La Stampa 11.5.16
Il Salone del libro riapre ai cittadini la piazza della politica
di Ernesto Ferrero
Direttore editoriale del Salone del Libro di Torino
Ci
è toccato di vivere nell’epoca storica a più alto tasso di complessità.
Nel giro di pochi anni una finanza tossica e incontrollata ha provocato
danni incalcolabili. Metà della ricchezza mondiale è concentrata nelle
mani di una ristrettissima élite. I fondamentalismi religiosi hanno
acceso fanatismi distruttivi che credevamo appartenessero a un passato
defunto. Guerre efferate provocano slittamenti di interi continenti
etnici. L’Europa incompiuta e farraginosa che dovrebbe gestirli appare
in crisi di leadership e di idee. Demagogie, isolazionismi,
particolarismi locali conquistano agevolmente soggetti deboli e
impauriti. La democrazia è sempre meno partecipata, l’astensionismo è
sempre più sconfortato o irritato, l’antipolitica è la figlia naturale
della politica che è stata fatta per troppo tempo.
Tutto questo si
può condensare in due parole: crisi di civiltà, che a sua volta nasce
da una profonda crisi culturale. Non se ne esce opponendo violenza a
violenza o barricandosi in casa, ma ripensando criticamente la storia
recente, gli errori commessi, le carenze non colmate, e avviando un
lavoro culturale lungo, paziente, determinato, frutto di un progetto di
ampio respiro. I primi a dirlo sono proprio gli ospiti internazionali
che animano il focus dedicato alle culture arabe, al centro del Salone
del libro che si apre domani al Lingotto. Testimoni di drammi, tragedie,
conflitti, repressioni, ma anche di mutamenti nascosti sotto la
cronaca, della necessità di tenere aperto il dialogo e accesa la
speranza.
Le loro opere esemplificano bene il motivo conduttore
che il Salone si è dato: la visionarietà, la capacità di guardare oltre
le contingenze del presente per prefigurare e attuare progetti che
favoriscano in primo luogo l’indispensabile crescita culturale. Tutto il
resto arriverebbe di conseguenza. Lo dice benissimo il poeta siriano
Adonis: il linguaggio letterario non presenta le cose come fossero
realtà o certezze, ma possibilità, probabilità, potenzialità. Visioni
talvolta profetiche, immagini che si trasformano in strumenti d’indagine
che conducono ad altre indagini. È la ricerca senza fine della luce,
ovunque si trovi.
Il Salone non documenta soltanto lo stato
dell’arte di comparto industriale che tiene il campo, malgrado le
difficoltà. Attraverso il contributo di migliaia di voci d’ogni Paese è
soprattutto un momento di riflessione e confronto sul dove siamo e dove
vogliamo andare. È un modo per riaffermare che la cultura non è qualcosa
che riguarda un ristretto manipolo di autori, studiosi e editori, non è
un ghetto specialistico e polveroso, querulo e un po’ inconcludente. È
una delle grandi priorità nazionali, forse la prima, quella che presiede
alla formazione e alla manutenzione di cittadini che hanno da essere
consapevoli, informati e criticamente attivi se non vogliono rassegnarsi
a un destino neocoloniale, malgrado la grande storia che hanno alle
spalle.
Fa bene il ministro Franceschini a sottolineare le valenze
e le potenzialità economiche di un ministero dei Beni Culturali, che i
governi della Repubblica avevano sin qui colpevolmente trascurato. Ma
c’è qualcosa di più importante delle ricadute economiche. Al Lingotto,
di qualunque cosa si parli, per cinque giorni si torna a fare politica
nel senso più bello e più alto del termine. I lettori-cittadini tornano a
sentirsi parte di una polis che sentono loro e li riguarda in prima
persona. Provano il piacere della conoscenza, l’allegria di condividere
gli stessi interessi. Ogni anno si crea un’effervescenza che è assai
simile a quella del sentimento amoroso. Readers in love. Sarebbe bello
tenerlo in vita per gli altri 360 giorni, trovare i modi per
trasformarlo in energia visionaria, propositiva. Per guardare seriamente
più in là.