La Stampa 10.5.15
Un orrore al giorno leva il rimorso di torno
Le
grandi tragedie del nostro tempo ci appassionano perché investono la
nostra facoltà immaginativa lasciando inattiva quella morale: dal nuovo
saggio di Scurati
di Antonio Scurati
Nella
primavera del 2007 è accaduto che molti cittadini degli Stati Uniti
d’America, comodamente seduti ai tavolini di Starbucks, abbiano
sorseggiato il loro finto espresso macchiato-caldo mentre leggevano di
corpi dilaniati su cui volano sciami di mosche «talmente eccitate e
intossicate che vanno a morire gettandosi nelle pozze di sangue».
Il
libro più venduto negli Stati Uniti nella primavera del 2007 fu,
infatti, Memorie di un bambino soldato, di Ishmael Beah, in cui l’autore
rievocava la sua adolescenza di guerriero e assassino, arruolato a
forza dai ribelli durante la guerra civile del 1993 in Sierra Leone.
Beah aveva tredici anni quando, nel silenzio della comunità
internazionale e dei mass media, i ribelli s’impadronirono della zona
diamantifera e v’instaurarono un regno del terrore, amputando gambe,
braccia, orecchie e naso a più di trentamila persone. Quattordici anni
dopo, le sue memorie appaiono in Usa con un’impressionante prima
tiratura e scalano immediatamente le classifiche di vendita. Perfino la
catena Starbucks, uno dei simboli internazionali dell’iperconsumismo
gaudente - pur vendendo caffè, non libri - ne prenota 100.000 copie.
Come
si spiega un paradosso del genere? Con un risveglio della coscienza di
un popolo fino ad allora indifferente alle tragedie africane e poi,
tutto a un tratto, attento e partecipe?
Salman Rushdie ha una sua
spiegazione per lo straordinario successo che, sempre più spesso,
ottengono negli Stati Uniti e nel resto del mondo occidentale i libri
che raccontano le sofferenze di popolazioni coinvolte in guerre o in
tragedie umanitarie lontane e dimenticate: gli occidentali
sopperirebbero al loro bisogno di sapere, disatteso da giornali e tv,
ricorrendo alla letteratura. Auguriamoci che Rushdie abbia ragione, ma
qualcosa non torna nella sua spiegazione.
I criteri di notiziabilità
È
risaputo, oramai, che i criteri di notiziabilità - quel complesso di
requisiti che gli eventi devono avere per diventare notizie - non sono
relativi soltanto al fatto in sé ma anche, e soprattutto, al modo in cui
è organizzato il lavoro giornalistico, al linguaggio specifico del
mezzo che presenta la notizia, alla notizia in quanto prodotto da
vendere sul mercato dell’informazione. La «nazionalizzazione» e la
«personalizzazione» aumentano il valore di notiziabilità di un
accadimento perché suscitano l’interesse del pubblico e perché
consentono di inserire il fatto in una struttura narrativa drammatica.
Per
questi motivi, si parla di una malattia africana solo se colpisce un
italiano, o s’informa efficacemente sulla tragedia di un popolo solo se
riconducibile al dramma di un solo individuo come nel caso del povero,
piccolo Aylan per la tragedia del popolo siriano. Ma, anche stando così
le cose, sorprende che i mezzi d’informazione non trovino il modo di
raccontare in forme avvincenti la crisi alimentare in Etiopia che spinge
masse di migranti verso l’Europa o l’endemica emergenza criminale in
Campania; stupisce che i direttori di giornali e tg siano più cinici dei
loro lettori e spettatori, i quali poi corrono a centinaia di migliaia a
comprare i libri di Beah o di Saviano.
Verosimilmente, il
problema sta altrove. La faction, oggi tanto di moda, l’impasto di
artifici drammaturgici e materia narrativa ad alto tasso di contenuti
informativi, forse non indica un desiderio del pubblico di essere messo
di fronte alla tragedia dell’Africa, della Siria o della camorra. Al
contrario, l’esperienza che si fa, a livello di consumo di massa, di
guerre, pandemie, crisi umanitarie, quando filtrate da un docudrama o da
un romanzo-verità, forse rientra anch’essa in quella diffusissima
cultura del diniego che consente a tutti noi di restare inerti di fronte
alle immagini del dolore trasmesse ogni giorno dai mass media e ai
nostri governi di negare le loro responsabilità di fronte agli orrori,
accadano essi in luoghi remoti del mondo o entro i confini del «nostro»
mondo.
La denegazione
Forse si tratta ancora di quel
meccanismo psichico che Freud definiva denegazione: un ritorno soltanto
parziale del rimosso. Le grandi tragedie del nostro tempo, rimosse per
decenni dalla coscienza collettiva perché oscurate dai mezzi
d’informazione, avrebbero nella faction un ritorno solo affabulatorio.
Investirebbero, cioè, in pieno la facoltà immaginativa dei lettori,
lasciando però inattive le facoltà intellettive e morali.
Gli
orrori reali supererebbero, così, il doppio filtro di rifiuto e
disinteresse ma a patto di essere fruiti con le modalità dei prodotti di
finzione. Le accorate denunce verrebbero in soccorso al diniego
funzionando come «allucinazioni positive» (fantasie, miti, favole),
rischiando così di fornirci un alibi per continuare a rimanere inerti
sul piano dell’agire politico e civile. Come a dire: dopo che la mia
nazione, e io stesso, abbiamo colpevolmente ignorato le tragedie
africane o mediorientali, e continuiamo a farlo anche ora, mi purifico
la coscienza appassionandomi al singolo caso, ben raccontato, di un ex
bambino guerriero o di un bambino cadavere. Insomma, una forma più
sottile, e più perversa, di rimozione.
Questa sofisticata forma di
remissività nei confronti della sofferenza mediatizzata di popoli
stranieri, la ritroveremmo poi all’opera anche di fronte alla sofferenza
del nostro popolo. Non si spiegherebbe altrimenti come la coscienza
europea abbia potuto digerire nel giro di pochi mesi il presunto trauma
per le stragi di Parigi dello scorso novembre e stia facendo lo stesso
con quelle di Bruxelles dello scorso marzo.
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