La Stampa 10.5.15
I magistrati e l’opportunità del silenzio
di Vladimiro Zagrebelsky
Toccano
 una questione non nuova le polemiche attorno agli interventi di singoli
 magistrati o di loro gruppi associativi sulla riforma della 
Costituzione.
Riforma che, approvata dal Parlamento, sarà 
sottoposta a referendum per la sua conferma o reiezione. Anche 
all’interno della magistratura, la presa di posizione politica singola o
 collettiva da parte dei magistrati è oggetto di opposte valutazioni, 
che risalgono già alla fine degli Anni 60, quando l’associazionismo 
giudiziario si fece vivace (ed anche fecondo). La rivendicazione del 
diritto di prendere posizione e partecipare alla lotta politica fu ed è 
rimasta un singolare carattere proprio del gruppo di Magistratura 
Democratica.
Ora la questione si ripresenta e tende a essere 
discussa secondo lo schema che oppone il lecito (una libertà) 
all’illecito (una violazione sanzionabile). Si tratta di uno schema 
ormai prevalente nel dibattito politico italiano, ove spesso le condotte
 che non sono sanzionate (penalmente, con sentenze definitive) sono 
ritenute lecite e senza alcuna possibile conseguenza. Così, in difesa 
delle prese di posizione dei magistrati, si fa valere il diritto alla 
libertà di espressione, garantito a tutti dalla Costituzione. Si tratta 
però di un diritto che non è privo di limiti, che non riguardano solo i 
magistrati. Ma soprattutto la riduzione della questione al piano del 
diritto, nella sua veste sanzionatoria, distoglie l’attenzione (e la 
polemica) dal terreno più rilevante, che indica invece i cardini del 
tema nell’opposizione tra l’opportuno e l’inopportuno. Per chiarezza va 
detto che quest’ultimo terreno è anche più delicato e importante del 
primo legato alla sola legalità/sanzionabilità. Che non tutto ciò che è 
lecito sia anche opportuno è affermazione ovvia, così come lo è la 
severità della condanna di una condotta inopportuna, che può essere 
addirittura maggiore di quella dipendente dalla sola legalità.
Piuttosto
 che la distinzione tra le dichiarazioni di carattere politico e quelle 
che politiche non sarebbero, bisognerebbe considerare il legame che la 
condotta del magistrato ha con la sua funzione, per vedere se questa sia
 utilmente richiamata o sia invece strumentalizzata. Il primo caso si ha
 quando l’intervento del magistrato riguarda ciò che è legato alla sua 
specifica esperienza, che altri non potrebbe avere. Così ad esempio le 
Commissioni parlamentari procedono ad audizione di magistrati su temi su
 cui la loro esperienza è rilevante. I magistrati poi da sempre 
collaborano efficacemente a riviste e convegni giuridici. Ma 
l’intervento del magistrato nel largo pubblico su problemi di natura 
generale, proprio perché espressivo della sua esperienza, è non solo 
lecito ma anche utile a formare un’opinione pubblica consapevole. Un 
esempio può essere quello recente che ha visto magistrati dichiarare e 
attestare che è inutile e anzi controproducente il mantenimento del 
reato di ingresso illegale nel territorio dello Stato.
Ma, venendo
 all’intervento di magistrati nel dibattito attorno alla riforma della 
Costituzione, quale è il legame di esperienza che giustifica le prese di
 posizione? Prese di posizione che sono naturalmente di natura politica e
 non tecnica. Esse, anche se fatte da singoli, coinvolgono la 
magistratura nella contrapposizione al Parlamento e al Governo fattosi 
costituente, nell’appello al popolo cui appartiene la sovranità. Senza 
offesa per chi ha già pubblicizzato la sua posizione, è difficile 
attendersi da parte del magistrato argomenti nuovi o più efficacemente 
esposti, rispetto a quelli che già tanti e tanto autorevoli esperti 
hanno reso pubblici. E allora c’è da chiedersi quale sia l’apporto dato 
al dibattito dal fatto che chi parla è un magistrato. La risposta rinvia
 alla qualità stessa di chi interviene, alla funzione svolta, alla 
credibilità assegnata alla istituzione di cui il magistrato è parte. In 
assenza di argomentazioni radicate nell’esperienza specifica del 
magistrato, la diversità dell’intervento del magistrato - e tanto più di
 un gruppo - sta proprio nella chiamata in appoggio della funzione 
giudiziaria svolta. Non si tratta dunque di messa a disposizione del 
dibattito pubblico di ciò che si è appreso e maturato nell’esercizio 
delle funzioni svolte, ma di uso improprio della particolare funzione 
che la Costituzione assegna alla magistratura. Che quest’ultima sia 
impropriamente e inopportunamente messa in campo, sperando che pesi 
nella discussione, è dimostrato dal fatto che nessun media che dia conto
 di interventi di magistrati ometta di citarne la funzione (procuratore 
della Repubblica, giudice, consigliere del Csm, ecc.): non parla infatti
 il cittadino, ma il magistrato in quanto tale e perché è tale. Sarebbe 
bene che non lo facesse.
 
