La Stampa 13.5.16
Parlamento Ue, schiaffo alla Cina
“Non è un’economia di mercato”
Strasburgo: restano le barriere al libero scambio. Ma la Commissione studia un’apertura
di Marco Zatterin
L’Europarlamento
 decreta che «la Cina non è un’economia di mercato» perché «ancora non 
soddisfa i criteri stabiliti dall’Ue per esserlo» e, pertanto, invita la
 Commissione a non abbassare le difese commerciali e opporsi alla 
promozione di Pechino a sistema aperto al libero scambio. E’ stato un 
pronunciamento determinato, quello di ieri a Strasburgo, sostenuto da 
tutti i gruppi politici. Con 564 voti favorevoli, 28 contrari e 77 
astenuti, gli eurodeputati hanno chiesto che il gigante asiatico sia 
trattato in modo «non standard». Dunque mantenendo le barriere 
antidumping con cui l’Europa - e non solo - cerca di difendersi dagli 
abusi e salvare migliaia di posti di lavoro dalla concorrenza sleale.
Il
 calendario dice che l’11 dicembre si esaurisce il periodo transitorio 
di adesione della Cina all’Omc, l’Organizzazione mondiale del commercio.
 La Commissione deve suggerire ai 28 cosa fare, se accettare o meno la 
promozione dell’ex celeste impero e se mantenere le misure di protezione
 in vigore. Il voto di Strasburgo indica bene l’esito che auspicano gli 
eletti dei cittadini. I tecnici dell’esecutivo Ue hanno però sul tavolo 
una bozza di strategia che non appare del tutto in linea.
Circola 
nei corridoi dei palazzi dell’Unione un documento di una quarantina di 
pagine in cui si valutano le opzioni «cinesi» e le possibili 
conseguenze. I tecnici della Commissione ritengono che ci siano tre 
soluzioni: lasciare tutto com’è, togliere ogni barriera, eliminarle con 
interventi mitiganti. A poco dalla fine della consultazione interna, il 
testo sostiene la terza via e stima che, nel lungo periodo, i posti a 
rischio sarebbero «solo» 25 mila. Al massimo, si precisa. Però è un dato
 che fonti industriali ritengono «straordinariamente riduttivo».
L’apertura
 coi correttivi non piacerà ai deputati (fra i nostri, i leghisti sono 
gli unici ad aver votato per la Cina) e al governo Renzi. «Non solo le 
barriere vanno tenute in piedi ma occorre rafforzarle», afferma il neo 
ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda. Stamane si riunisce il
 Consiglio dei Ue del Commercio estero e il caso di Pechino è in agenda.
 «Il voto del Parlamento ha posto un’ipoteca seria sull’esito della 
storia», assicura una fonte diplomatica. Ma non è detto che sia così 
facile. Non tutte le capitali hanno esigenze analoghe.
L’Italia è 
una delle economie che più rischiano di pagare il conto della promozione
 cinese. Ceramiche, siderurgia e altri energivori soffrono 
particolarmente la concorrenza sleale. Al momento, non essendo «economia
 di mercato» la valutazione dei listini delle aziende di Pechino è 
avvenuta sulla base del riferimento a prezzi di paesi analoghi. Da 
dicembre in poi, a far stato della realtà sarebbero i listini cinesi. «E
 non nemmeno tanto lì che si registra il comportamento sleale - spiega 
una fonte tecnica - quanto sulle sovvenzioni a produzione o export».
Sono
 preoccupati i giapponesi. Come gli americani che hanno già affermato di
 voler sfidate l’Omc e non riconoscere il passaggio di categoria di 
Pechino. Tokyo conta sulla sponda italiana e francese al G7 di 
Ise-Shima, fra due settimane. Non si fidano di tedeschi e britannici, 
che giudicano più «cinesi» di quanto le loro parole facciano pensare. 
Anche loro hanno un problema di acciaio, alla stregua dell’Europa. Dove,
 per chi ama la contabilità, 56 delle 73 misure antidumping prese sono 
indirizzate all’amico cinese.
Proprio la siderurgia è il settore 
dove l’attrito è più forte. La Cina ha sfornato nel 2015 il 50,3% dei 
profilati e tondi planetari. L’Europa è al secondo posto (10,4%) con 160
 milioni di tonnellate. Il guaio è che il colosso asiatico ha una 
sovraccapacità di 3-400 milioni di tonnellate, senza tralasciare che 
l’export ha toccato nel 2015 quota 122 milioni, il 20% in più rispetto 
al 2014. E’ nozione comune che tutto questo metallo sia finito sul 
mercato a prezzo ridotto. L’industria europea, sulla quale gravano oneri
 sociali ed ambientali che i rivali cinesi vedono sono nei peggiori 
incubi, rischia di finire fuori scena.
L’Europarlamento ammette 
«l’importanza del partenariato» con Pechino e sottolinea che, per la 
prima volta, nel 2015 gli investimenti della Cina nella Ue hanno 
superato quelli di segno contrario. Ciò non toglie che, nota una fonte 
Ue, delle cinque regole dell’economia di mercato «ne rispettano forse 
una». La Commissione non potrà non tenerne conto, assicurano a 
Strasburgo. La decisione è attesa per luglio. Poi cosa faranno gli Stati
 membri?
 
