per il referendum
di autunno, ma alle amministrative l’effetto potrebbe essere opposto. In
particolare a Milano: il candidato del Pd Giuseppe Sala aveva fatto
sapere a palazzo Chigi che un voto allargato al lunedì avrebbe
consentito la partecipazioni a quegli elettori di fascia sociale “alta”,
soprattutto di centro-destra, che in una domenica di giugno sono soliti
lasciare la città. E così, anche alla luce di alcuni attacchi del
presidente dei deputati “forzisti” Renato Brunetta, il presidente del
Consiglio ha deciso la retromarcia: «Troppe polemiche» e soprattutto la
valutazione che in termini politici il «costo» di immagine sarebbe stato
superiore ai benefici. In particolare, quell’allusione di Letta al
fatto che l’Italia sarebbe stato l’unico Paese al mondo (tranne l’Egitto
e l’India) a votare su due giorni, avrebbe esposto Renzi ad attacchi
fastidiosi. Oltretutto - ecco un altro punto decisivo - per un decreto
che avrebbe avuto un costo per la collettività.
Certo, un costo
simbolico di 23 milioni, decisamente inferiori ai 120 denunciati da
Enrico Letta, ma comunque un aggravio e dunque in controtendenza con la
narrazione renziana del taglio dei costi inutili. E in contraddizione
anche con recenti esternazioni del presidente del Consiglio, che aveva
definito inutile e costoso il referendum sulle trivelle. Renzi e Alfano
ne hanno parlato in Consiglio dei ministri. E il capo del governo ha
attribuito la frenata soprattutto all’atteggiamento ondivago delle
opposizioni, in particolare del capogruppo dei deputati Renato Brunetta,
favorevole al decreto, ma con argomentazioni ritenute provocatorie. Ha
detto Renzi in Consiglio: «In materia elettorale, a poche settimane dal
voto, serve la massima concordia. C'è chi invece non ha perso tempo per
gridare allo scandalo». Renzi ha citato Brunetta, ma pensava ad Enrico
Letta e ha concluso: «Non abbiamo paura del voto delle amministrative e
neppure di quello del referendum».