Corriere 17.5.16
L’ira sull’opposizione: un errore accontentarli
Il premier infastidito dalle accuse ha fatto saltare il decreto
di Maria Teresa Meli
ROMA
Ieri mattina il decreto per allungare al 6 giugno le amministrative era
ancora in «vita». Poi, con uno di quei cambiamenti repentini di
strategia che gli sono abituali, Matteo Renzi ha mutato opinione. E ha
lasciato scoperto Angelino Alfano che si era esposto pubblicamente su
questo fronte e che è stato costretto a fare marcia indietro.
Com’è
naturale, in casi delicati come questo, il ministro dell’Interno e il
premier avevano agito di comune accordo. Al primo premeva venire
incontro alle richieste del centrodestra e, segnatamente, di due
candidati che sono sostenuti anche da Ncd: Stefano Parisi e Alfio
Marchini, i quali temevano che il ponte del 2 giugno li avrebbe
penalizzati. Al secondo importava poco o niente delle amministrative: a
Renzi interessava la possibilità di replicare lo schema dei due giorni
alla consultazione del 16 ottobre, per ottenere oltre il 50 per cento
dei votanti, benché il quorum non sia necessario per quel referendum.
L’idea
era maturata già qualche settimana fa ed era stata ufficializzata da
Alfano venerdì scorso. Ma poi, gli stessi che avevano chiesto di votare
anche il lunedì, cioè i partiti di opposizione come Forza Italia e
Fratelli d’Italia, pur plaudendo al decreto preannunciato dal ministro
dell’Interno, avevano cominciato ad attaccare Renzi, accusandolo di
volere il provvedimento per paura del risultato del referendum. E così
il decreto, sollecitato anche dall’Anci (associazione dei Comuni), e già
provvisto del «via libera» di Sergio Mattarella, ieri, non è entrato
nemmeno in Consiglio dei ministri. Il premier, stufo delle polemiche, lo
ha fatto saltare prima. E a nulla è valsa la richiesta di Parisi a
Berlusconi di intervenire con una dichiarazione di appoggio al
provvedimento. Il candidato del centrodestra a Milano aveva capito che
tirava una brutta aria, ma quando il leader di FI ha fatto il suo
comunicato, Renzi aveva già preso la sua irrevocabile decisione.
Il
premier era contrariato, per usare un eufemismo: «Sono stato io, alla
Leopolda, a proporre l’Election day, dopodiché persino Brunetta e i
grillini avevano chiesto più tempo e io, visto che mi accusano sempre di
avere paura del voto popolare, ho dato l’ok. Ma dopo che ho detto sì,
tutti quelli che mi avevano sollecitato in questo senso si sono messi a
protestare e mi hanno attaccato. È pazzesco. Io ora che lezione dovrei
trarre da questa storia? Che sbaglio a venire incontro all’opposizione?
Che non devo dare retta a tutti questi signori?».
A Renzi non è
piaciuta nemmeno la polemica sui costi aggiuntivi di un voto spalmato su
due giorni, portata avanti anche da Enrico Letta, che con il suo
governo aveva inaugurato l’Election day contro gli sprechi: «Non è vero
che si sarebbero spese centinaia di milioni di euro. È una baggianata.
Avevo chiesto e mi avevano detto che il costo era di 4 milioni e
ottocentomila euro».
Il referendum, tanto, secondo Renzi, andrà
bene comunque: «Dicono che sono io a personalizzarlo, ma non è vero.
Andiamo pure sui contenuti, io sono prontissimo, così i miei avversari
vanno in crisi perché loro sono contro la riforma solo per opportunismo
politico. La realtà è che tutta questa storia è la solita maionese
impazzita di Roma».
Maionese della quale fa parte, secondo Renzi,
anche il «tam tam» secondo il quale la Consulta, che esaminerà
l’Italicum il 4 ottobre, potrebbe bocciarlo proprio alla vigilia del
referendum: «Primo, non credo che vi siano i presupposti per cassarlo;
secondo, anche se fosse non avrebbe effetto alcuno sul referendum;
terzo, è chiaro che per ragioni di opportunità la Corte renderà nota la
sentenza solo dopo il voto. Quindi, che ne parliamo a fare?».
Ma
c’è anche la minoranza del Pd che minaccia di votare no al referendum
perché non è ancora pronta la normativa per l’elezione dei nuovi
senatori. Una polemica che, però, a Palazzo Chigi giudicano
«pretestuosa».