il manifesto 13.5.16
Zenone e la lettura degli antichi
di Alberto Olivetti
Le
“Vite dei filosofi” composte da Diogene Laerzio nel terzo secolo dopo
Cristo ci conservano una grande dovizia di ragguagli sui pensatori
antichi. Le vite degli uomini illustri rivestivano un valore esemplare e
i trascorsi di una vita, fissati in una successione di riconoscibili
episodi, tenevano il ruolo di moralità ricche di insegnamenti. In
particolare per i filosofi, ai fatti si attribuiva il medesimo valore
educativo dei detti.
Il rango delle affermazioni contenute nelle
opere di filosofia, era avvalorato e ribadito, per così dire, dai
comportamenti e dalle scelte del loro autore. I detti di Socrate, degni
d’esser ricordati e tramandati ai posteri, non dovevano esser
contraddetti dalle azioni sue. Pena una revoca in dubbio dei presupposti
medesimi del suo pensiero. Affermazioni e comportamenti, hanno da
correre paralleli per conferire alla ‘persona filosofica’ il suo
connotato riconoscibile. La moralità del filosofare è attestata dalla
vita del filosofo. Per questo, qualora corrispondenza tra proposizioni e
scelte non vi sia, non si dà ‘vita filosofica’. Appunto perché la
filosofia era riguardata come ricerca d’una regola di vita. Filosofia,
amore d’una sapienza volta a fornire indicazioni valide per chi intende
attenersi ad una consapevolezza del vivere. Costui assume insegnamenti
ed esempi nell’intento di condursi, in ciascuno dei casi della propria
esistenza, secondo una regola convenuta, capace di conseguire il miglior
modo di vivere. Valga un esempio che mi piace qui richiamare. Diogene
Laerzio racconta di Zenone di Cizio che, “per sapere quale era il
miglior modo di vivere”, aveva interpellato un oracolo. Celebre
fondatore ad Atene, nel “portico dipinto” affrescato da Polignoto, della
scuola stoica, Zenone la resse per un quarantennio, tra la fine del
quarto secolo e il 263 avanti Cristo. Era giunto ad Atene sui suoi
trent’anni. Nativo dell’isola di Cipro, egli svolgeva una attività
commerciale navigando tra le città fenice di Tiro, di Biblo, di Sidone e
le città della Grecia. Un giorno fece naufragio in vista del Pireo e
perse la nave e il carico di porpora, salva la vita. Diogene riferisce,
riportando la testimonianza contenuta nel primo libro “Su Zenone” di
Ecatone e Apollonio di Tiro, la risposta che l’oracolo dette alla
domanda di Zenone. Se vuoi vivere nel “miglior modo”, asserì il dio,
“mettiti in contatto con i morti”. Il verbo greco pronunciato
dall’oracolo è un verbo composto e in esso risuonano significati che
l’italiano di “contattare”, o di “mettersi in contatto”, non esaurisce.
E, del resto, scampato al naufragio, Zenone avrebbe dovuto
ricongiungersi allora, per consiglio del dio, ai corpi dei suoi marinai
annegati? Il responso avrebbe designato il morire come il “miglior modo
di vivere”. Bisogna dire che, tra le altre accezioni di quel verbo,
particolarmente suggestivi paiono i richiami al senso di “prendere il
colore”, “assumere un medesimo tono cromatico”, “trascolorare”. “Assumi
il colore dei morti”, potremmo tradurre. Si comprende allora che, più
che di contatto, di accostamento o di contiguità è invece di
assimilazione e di immedesimazione che parla la voce dell’oracolo.
Immedesimarsi, assimilarsi ai morti: è questo il “miglior modo di
vivere”. Zenone, scrive Diogene, “interpretò il senso di queste parole e
si diede alla lettura degli antichi”. Leggere, infatti, è recare vita.
Rinasce con la lettura la parola: sortisce dal bozzolo della lettera che
fu tracciata e la tratteneva inerte. Si fa presente e vivo il pensiero
per colui che, assimilandola, in quella parola si immedesima. Le
conferisce il suo volto.