martedì 10 maggio 2016

La Stampa 10.5.15
Un orrore al giorno leva il rimorso di torno
Le grandi tragedie del nostro tempo ci appassionano perché investono la nostra facoltà immaginativa lasciando inattiva quella morale: dal nuovo saggio di Scurati
di Antonio Scurati

Nella primavera del 2007 è accaduto che molti cittadini degli Stati Uniti d’America, comodamente seduti ai tavolini di Starbucks, abbiano sorseggiato il loro finto espresso macchiato-caldo mentre leggevano di corpi dilaniati su cui volano sciami di mosche «talmente eccitate e intossicate che vanno a morire gettandosi nelle pozze di sangue».
Il libro più venduto negli Stati Uniti nella primavera del 2007 fu, infatti, Memorie di un bambino soldato, di Ishmael Beah, in cui l’autore rievocava la sua adolescenza di guerriero e assassino, arruolato a forza dai ribelli durante la guerra civile del 1993 in Sierra Leone. Beah aveva tredici anni quando, nel silenzio della comunità internazionale e dei mass media, i ribelli s’impadronirono della zona diamantifera e v’instaurarono un regno del terrore, amputando gambe, braccia, orecchie e naso a più di trentamila persone. Quattordici anni dopo, le sue memorie appaiono in Usa con un’impressionante prima tiratura e scalano immediatamente le classifiche di vendita. Perfino la catena Starbucks, uno dei simboli internazionali dell’iperconsumismo gaudente - pur vendendo caffè, non libri - ne prenota 100.000 copie.
Come si spiega un paradosso del genere? Con un risveglio della coscienza di un popolo fino ad allora indifferente alle tragedie africane e poi, tutto a un tratto, attento e partecipe?
Salman Rushdie ha una sua spiegazione per lo straordinario successo che, sempre più spesso, ottengono negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale i libri che raccontano le sofferenze di popolazioni coinvolte in guerre o in tragedie umanitarie lontane e dimenticate: gli occidentali sopperirebbero al loro bisogno di sapere, disatteso da giornali e tv, ricorrendo alla letteratura. Auguriamoci che Rushdie abbia ragione, ma qualcosa non torna nella sua spiegazione.
I criteri di notiziabilità
È risaputo, oramai, che i criteri di notiziabilità - quel complesso di requisiti che gli eventi devono avere per diventare notizie - non sono relativi soltanto al fatto in sé ma anche, e soprattutto, al modo in cui è organizzato il lavoro giornalistico, al linguaggio specifico del mezzo che presenta la notizia, alla notizia in quanto prodotto da vendere sul mercato dell’informazione. La «nazionalizzazione» e la «personalizzazione» aumentano il valore di notiziabilità di un accadimento perché suscitano l’interesse del pubblico e perché consentono di inserire il fatto in una struttura narrativa drammatica.
Per questi motivi, si parla di una malattia africana solo se colpisce un italiano, o s’informa efficacemente sulla tragedia di un popolo solo se riconducibile al dramma di un solo individuo come nel caso del povero, piccolo Aylan per la tragedia del popolo siriano. Ma, anche stando così le cose, sorprende che i mezzi d’informazione non trovino il modo di raccontare in forme avvincenti la crisi alimentare in Etiopia che spinge masse di migranti verso l’Europa o l’endemica emergenza criminale in Campania; stupisce che i direttori di giornali e tg siano più cinici dei loro lettori e spettatori, i quali poi corrono a centinaia di migliaia a comprare i libri di Beah o di Saviano.
Verosimilmente, il problema sta altrove. La faction, oggi tanto di moda, l’impasto di artifici drammaturgici e materia narrativa ad alto tasso di contenuti informativi, forse non indica un desiderio del pubblico di essere messo di fronte alla tragedia dell’Africa, della Siria o della camorra. Al contrario, l’esperienza che si fa, a livello di consumo di massa, di guerre, pandemie, crisi umanitarie, quando filtrate da un docudrama o da un romanzo-verità, forse rientra anch’essa in quella diffusissima cultura del diniego che consente a tutti noi di restare inerti di fronte alle immagini del dolore trasmesse ogni giorno dai mass media e ai nostri governi di negare le loro responsabilità di fronte agli orrori, accadano essi in luoghi remoti del mondo o entro i confini del «nostro» mondo.
La denegazione
Forse si tratta ancora di quel meccanismo psichico che Freud definiva denegazione: un ritorno soltanto parziale del rimosso. Le grandi tragedie del nostro tempo, rimosse per decenni dalla coscienza collettiva perché oscurate dai mezzi d’informazione, avrebbero nella faction un ritorno solo affabulatorio. Investirebbero, cioè, in pieno la facoltà immaginativa dei lettori, lasciando però inattive le facoltà intellettive e morali.
Gli orrori reali supererebbero, così, il doppio filtro di rifiuto e disinteresse ma a patto di essere fruiti con le modalità dei prodotti di finzione. Le accorate denunce verrebbero in soccorso al diniego funzionando come «allucinazioni positive» (fantasie, miti, favole), rischiando così di fornirci un alibi per continuare a rimanere inerti sul piano dell’agire politico e civile. Come a dire: dopo che la mia nazione, e io stesso, abbiamo colpevolmente ignorato le tragedie africane o mediorientali, e continuiamo a farlo anche ora, mi purifico la coscienza appassionandomi al singolo caso, ben raccontato, di un ex bambino guerriero o di un bambino cadavere. Insomma, una forma più sottile, e più perversa, di rimozione.
Questa sofisticata forma di remissività nei confronti della sofferenza mediatizzata di popoli stranieri, la ritroveremmo poi all’opera anche di fronte alla sofferenza del nostro popolo. Non si spiegherebbe altrimenti come la coscienza europea abbia potuto digerire nel giro di pochi mesi il presunto trauma per le stragi di Parigi dello scorso novembre e stia facendo lo stesso con quelle di Bruxelles dello scorso marzo.
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