Corriere 10.5.16
L’Est europeo congelato
I comunisti imposero lo stesso sistema a otto Paesi dalla storia assai diversa
di Paolo Mieli
Si
 tratta di un caso pressoché unico nella storia. Gli otto Paesi europei 
(Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Germania orientale, Romania, 
Bulgaria, Albania e Jugoslavia) occupati, in tutto o parzialmente, nel 
1945 dall’Armata Rossa, avevano culture, tradizioni politiche e 
strutture economiche del tutto diverse. I loro regimi politici erano 
stati assai diversi tra loro, erano abitati da cattolici, ortodossi, 
protestanti, ebrei e musulmani che parlavano lingue slave, neolatine, 
ugrofinniche e germaniche. Includevano russofili e russofobi, la Boemia 
industrializzata e l’Albania rurale, la Berlino cosmopolita e piccoli 
villaggi di case in legno nei Carpazi. Fra loro c’erano ex sudditi degli
 imperi austro-ungarico, prussiano e ottomano, oltre che di quello 
russo. Eppure trascorsero pochi mesi, al massimo qualche anno, e 
divennero parte di un’unica realtà: l’Europa dell’Est. Come fu 
possibile? È la domanda alla quale prova a dare una risposta un nuovo 
straordinario libro di Anne Applebaum, La cortina di ferro. La disfatta 
dell’Europa dell’Est, 1944-1956 , che sta per essere pubblicato da 
Mondadori.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, quegli otto Paesi 
hanno ripreso ognuno il proprio cammino, mettendo tra parentesi la 
stagione comunista. Ciò che fu relativamente agevole dal momento che, 
nota l’autrice, quelle realtà «prima del 1945 non erano mai state unite 
in nessun modo». E, a parte la memoria storica del comunismo, «è 
straordinario quanto poco le accomuni tuttora». Ma dopo la fine della 
Seconda guerra mondiale il loro aspetto cambiò in un attimo: le città 
disseminate dalle rovine «erano tutte pattugliate dagli stessi tipi di 
arcigni poliziotti, progettate dagli stessi architetti fedeli al 
realismo socialista e ricoperte da manifesti di propaganda del medesimo 
genere». Persino in Unione Sovietica, osserva la Applebaum, «lo sviluppo
 di uno Stato totalitario aveva richiesto due decenni e s’era trattato 
di un processo discontinuo». Nell’Europa dell’Est, no. Tutto avvenne — 
potenza dello stalinismo e in particolare della polizia politica 
sovietica (Nkvd) — in un batter d’occhio. Sulle prime Stalin fu convinto
 che in quei Paesi avrebbe governato per interposto partito comunista 
grazie al consenso degli elettori. Poi, però, i comunisti persero le 
elezioni in Germania, Austria, Ungheria, un referendum in Polonia e a 
quel punto si convinsero che, anche là dove, come in Cecoslovacchia, 
alle urne erano andati meglio, sarebbero stati più al sicuro se avessero
 instaurato regimi dittatoriali. E così fu, nella sostanziale 
indifferenza dell’Occidente, che riteneva essere quello un prezzo da 
pagare al contributo dato dai sovietici alla vittoria su Hitler. 
Mostruoso, se si considera che uno di quegli otto Paesi, la Polonia, 
aveva subito nel settembre del 1939 una doppia invasione, dai tedeschi e
 dai sovietici, ed era stato per difenderne la libertà che Francia e 
Inghilterra avevano dichiarato guerra a Hitler.
Si poteva 
prevedere che le cose sarebbero andate in questo modo? No. Il presidente
 americano Franklin D. Roosevelt aveva peccato di ingenuità e nel 1944 
aveva invitato il leader polacco in esilio Stanislaw Mikolajczyk a non 
preoccuparsi: «Stalin non intende privare la Polonia della libertà; non 
oserebbe perché sa che il governo degli Stati Uniti è compatto dietro di
 voi». Winston Churchill aveva idee più chiare e nella primavera del 
1945, alla vigilia della conclusione del conflitto, ordinò ai suoi 
strateghi di studiare la possibilità di un attacco alleato alle forze 
sovietiche in Europa centrale, usando eventualmente truppe polacche e 
persino tedesche. Un piano a tal punto ardito da essere denominato 
Operation Unthinkable («Operazione impensabile»), ma presto accantonato 
perché ritenuto dallo stesso leader inglese «irrealistico». Stalin capì 
immediatamente che nessuno si sarebbe opposto al suo esercito e si mosse
 di conseguenza. «I russi», scrisse George Kennan — il diplomatico 
statunitense che avrebbe auspicato la «politica del containment », del 
contenimento cioè dell’espansionismo sovietico — «hanno fatto tabula 
rasa della popolazione locale come nessun altro dai tempi delle orde 
asiatiche».
Non fu solo con le armi che i sovietici si 
impadronirono dell’Europa orientale. La cosa più importante fu 
comprendere, prima di altri, l’importanza della conquista dei giovani. A
 cominciare dalla Germania. I ragazzi, che pure si erano lasciati 
sedurre abbastanza rapidamente dai nazisti, con i comunisti ebbero 
tuttavia un atteggiamento più refrattario. Lo capì immediatamente il 
trentatreenne Erich Honecker, che aveva avuto dal capo del partito 
Walter Ulbricht il mandato di ricondurli all’ovile. A dire il vero, 
prima di lui lo stesso incarico lo aveva avuto Wolfgang Leonhard, che 
però si era entusiasmato per l’attivismo delle organizzazioni spontanee 
antifasciste di cui aveva avuto occasione di ammirare le grandi capacità
 operative nella rimozione delle macerie e nell’allestimento di 
orfanotrofi: «In mezz’ora si combinava di più che in tutte le 
interminabili riunioni cui ero abituato in Russia», scrisse. Ma Ulbricht
 diede ordine di sciogliere immediatamente quei gruppi giovanili 
spontanei: tutto doveva essere riconducibile al Partito comunista. Il 
quale partito reclutò alla bisogna Robert Bialek, già piegato dalla 
circostanza che militari sovietici gli avevano stuprato la moglie. 
Bialek elaborò un piano, che piacque all’istante sia a Honecker che a 
Ulbricht, per il reclutamento in Sassonia degli ex dirigenti della 
Gioventù hitleriana: «Potremmo decretarne l’ostracismo», spiegò, «ma non
 riusciremmo a cancellare nemmeno per ordine del maresciallo Žukov 
l’autorità che questi leader hanno esercitato»
Nonostante 
l’arruolamento degli ex nazisti, però, le associazioni cattoliche 
apparivano assai più attraenti per i giovani tedeschi. Il partito 
reclutò allora il cattolico Manfred Klein, mentre era ancora recluso in 
un campo di prigionia sovietico: a lui fu chiesto di organizzare un 
movimento «spontaneo» a favore di un’associazione giovanile tedesca 
«unitaria». Il congresso per la nascita di tale organizzazione — che 
doveva includere anche i cattolici — si tenne a Brandeburgo nel 1946. I 
dirigenti comunisti avrebbero voluto, oltre alla stragrande maggioranza 
dei posti di comando (che ottennero), un marcato ridimensionamento dei 
leader giovanili che rispondevano alle gerarchie vaticane. In un 
incontro riservato, Bialek li rassicurò: «Non preoccupatevi, assesteremo
 alle Chiese dieci colpi al giorno, finché non saranno a terra; e quando
 avremo di nuovo bisogno di loro, le coccoleremo». Parole che furono 
riferite a Klein, il quale puntò i piedi e cercò di mandare a monte 
l’unificazione. Ma poi un ufficiale sovietico, il maggiore Beylin, lo 
convinse a tornare sui suoi passi promettendogli un certo grado di 
autonomia. Il dirigente si lasciò persuadere, ma rimase sospettoso. E si
 andò avanti così finché, il 13 marzo del 1947, l’Nkvd arrestò Klein e 
lo condannò alla reclusione in un campo di lavoro in Unione Sovietica, 
dove sarebbe rimasto nove anni.
In Polonia la prima offensiva 
comunista fu contro la sezione polacca dell’organizzazione cristiana 
ecumenica Ymca (Young Men’s Christian Association) fondata a Varsavia 
nel 1923 e successivamente messa al bando da Hitler. Le sue sedi a 
Danzica, Cracovia, Lodz e Varsavia attiravano una grande quantità di 
giovani desiderosi di apprendere l’inglese, ritrovarsi a discutere di 
argomenti culturali, fare e ascoltare musica, giocare a biliardo e 
scambiarsi vestiti usati. Il romanziere Leopold Tyrmand scrisse che alla
 sede dell’Ymca si trovava l’«autentica civiltà nel bel mezzo di una 
Varsavia devastata, trogloditica, una città in cui si viveva in topaie».
 Nel 1949 le autorità comuniste dichiararono l’Ymca uno «strumento del 
fascismo borghese» e la sciolsero. Contemporaneamente i comunisti si 
indirizzarono contro il movimento degli scout (che pure aveva preso 
parte alla Resistenza): ai ragazzi fu imposto di giurare non più di 
porsi al «servizio di Dio», bensì della «Polonia democratica» e di 
dichiararsi pronti alla battaglia per «la pace e la libertà delle 
nazioni». Nel 1947 iniziarono gli arresti dei dirigenti scout (alcuni si
 suicidarono) e nel giro di due o tre anni il movimento fu distrutto.
In
 Ungheria il gruppo cattolico Kalot ebbe nell’immediato dopoguerra un 
successo infinitamente maggiore di quello ottenuto dai comunisti. Nel 
giugno del 1946 ci fu uno strano delitto all’Oktogon, un incrocio al 
centro di Budapest, dove furono uccisi due militari russi e una donna 
definita dal quotidiano del partito comunista «Szabad Nép» una «ragazza 
della classe operaia ungherese». Gli inquirenti trovarono poco dopo il 
corpo carbonizzato di István Pénzes, appartenente al Kalot (anche se uno
 dei capi del Partito dei piccoli proprietari, Ferenc Nagy, affermò 
successivamente che apparteneva in realtà a un gruppo giovanile 
socialdemocratico), accusato di essere l’autore dell’attentato. Ciò che 
servì alle autorità per incitare i ragazzi ad aderire alla 
comunistissima Madisz, l’Alleanza della gioventù democratica ungherese, 
voluta da Mátyás Rákosi e Ernoe Geroe. Che però, come negli altri Paesi 
europei dell’Est, non ottenne i successi sperati. Per colpa della 
«cattiva propaganda», si giustificarono i dirigenti, e della presenza di
 «troppi ebrei».
Fu il ministro dell’interno Lázsló Rajk che 
risolse il caso con una violenta offensiva contro tutte le associazioni 
che rifiutavano di venire a patti con la Madisz, accusandole di essere 
«fasciste». Tutte, comprese l’Associazione navale ungherese, alcuni club
 di caccia, l’Associazione combattenti, e quella dei lavoratori del 
tabacco cristiano-democratici. Stessa sorte subirono i Collegi popolari,
 che si erano dati il compito di educare i figli dei contadini e 
promuovere dibattiti culturali nelle città. La triste fine di queste 
istituzioni sarebbe stata ben descritta dal film di Miklós Jancso Venti 
lucenti (1968).
L’ultima offensiva dei comunisti ungheresi fu 
quella del 1947 contro il Kalot. Alcuni dirigenti cattolici avrebbero 
voluto piegarsi al regime, altri volevano resistere. Tutti furono 
imprigionati da Rajk, parecchi furono mandati a morte e nel 1950 si ebbe
 la definitiva «fusione» dei movimenti giovanili in un’unica 
associazione. A sua volta anche Rajk finì nel tritacarne staliniano: nel
 1949 fu arrestato, processato (se così si può dire) e, nel giro di 
quattro mesi, mandato a morte.
Sette anni dopo, a seguito delle 
rivelazioni di Krusciov sui crimini staliniani, la vedova di Rajk, 
Júlia, uscita dal carcere solo sei mesi prima, chiese la riabilitazione 
del marito. E propose nel contempo un imbarazzante paragone tra il 
regime ungherese quasi fascista e quello comunista: «Voglio che sappiate
 che le prigioni di Horthy erano molto meglio di quelle di Rákosi».
I
 sovietici corsero ai ripari. Concessero alla vedova la sepoltura del 
marito («benché egli stesso fosse stato a capo di una polizia segreta 
omicida, responsabile di migliaia di morti e arresti», puntualizza Anne 
Applebaum) nel cimitero di Kerepesi accanto agli eroi nazionali 
ungheresi. Consigliarono a Rákosi di sottoporsi a cure mediche in 
Kirghizistan, dove avrebbe vissuto i suoi ultimi quindici anni di vita. E
 lo sostituirono con il suo braccio destro Geroe.
Era il giugno 
del 1956. Di lì a qualche mese i carri armati sovietici sarebbero 
intervenuti a domare la rivoluzione ungherese. Poi sarebbero trascorsi 
altri trentatré lunghissimi anni prima che, assieme al Muro di Berlino, 
andasse in frantumi l’intera Europa dell’Est. E quegli otto Paesi 
tornassero ad avere una storia a sé.
paolo.mieli
 
