La Stampa 16.5.16
La rischiosa offensiva della Lega
di Federico Geremicca
Se
la Lega non fosse un partito in salute, la dichiarazione di voto fatta
ieri da Matteo Salvini (in un ipotetico ballottaggio tra la Raggi e
Giachetti, la Lega a Roma sceglierebbe la prima), ecco, questa
dichiarazione potrebbe somigliare ad una sorta di «staffetta»: un ideale
passaggio di testimone, insomma, dal primo vero partito antisistema
italiano - il Carroccio, appunto - ai nuovi arrivati del Movimento
Cinque Stelle. La Lega, però, non è in declino, e le cose - dunque - non
possono stare così. E infatti, piuttosto che un annuncio a sostegno del
partito avvertito come il più vicino, la sortita del leader leghista
sembra un nuovo capitolo della guerra sorda in atto tra le due maggiori
forze anti-establishment del panorama politico italiano.
È una
guerra che Grillo e Salvini stanno combattendo ormai da tempo evitando
di portare, almeno per ora, i rispettivi movimenti allo scontro
frontale, ma piuttosto sparando con ogni tipo di munizione contro quello
che viene considerato - evidentemente - il nemico comune.
E cioè
il Pd di Matteo Renzi, reo di essere il partito-architrave del sistema
politico e l’argine più resistente (forse addirittura l’unico rimasto)
di fronte alla bufera antisistema che spazza il Paese.
Ognuno,
naturalmente, è libero di scegliere il nemico che vuole e di combatterlo
(leggi e codice penale permettendo) con i toni e gli argomenti che
ritiene: quel che dovrebbe essere evidente, però, è che la guerra in
atto - condotta con la violenza e la spregiudicatezza con cui è condotta
- rischia di produrre danni non solo e non tanto al Pd, quanto a
qualcosa di assai prezioso e che dovrebbe stare a cuore a tutti.
Potremmo chiamarlo spirito civico, tessuto connettivo. O perfino
orizzonte comune. Tutto quel che solitamente tiene insieme, insomma, una
comunità.
Gli effetti di questa guerra - improntata sempre più
all’odio che alla polemica politica - cominciano purtroppo a
manifestarsi in tutti i loro aspetti: fino a condizionare le valutazioni
di un giudice solitamente illuminato arrivato a sostenere, tout court,
che tutti i politici rubano. Il clima da vigilia elettorale certo non
favorisce tregue, anzi. E nell’ultimo paio di settimane ci si è
incamminati verso una sorta di cupio dissolvi che potrà forse portare
qualche voto in più alle forze antisistema, ma a prezzo di ferite
gravissime inferte all’intero Paese.
Tra i partiti, per dirne solo
una, è ormai in corso una sorta di gara a chi accusa con più violenza
l’avversario di corruzione, ruberie e pratiche di malaffare. Un rimpallo
continuo tra le vicende e le inchieste di Potenza e di Lodi, di Parma e
di Livorno, di Quarto e della Sicilia. I toni più duri e sprezzanti,
sono sempre quelli usati dalla Lega e dagli uomini di Grillo: salvo poi
esser ripagati con la stessa moneta quando a finire nei guai (magari per
vicende perfino irrilevanti) sono sindaci o amministratori leghisti o
grillini.
E’ una escalation della quale non si vede la possibile
fine. E non giureremmo che con le battute razziste di Grillo
all’indirizzo del sindaco di Londra o gli attacchi di Salvini al Capo
dello Stato, si sia toccato il fondo. La guerra in corso, infatti,
sembra non aver quartiere. E gli effetti sono perfino paradossali.
Dopo
aver stravolto un referendum (quello sulle trivelle) fondendolo con
inchieste che con le piattaforme in mare non c’entrano niente e dopo
aver avviato una campagna (quella del plebiscito su Renzi) che rischia
di mutare il senso del referendum costituzionale di ottobre, è in corso
uno scontro elettorale interamente combattuto al grido «loro rubano di
più», nel quale lo spazio per le idee ed i programmi da minimo che era è
diventato nullo. I cittadini-elettori osservano, ascoltano e non sanno
che pensare. O forse lo sanno. E allora auguri al vincitore, chiunque
esso sarà: dopo il tanto odio seminato, il rischio è trovare non
municipi da governare, ma cumuli di macerie da sgombrare. Con buona pace
di «onestà», «omertà» e stupidaggini simili.