lunedì 16 maggio 2016

La Stampa 16.5.16
Le relazioni pericolose tra musica e politica
di Massimiliano Panarari

Relazioni travolgenti, talvolta virtuose, talaltra assai meno. Certo è che tra musica e politica la corrispondenza d’amorosi sensi non è mai mancata. E si tratta di una neverending story che ha contrappuntato moltissime fasi della storia delle società umane: basti pensare a quanto, nella Repubblica, Platone sottolineasse il potere della musica di influire sulle emozioni degli individui spingendoli a compiere determinate azioni.
Un intreccio che si fa strettissimo con l’ingresso dell’Occidente nella modernità, nel quale giocarono un ruolo chiave l’Illuminismo e la Rivoluzione francese con la canzone di guerra (a sua volta basata su un canto contadino) de La Marsigliese convertita in inno rivoluzionario. La musica, sul finire del Settecento e con le grandi rivoluzioni liberali, perde i connotati edonistici di occasione di diletto per la società di corte e viene adottata quale medium della nuova sociabilità politica fondata sulla borghesia. Che, nel XIX secolo, guida i moti del ’48, rifonda il teatro musicale e fa delle arie e dei recitativi del melodramma dei vettori potentissimi delle lotte per l’indipendenza nazionale. Il folclore, anche musicale, nell’Ottocento romantico costituisce infatti la manifestazione per eccellenza di quella che lo storico Eric Hobsbawm ha chiamato la «reinvenzione della tradizione» al servizio della battaglia politica dei diversi nazionalismi. Ma vale anche, molto dopo, per Giovinezza, canto goliardico tramutato in megafono del fascismo, e per Bella Ciao, sintesi di svariate canzoni per trovare un inno accettabile da parte di tutte le correnti della Resistenza.
Con l’ingresso delle masse sulla scena della vita pubblica nel Novecento, musica e politica rinsaldano ulteriormente i loro legami, che diventano relazioni pericolose all’interno dei totalitarismi. Dalla Germania nazista all’Unione Sovietica la musica si fa (come tutte le arti) di regime e viene impiegata con finalità di propaganda. Da Oltreoceano, nel frattempo, era arrivata la «musica degenerata» chiamata jazz, un veicolo di identità per la popolazione afroamericana i cui suoni dilagheranno in Europa, conoscendo traiettorie eccentriche e contraddittorie: amata dai futuristi per la sua fisicità iconoclasta, verrà depurata nel secondo dopoguerra dalla sua dimensione di rivolta razziale e utilizzata dal governo Usa come irresistibile arma di soft power.
Nell’Italia iperpolitica (e degli opposti estremismi) degli Anni Sessanta e Settanta, la «musica andina» era di sinistra e quella «celtica» di destra. E anche negli Stati Uniti la canzone impegnata identifica la colonna sonora di quei decenni (e del rifiuto della guerra in Vietnam), tra Joan Baez e Bob Dylan, via via fino al rock «operaio» e working class di Bruce Springsteen. Ma anche il Regno Unito, naturalmente, dice la sua su politica e musica, dal Britpop prodotto da esportazione della Cool Britannia di Tony Blair sino a Elton John campione dei diritti dei gay e delle unioni civili.
In una società di massa e pop la musica può dunque rappresentare anche un formidabile canale «ideologico» e di costruzione di un’egemonia culturale. Come mostra pure l’Eurovision Song Contest che dalla politica si era tenuto sempre rigorosamente alla larga, e sembra andare adesso alla ricerca di una narrazione pubblica per una Ue in crisi di immagine. Ecco così la vittoria di Conchita Wurst (il tema del «gender») nel 2014 e, ora, di Jamala (il contrasto alla neo-politica di potenza della Russia). Perché, è proprio vero, negli «scontri di civiltà» uccide (o difende) più la gola – nel senso dell’ugola canterina – della spada.