La Stampa 13.5.16
Italia 1945-1948 gli anni del miracolo
Lo “spirito della Resistenza” rilanciò un Paese uscito a pezzi dalla guerra: grazie a una straordinaria classe politica
di Giovanni De Luna
«Isolamento
dei luoghi, profondità delle tradizioni e delle culture, bellezza
austera e luminosa dei caratteri fisici e umani»: questa era l’Italia
che si allungava, piena di ostacoli geografici e disuguaglianze
economiche, davanti agli occhi di Vasco Pratolini, improvvisato suiveur
del Giro d’Italia, nel 1947. Le sue cronache ci restituiscono un
ritratto vivido ed efficace dell’Italia di allora, alternando immagini
di una realtà senza tempo, frammiste a quelle totalmente attraversate
dalla febbre politica che segnava l’attualità dell’immediato dopoguerra.
Così,
in una Val Trebbia «tutta svolte e dirupi, con la natura da paradiso,
con le strade da girone infernale», Pratolini si imbatte «in paesi che
si ignorava, con sulle soglie trogloditi che ci offrivano acqua per puro
istinto»: «una ragazza bella come una pastora di altre contrade, coi
pantaloni rattoppati e il cappellone di paglia come una contadina del
Texas, ha versato acqua nella bottiglietta di Cottur, servendosi di un
ramaiolo. Aveva i capelli neri e una falce sotto l’ascella...».
Il
Giro correva via, moltiplicando paesaggi e città, delineando i
caratteri di un’Italia che dal punto di vista demografico-produttivo
sembrava ancora quella dell’800. Certo, c’era la tragica eredità delle
devastazioni seguite alla guerra: nel 1945 si contavano due milioni di
case distrutte, 1.600.000 disoccupati, la produzione industriale ridotta
a 1/3 di quella dell’anteguerra, quella agricola a 2/3. Ma i tratti
complessivi erano quelli di sempre, di un Paese povero, contadino, con
una base industriale molto ristretta, frammentato lungo molteplici linee
di frattura, segnate dalla diversità strutturale tra Nord e Sud e che
lasciavano intravedere «isole» di miseria anche all’interno delle zone
più sviluppate.
Gli italiani erano poveri, ma non tutti allo
stesso modo: alla formazione del reddito nazionale le regioni
settentrionali concorrevano per il 60,5%, quelle centrali con il 17,8,
quelle meridionali con il 14,4% e le isole per il 7,3%. Quanto
all’analfabetismo, su una media nazionale pari al 12,9% della
popolazione, gli analfabeti risultavano quasi scomparsi al Nord (con un
minimo dell’1% in Trentino-Alto Adige, del 2,6% in Piemonte e del 2,7%
in Lombardia), mentre al Sud sfioravano il 25% con punte massime in
Calabria (31,8%) e in Basilicata (29,1%).
Queste immagini di
staticità e arretratezza, questo intreccio tra isole di benessere e
oceani di povertà, di culture, dialetti, identità separate erano la
prova del fallimento del tentativo fascista di «nazionalizzare» gli
italiani. E oggi, in chiave storiografica, rendono ancora più
sorprendente il «miracolo» che si verificò tra il 1945 e il 1948: il 2
giugno 1946 si andò alle urne e, per la prima volta dopo vent’anni di
dittatura, tutti furono in grado di esprimere una libera volontà.
Votò
circa di il 90% dell’elettorato, in una febbre di partecipazione
politica scattata come una molla troppo a lungo compressa dalle
strutture di un regime totalitario; si scelse nella Repubblica la nuova
forma dello Stato, azzerando il peso di una Monarchia troppo compromessa
con il fascismo; ci si diede una Costituzione che fino a tempo
recentissimi ha rappresentato un «patto di cittadinanza» efficace e
carico di valori civili in cui potersi riconoscere; nel 1948 l’indice
della produzione industriale ritornò quello dell’anteguerra, così come
l’indice dell’andamento dei salari, certificando la piena ricostruzione,
anche economica, dalle macerie della guerra.
Ci sono spiegazioni
per questo «miracolo»? Sì, e la prima è lo «spirito della Resistenza».
«Guardate le facce delle persone, i loro gesti la loro attività»,
scrisse allora Carlo Levi: «non hanno perso quello che avevano trovato
nella Resistenza, e forse non lo perderanno per molto tempo. Sono vivi,
attivi, tirano su muri diroccati, si sposano, fanno all’amore, cercano
tutti i modi possibili, senza pigrizia e senza lamenti, di guadagnare la
vita, di migliorarla e, con una incredibile rapidità, si sono
dimenticati della guerra, della paura, del sangue, della servitù, del
moralismo…».
Di questo spirito, la classe politica che allora fu
chiamata alla guida del Paese seppe farsi interprete con straordinaria
efficacia. Da De Gasperi a Togliatti, da Nenni a Einaudi era quella una
classe politica non ancora segnata da granitiche appartenenze
partitiche: alle elezioni del 1946 per la Costituente, i deputati che
provenivano dalle libere professioni erano il 43,7%, quelli reclutati
negli apparati di partito il 18,4%. Nel 1953 alle elezioni politiche
queste quote erano scese al 33,8% per i provenienti dalle professioni e
salite al 26,2% per quelli provenienti dai partiti. Il tempo dei «muri»
della guerra fredda arrivò presto. Ma quel miracolo sarebbe rimasto.