il manifesto 13.5.16
Dal Paraguay al Venezuela, la strategia del golpe blando
America latina. I nuovi processi di destabilizzazione nel continente
di Geraldina Colotti
Golpe
blando o golpe istituzionale. Di solito è preparato da una «guerra» di
debole intensità, una «guerra» non convenzionale, giocata con armi
mediatiche e giudiziarie atte a preparare il terreno per la deposizione
dei presidenti non graditi a Washington: solitamente nel
silenzio-assenso degli organismi internazionali.
Una pratica assai
frequentata a partire da inizio secolo in America latina, quando il
vento del «socialismo del XXImo secolo» ha cominciato a spirare nel
continente, portando al governo Hugo Chavez in Venezuela, e gli altri
componenti dell’Alba (l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra
America, ideata da Cuba e Venezuela, a cui hanno aderito Bolivia,
Ecuador, Nicaragua…), ma anche i presidenti progressisti dei grandi
paesi, come i Kirchner in Argentina o Lula da Silva e poi Dilma Rousseff
in Brasile.
Il primo a fare le spese del golpe istituzionale fu
Chavez. Il presidente de facto e capo degli imprenditori, Carmona
Estanga, appoggiato da gran parte dei personaggi che animano l’attuale
parlamento venezuelano, disse che il presidente si era dimesso, mentre
era stato sequestrato. Poi toccò a Manuel Zelaya, in Honduras,
sostituito da un governo de facto, nel 2009. E poi a Fernando Lugo, in
Paraguay, il cui pretestuoso impeachment, lungamente preparato dal suo
vice Fernando Franco, portò a un governo più gradito alle grandi
consorterie internazionali. Quelle stesse che hanno puntato al Brasile, e
che ora foraggiano l’opposizione venezuelana per cacciare dal governo
l’ex operaio del metro Nicolas Maduro. Senza dimenticare la richiesta
d’impeachment nei confronti di Cristina Kirchner che, per il carisma di
cui gode, resta un obbiettivo da abbattere.