La Stampa 12.5.16
L’Arabia e il mio Iran sono indegni del Salone
L’avvocato
premio Nobel, paladina dei diritti umani, è tra gli ospiti di spicco
della kermesse che si apre oggi al Lingotto e che riserva un ampio
spazio alle voci dell’universo islamico. Tema di quest’anno, le
“Visioni”
di Francesca Paci
L’iraniana Shirin
Ebadi parla a bassa voce, ma fa sempre rumore. Prima donna musulmana a
ricevere il Nobel per la pace e già pioniera tra i suoi connazionali
nello scalare i vertici della giurisprudenza, vive in esilio volontario
dal 2009 dopo che il regime le ha chiuso una dopo l’altra tutte le
possibilità della sua battaglia quotidiana per i diritti umani. Da
allora scrive, viaggia, parla a giovani e meno giovani, testimonia senza
tregua la sofferenza dei connazionali chiusi in quella che considera
«una delle più grandi prigioni del mondo». Il suo ultimo libro, Finché
non saremo liberi (Bompiani), è l’autobiografia di un popolo e di un
Paese.
L’Arabia Saudita avrebbe dovuto essere il Paese ospite
d’onore del Salone del libro 2016, se le organizzazioni dei diritti
umani non avessero eretto le barricate. Si opporrebbe se un domani fosse
invitato l’Iran?
«Tanto l’Iran quanto l’Arabia Saudita sono
colpevoli di violare i diritti umani, sono entrambi regimi non
democratici. Con la loro ambizione e con la rivalità politica hanno
infiammato il Medio Oriente. In nessuno dei due Paesi c’è una stampa
libera, e secondo me nessuno dei due merita di essere invitato come
ospite d’onore a Torino».
Qual è la domanda più ricorrente che le fanno all’estero quando parla del suo Paese?
«La
questione che torna maggiormente è il modo in cui mi hanno trattato gli
agenti dell’intelligence. Tutto il mondo si meraviglia nel constatare
fino a che punto un regime possa penetrare nella vita privata dei suoi
cittadini».
Ha lavorato tra mille difficoltà sotto la presidenza
Khatami, ha visto l’avvento di Ahmadinejad, ha seguito dall’esilio
l’ascesa di Rouhani. Come sarebbe oggi la sua vita se fosse ancora in
Iran?
«Se fossi a Teheran sicuramente non potrei continuare la mia
attività in difesa dei diritti umani, perché molti dei miei colleghi
sono in carcere. Narges Mohammadi è stata condannata a 6 anni di
reclusione e li sta scontando tutti nonostante sia molto malata. Un
altro, l’avvocato Abdolfattah Soltani, è in carcere da 4 anni. Il mio
studio legale e la mia organizzazione non governativa sono stati chiusi.
Se fossi in Iran sarei in prigione con Narges. E di certo anche a pena
terminata non mi farebbero viaggiare. Tenete presente che il signor
Khatami è stato presidente della Repubblica islamica dell’Iran per 8
anni e che dal 2010 non può lasciare il Paese né può parlare con nessun
giornalista iraniano o straniero. In queste condizioni non esiste la
possibilità di lavorare per i diritti umani in Iran».
Cosa si aspettava dal presidente riformista Hassan Rouhani?
«Rouhani
aveva promesso di rilasciare i prigionieri politici e quelli accusati
di reati d’opinione. Aveva promesso anche di togliere gli arresti
domiciliari a Mehdi Karroubi e Hossein Mousavi [leader dell’opposizione,
ndr], di migliorare la situazione economica del popolo e di liberare la
stampa. Purtroppo non ha mantenuto nessuna di queste promesse. Diciamo
che non ha potuto, perché secondo la costituzione iraniana tutti i
poteri sono concentrati nelle mani del leader supremo, Khamenei, e il
presidente ha margini d’azione limitati. Anche volendo, Rouhani potrebbe
fare poco. Il rimprovero che gli muovo però è di aver promesso molto
pur conoscendo bene la situazione».
Come giudica il tanto atteso accordo sul nucleare?
«È
buono. L’approvo perché ha alleggerito le sanzioni che gravavano quasi
tutte sul popolo. Ma l’accordo ha un periodo di prova durante il quale
spero che tutte le parti - l’Iran ma anche l’America e l’Europa -
mantengano gli impegni presi».
Le due strade della diplomazia
internazionale per trattare con le dittature, Iran compreso, sono
tradizionalmente negoziare o isolarle. Quale preferisce?
«L’amicizia
con i dittatori è senza dubbio la via più sbagliata, vi ricordo a
questo proposito l’amicizia dell’Italia con Gheddafi e il suo epilogo. I
dittatori vanno trattati con il bastone e la carota, in modo che vedano
un interesse personale nel cambiare e correggere il proprio sistema».
Alla fine, le sanzioni contro l’Iran hanno funzionato o no?
«Le
sanzioni economiche hanno costretto il regime a firmare l’accordo, però
il popolo ha sofferto molto più dei vertici. Per questo insisto sempre
sulle sanzioni politiche che danneggino i regimi e non la gente. Per
esempio nel caso dell’Iran si potrebbe vietare al regime di usare
satelliti europei come Eutelsat per trasmettere programmi televisivi in
lingua non persiana come Press Tv».
Nel suo libro sono protagoniste le donne. Le iraniane sono davvero il motore del Paese?
«Le
donne in Iran sono molto attive e nulla le può fermare dal battersi per
i diritti umani. Narges Mohammadi, per dire, ha iniziato da dentro il
carcere una campagna per sostenere le madri detenute e sta avendo grande
successo. Gli esempi sono molti: le iraniane non si lasciano intimidire
neppure se vengono imprigionate, torturate o licenziate».
Che Iran conoscerà suo nipote?
«Spero che possa crescere e vivere in un Paese democratico e laico, dove ci sia poca differenza tra poveri e ricchi»
Che accoglienza sta ricevendo il suo libro, la storia della sua vita?
«Per
fortuna molto buona, ha avuto ottime recensioni. È stato tradotto in
inglese, francese, tedesco e arabo. Tra un anno ci saranno anche altre
lingue. Non può circolare in Iran, ma spero che le donne dei paesi
islamici regionali possano leggere la versione araba».
Sarà tradotto anche in ebraico?
«Finora il mio editore non me ne ha parlato, io però, nel profondo del mio cuore, spero di sì».