martedì 10 maggio 2016

La Stampa 10.5.15
I magistrati e l’opportunità del silenzio
di Vladimiro Zagrebelsky

Toccano una questione non nuova le polemiche attorno agli interventi di singoli magistrati o di loro gruppi associativi sulla riforma della Costituzione.
Riforma che, approvata dal Parlamento, sarà sottoposta a referendum per la sua conferma o reiezione. Anche all’interno della magistratura, la presa di posizione politica singola o collettiva da parte dei magistrati è oggetto di opposte valutazioni, che risalgono già alla fine degli Anni 60, quando l’associazionismo giudiziario si fece vivace (ed anche fecondo). La rivendicazione del diritto di prendere posizione e partecipare alla lotta politica fu ed è rimasta un singolare carattere proprio del gruppo di Magistratura Democratica.
Ora la questione si ripresenta e tende a essere discussa secondo lo schema che oppone il lecito (una libertà) all’illecito (una violazione sanzionabile). Si tratta di uno schema ormai prevalente nel dibattito politico italiano, ove spesso le condotte che non sono sanzionate (penalmente, con sentenze definitive) sono ritenute lecite e senza alcuna possibile conseguenza. Così, in difesa delle prese di posizione dei magistrati, si fa valere il diritto alla libertà di espressione, garantito a tutti dalla Costituzione. Si tratta però di un diritto che non è privo di limiti, che non riguardano solo i magistrati. Ma soprattutto la riduzione della questione al piano del diritto, nella sua veste sanzionatoria, distoglie l’attenzione (e la polemica) dal terreno più rilevante, che indica invece i cardini del tema nell’opposizione tra l’opportuno e l’inopportuno. Per chiarezza va detto che quest’ultimo terreno è anche più delicato e importante del primo legato alla sola legalità/sanzionabilità. Che non tutto ciò che è lecito sia anche opportuno è affermazione ovvia, così come lo è la severità della condanna di una condotta inopportuna, che può essere addirittura maggiore di quella dipendente dalla sola legalità.
Piuttosto che la distinzione tra le dichiarazioni di carattere politico e quelle che politiche non sarebbero, bisognerebbe considerare il legame che la condotta del magistrato ha con la sua funzione, per vedere se questa sia utilmente richiamata o sia invece strumentalizzata. Il primo caso si ha quando l’intervento del magistrato riguarda ciò che è legato alla sua specifica esperienza, che altri non potrebbe avere. Così ad esempio le Commissioni parlamentari procedono ad audizione di magistrati su temi su cui la loro esperienza è rilevante. I magistrati poi da sempre collaborano efficacemente a riviste e convegni giuridici. Ma l’intervento del magistrato nel largo pubblico su problemi di natura generale, proprio perché espressivo della sua esperienza, è non solo lecito ma anche utile a formare un’opinione pubblica consapevole. Un esempio può essere quello recente che ha visto magistrati dichiarare e attestare che è inutile e anzi controproducente il mantenimento del reato di ingresso illegale nel territorio dello Stato.
Ma, venendo all’intervento di magistrati nel dibattito attorno alla riforma della Costituzione, quale è il legame di esperienza che giustifica le prese di posizione? Prese di posizione che sono naturalmente di natura politica e non tecnica. Esse, anche se fatte da singoli, coinvolgono la magistratura nella contrapposizione al Parlamento e al Governo fattosi costituente, nell’appello al popolo cui appartiene la sovranità. Senza offesa per chi ha già pubblicizzato la sua posizione, è difficile attendersi da parte del magistrato argomenti nuovi o più efficacemente esposti, rispetto a quelli che già tanti e tanto autorevoli esperti hanno reso pubblici. E allora c’è da chiedersi quale sia l’apporto dato al dibattito dal fatto che chi parla è un magistrato. La risposta rinvia alla qualità stessa di chi interviene, alla funzione svolta, alla credibilità assegnata alla istituzione di cui il magistrato è parte. In assenza di argomentazioni radicate nell’esperienza specifica del magistrato, la diversità dell’intervento del magistrato - e tanto più di un gruppo - sta proprio nella chiamata in appoggio della funzione giudiziaria svolta. Non si tratta dunque di messa a disposizione del dibattito pubblico di ciò che si è appreso e maturato nell’esercizio delle funzioni svolte, ma di uso improprio della particolare funzione che la Costituzione assegna alla magistratura. Che quest’ultima sia impropriamente e inopportunamente messa in campo, sperando che pesi nella discussione, è dimostrato dal fatto che nessun media che dia conto di interventi di magistrati ometta di citarne la funzione (procuratore della Repubblica, giudice, consigliere del Csm, ecc.): non parla infatti il cittadino, ma il magistrato in quanto tale e perché è tale. Sarebbe bene che non lo facesse.