Repubblica 10.5.16
La libertà di parola dei magistrati sul referendum
di Giancarlo De Cataldo
Giancarlo
De Cataldo è giudice di Corte di Assise a Roma, ma è anche famoso come
scrittore. Il suo libro Romanzo Criminale ha ispirato un film e una
serie tv
Caro direttore, alcune prese di posizione di
magistrati sulla vicenda referendaria hanno dato l’avvio a un serrato
dibattito, nel quale sono risuonati echi dell’annosa contrapposizione
(c’è chi la chiama guerra) fra politica e magistratura. Per la verità,
tranne pochi estemporanei pasdaran, nessuno fra gli esponenti politici
intervenuti ha sostenuto che si debba vietare ai giudici di esprimere le
proprie idee. Il richiamo, semmai, è alla categoria dell’”opportunità”:
non è vietato esprimersi, ma è inopportuno, per esempio, che una
corrente della magistratura si schieri apertamente per il “no” al
referendum, o, peggio, che aderisca a questo o a quel comitato, ancorché
animato da insigni esperti della materia. L’opportunità sembra essere
dunque l’ultima frontiera fra ciò che è consentito e non sarebbe
illecito, ma, diciamo così, vivamente sconsigliato. La novità è che, di
solito, l’opportunità viene invocata quando si verte in materia di
valutazione strettamente politica, o per sottolineare aspetti
“eccentrici” della vita privata dell’uomo pubblico, o per rimarcare
condotte che potrebbero apparire pregiudizievoli all’immagine di questo o
di quel magistrato, di questo o di quel politico. Niente a che vedere
con un referendum decisivo per il nostro destino comune di cittadini
italiani: magistrati inclusi. Perché fra qualche mese andremo a votare
per cambiare (o conservare) l’attuale Costituzione: ed è dunque
sacrosanto che ciascuno esprima, attraverso il voto, il proprio
gradimento o il proprio rifiuto. Ora, i magistrati, al pari dei
professori, degli avvocati, dei tecnici, insomma, dispongono di un
patrimonio di conoscenze specifiche che attribuisce alle loro
prospettazioni un valore del tutto particolare. E’, dunque, “opportuno”
che facciano sentire la propria voce? Non sarebbe la prima volta. I
giudici italiani furono attivi protagonisti nelle campagne referendarie
del 2000 e del 2006, anche allora schierandosi. Affermarono, in passato,
idee dissonanti con quelle delle maggioranze di centro-destra. Nessuno
ritenne “inopportuni” i loro interventi. Oggi dall’interno della
magistratura si levano voci dissonanti con l’attuale maggioranza di
centro-sinistra. Perché dovrebbero essere giudicate “inopportune”? La
sensazione è che non l’opinione del singolo, non l’adesione di una
corrente a un comitato siano in discussione, ma la persistenza di una
disallineamento fra politiche legislative e alcuni settori della
magistratura.
Se così fosse, l’opportunità sarebbe invocata invano.
Non
solo e non tanto perché alla fine decideranno i cittadini - e non certo
una “corporazione” che conta meno di diecimila individui - ma per il
semplice motivo che una perfetta sintonia fra politiche legislative e
valutazioni della magistratura non è ipotizzabile, a meno di non voler
riesumare l’antica pretesa del giudice “bocca della legge”: utopia
giacobina che appartiene a epoche remote. La ragione è ben nota agli
addetti ai lavori: giudicare significa necessariamente interpretare le
leggi. Non fosse così, non ci sarebbe bisogno di una Corte
Costituzionale che è chiamata a pronunciarsi proprio su questo, sulla
corrispondenza della legge in concreto ai principi della Carta. Che fra
politica e magistratura esista un fisiologico disallineamento risulta
confermato, in Italia, da esempi storici: il governo piemontese
postunitario adottò le leggi Pica per la repressione del brigantaggio
per vincere le resistenze di una magistratura sì di formazione
borbonica, ma “inquinata” dai principi iluministici della rivoluzione
napoletana del ’99; il Fascismo fu indotto a istituire tribunali
speciali perchè quelli ordinari, “inquinati” dal liberalismo
giolittiano, apparivano troppo blandi nella repressione degli avversari
politici. E i primi governi post-fascisti, analogamente, si trovarono a
dover dialettizzare con una magistratura fortemente “inquinata”
dall’eredità della dittatura. In questo quadro storico e culturale,
dunque, non c’è niente di inopportuno nello schierarsi per il “sì” o per
il “no”, e la stessa magistratura è divisa, non è quel monolite
granitico che alcuni rappresentano. Ma l’invocata categoria
dell’opportunità suggerisce altre riflessioni. “Opportunità” è un
termine scivoloso, inafferrabile. Delinea una zona grigia disancorata da
riferimenti precisi e - direbbero i giuristi - tipizzati. Una
valutazione rimessa al discernimento del singolo, e nello stesso tempo
potenzialmente soggetta a intervento censorio di organi di vigilanza e
controllo. Il rischio è che, in assenza di contorni nettamente
delineati, si tramuti in un’arma da brandire contro le voci dissenzienti
in quanto tali. O che il timore di essere giudicati “inopportuni”
induca all’autocensura e al silenzio. Si finirebbe così per preferire, a
una leale battaglia di idee professate a viso aperto, il mormorio
livoroso delle segrete stanze. Si finirebbe per preferire a uomini
orgogliosi delle proprie idee il trafficare di soggetti che millantano
di non possedere alcuna idea. Qualche giorno fa il Tribunale di Roma si è
aperto a una folla di ragazzi a cui, insieme ad artisti, scrittori,
giornalisti, molti magistrati hanno cercato di spiegare il senso
profondo di parole abusate come “legalità”. E’ stato un momento di
grande apertura. Ai ragazzi si è spiegato quanto sia importante lo
spirito critico, quanto sia decisivo lottare contro il pregiudizio. Noi
che c’eravamo siamo stati “inopportuni”? Secondo alcuni sì. Ma
sicuramente non siamo stati opportunisti.