giovedì 5 maggio 2016

Internazionale 1151 | 29.4.16
La salute non ha prezzo

Mandakini Gahlot e Vidya Krishnan, The Caravan, India. Foto di T. Vanden Driessche Da decenni l’India sida le multinazionali farmaceutiche occidentali garantendo anche ai più poveri l’accesso ai medicinali. Quello del farmaco contro l’epatite C è l’ultimo di una lunga serie di brevetti contestati. Ma qualcosa rischia di cambiare

La sede dell’ufficio generale di brevetti, design e marchi a New Delhi si trova nel quartiere di Dwarka, a 45 minuti di auto dai centri del potere della capitale. Il posto ha un’aria tranquilla, e nei pomeriggi d’inverno è facile vedere giovani impiegati che dopo pranzo prendono il sole sul prato. Nei due ediici al di là del prato, una trentina di funzionari esaminano le domande di brevetto presentate all’uicio. Molte sono respinte o approvate senza attirare particolare attenzione. Ma ogni tanto, in genere quando sono in gioco grosse somme di denaro, qualcuna cattura l’interesse dei mezzi d’informazione. In alcuni casi, anche se più rari, il verdetto può determinare il destino di decine di milioni di persone nel mondo. Uno di questi casi si è presentato nel luglio del 2014 a un funzionario di nome Hardev Karar. La società farmaceutica statunitense Gilead Sciences voleva brevettare un farmaco chiamato sofosbuvir, abbreviato in “sofo”, e venduto con il nome commerciale di Sovaldi. Il farmaco era stato approvato dalle autorità statunitensi nel dicembre del 2013 e da allora aveva rivoluzionato la cura dell’epatite C, una malattia virale che può degenerare in cirrosi epatica e cancro. Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), l’epatite C colpisce più di 130 milioni di persone in tutto il mondo e provoca 500mila morti ogni anno. Il Sovaldi si è dimostrato eicace contro la malattia più di qualsiasi altro farmaco, e senza gli efetti collaterali causati da quelli usati in precedenza. La salute non Mandakini Gahlot e Vidya Krishnan, The Caravan, India. Foto di T. Vanden Driessche Da decenni l’India sida le multinazionali farmaceutiche occidentali garantendo anche ai più poveri l’accesso ai medicinali. Quello del farmaco contro l’epatite C è l’ultimo di una lunga serie di brevetti contestati. Ma qualcosa rischia di cambiare Ma il prezzo stabilito dalla Gilead per il farmaco è stato aspramente criticato: negli Stati Uniti il Sovaldi costa mille dollari a compressa, quindi la cura completa di 84 giorni che inora ha funzionato per la maggior parte dei pazienti costa 84mila dollari. Nel 2014 questo prezzo esorbitante ha fatto guadagnare alla casa farmaceutica 10,3 miliardi di dollari, portando i suoi incassi a 25 miliardi, più del doppio dell’anno precedente. E il farmaco prometteva di fargliene guadagnare molti altri negli anni a venire. La Gilead voleva vendere il Sovaldi anche in India. Se Karar le avesse concesso il brevetto, la casa farmaceutica sarebbe stata l’unica ad avere avuto il diritto di produrlo e venderlo nel paese, dove, secondo l’Oms, le persone afette da epatite C sono 12 milioni. Il 14 gennaio Karar ha respinto la richiesta della Gilead. La notizia è inita sulle prime pagine dei giornali e ha fatto tremare i consigli d’amministrazione indiani e di tutto il mondo perché ha dato alle case farmaceutiche indiane la possibilità di fabbricare versioni generiche del farmaco – vale a dire, con lo stesso principio attivo – e di venderle al prezzo che volevano. Le aziende indiane sarebbero state anche libere di esportarlo in altri paesi, compresi quelli in cui intendeva farlo la Gilead. Ad attirare l’attenzione di tutti non sono state solo le enormi implicazioni commerciali della decisione. Il riiuto di brevettare il farmaco è anche indicativo dell’atteggiamento dell’India di Narendra Modi nei confronti delle aziende internazionali. Il paese è accusato da decenni di non proteggere a suicienza i diritti di proprietà intellettuale, e quindi di non fornire alcun supporto alle aziende straniere che propongono innovazioni. I paesi occidentali, che dopo le elezioni del 2014 speravano in un cambiamento, probabilmente avranno visto il rifiuto di concedere il brevetto alla Gilead come un ulteriore segnale del fatto che l’India non intendeva raforzare il suo regime di difesa della proprietà intellettuale. I legali della Gilead si sono mossi subito e si sono rivolti all’alta corte di New Delhi per contestare il verdetto di Karar. Due settimane dopo, il 30 gennaio, il tribunale ha riconosciuto, come chiedeva la Gilead, che Karar aveva commesso gravi errori di procedura, e ha chiesto di riesaminare la richiesta e prendere una “nuova decisione”. Una brutta sorpresa Qualche mese prima, a migliaia di chilometri di distanza, Greg Jeferys si era svegliato e si era accorto che non riusciva ad alzarsi dal letto. Jeferys, un cittadino australiano di sessant’anni che vive a Hobart, in Tasmania, si sentiva afaticato già da qualche giorno. Quando la debolezza lo aveva costretto a rimanere a letto, si era seriamente preoccupato e aveva deciso di consultare un dottore. Dalle analisi era emerso che aveva l’epatite C. Non riusciva a capire come poteva aver contratto il virus. Poi si era reso conto che doveva essere stato quarant’anni prima, quando usava droghe per via endovenosa, e che il virus era rimasto latente per tutti quegli anni. Aveva esaminato le possibilità di curare la malattia, ma non erano molte. A 25 anni dalla scoperta del virus nel 1989, la terapia più comune consisteva in un’iniezione alla settimana di un farmaco chiamato interferone pegilato e in una compressa da prendere tutti i giorni. Jeferys si era spaventato vedendo la lista di efetti collaterali che causavano quei farmaci: nausea, depressione, diicoltà respiratorie, dolori al petto, febbre. Come molti malati di epatite C, aveva deciso di risparmiarsi quella tortura e di gestire la malattia rinunciando all’alcol e attenendosi a una dieta sana. Stava cominciando ad abituarsi al nuovo stile di vita, quando un parente gli ha detto che in Australia stavano testando un nuovo farmaco che avrebbe curato l’epatite C in tre mesi. Si chiamava Sovaldi e nei paesi dov’era già in vendita aveva un prezzo proibitivo, ma se fosse stato scelto per partecipare a una delle sperimentazioni, l’avrebbe avuto gratis. Aveva cominciato a mandare email ai medici per cercare di assicurarsi un posto, ma non aveva avuto alcuna informazione. Era riuscito a prenotare una visita a Sydney e aveva preso un aereo per andare lì, ma con sua grande delusione il medico gli aveva detto che c’erano molte richieste per partecipare ai test, e che i malati più gravi avevano la precedenza. Jeferys aveva rinunciato all’idea di procurarsi il farmaco ino a quando, qualche settimana dopo, le sue speranze erano state riaccese da una notizia che arrivava dall’India: l’uicio licenze aveva respinto la richiesta di brevetto della Gilead. Aveva cominciato a consultare freneticamente internet alla ricerca della versione indiana del farmaco e aveva scoperto che le case farmaceutiche indiane producevano effettivamente il sofosbuvir, ma il farmaco non era disponibile in Australia. L’unico modo per procurarselo era comprarlo in India. La legge australiana gli avrebbe permesso di tornare a casa con una scorta di tre mesi, giusto la quantità che gli serviva. Aveva fatto i conti. In Australia il prezzo della cura completa era 84mila dollari, come negli Stati Uniti. In India, calcolando anche il viaggio, il soggiorno e le altre spese per il periodo necessario a organizzare l’acquisto, ne avrebbe spesi poco più di tremila. Non aveva avuto un attimo di esitazione. Si sentiva sempre più debole, perciò aveva deciso di partire e aveva scelto come destinazione Chennai. Accordi e compromessi Ma mentre Jeferys progettava il suo viaggio, la Gilead si stava dando da fare per assicurarsi il controllo sulle vendite di sofosbuvir in India. Al centro della sua strategia c’erano gli accordi che aveva irmato con undici aziende indiane tra il settembre del 2014 e il marzo del 2015. I contratti concedevano alle aziende indiane una “licenza volontaria” per fabbricare e vendere il farmaco in alcuni paesi, e non altri, al prezzo fortemente scontato di 900 dollari per 84 pillole, poco più dell’1 per cento di quello statunitense. Prevedevano anche una serie di altre cose, tra cui il pagamento di un 7 per cento di diritti sulle vendite alla Gilead. Era un piano discutibile. Secondo alcuni analisti, gli accordi di questo tipo sono un utile compromesso, perché permettono ai fabbricanti di farmaci generici di accedere al mercato di alcuni paesi, mentre i detentori del brevetto mantengono il loro monopolio negli altri. Ma le organizzazioni per la difesa dei diritti umani sostengono che questa formula nega ai pazienti di questi altri paesi il diritto a cure a prezzi abbordabili. Tra le aziende indiane che avevano irmato l’accordo c’era la Natco di Hyderabad, una ditta che in passato aveva sidato con successo il tentativo delle aziende straniere di assicurarsi il dominio nel mercato indiano a forza di brevetti. Perciò gli attivisti, i giornalisti e gli analisti del settore farmaceutico erano rimasti sorpresi quando la Natco aveva accettato la proposta della Gilead. Quello che aveva reso ancora più insolito il suo comportamento era che la Natco era una delle quattro aziende che avevano impugnato la domanda di brevetto della Gilead a New Delhi prima ancora del verdetto. In pratica, si era trattato di una dichiarazione formale dell’azienda secondo cui il farmaco non meritava un brevetto in base alla legge indiana. Ma in aprile, un mese dopo aver irmato l’accordo di licenza volontaria con la Gilead, la Natco aveva ritirato il suo ricorso. Forse c’erano motivi nascosti dietro la decisione dell’azienda indiana. Un attivista per il diritto alla salute che segue quello che succede nell’industria farmaceutica ci ha detto che la Gilead aveva chiesto a un’altra grande casa farmaceutica indiana, la Mylan – con cui aveva già irmato un accordo di licenza – di contattare la Natco per suo conto. La Mylan, ha spiegato l’attivista, aveva una certa inluenza sulla Natco perché era una dei suoi principali clienti. “La Mylan ha contattato la Natco per portarla al tavolo delle trattative con la Gilead e ha inluenzato la sua decisione” spingendola a irmare l’accordo di licenza volontaria. “Essenzialmente”, dice l’attivista”, “ha fatto da mediatrice”. Le conseguenze di quella mediazione sono state gravi: in pratica, due aziende che altrimenti si sarebbero fatte concorrenza avevano raggiunto un accordo privato che avrebbe potuto rendere inaccessibile a milioni di persone un farmaco salvavita. Abbiamo mandato un’email alla Natco per sapere perché aveva deciso di irmare l’accordo e vedere come reagiva all’afermazione dell’attivista secondo cui la Mylan aveva fatto da mediatrice. Un rappresentante dell’azienda ci ha risposto: “Sappiamo che la decisione della Natco di accettare una licenza volontaria ha sorpreso molte persone”. Pur non negando il ruolo svolto dalla Mylan al tavolo dei negoziati con la Gilead, il rappresentante ha però speciicato: “Siamo in totale disaccordo sull’uso del termine ‘mediazione’ perché a irmare il contratto sono state solo la Gilead e la Natco”. Quando abbiamo chiesto perché la Natco aveva ritirato il suo ricorso contro il brevetto, il rappresentante ha risposto che l’azienda non poteva “avviare un contenzioso con diversi paesi che peraltro rientrano nello stesso accordo di licenza”. Firmando, ha aggiunto, “abbiamo garantito il lancio del prodotto e la sua disponibilità in modo continuo” in molti mercati. In efetti, la licenza volontaria consentiva all’azienda di vendere immediatamente il farmaco in vari paesi, compresi buona parte di quelli africani. Ma molti hanno fatto notare che quelli esclusi erano stati accuratamente selezionati. “La Gilead ha permesso ai suoi concorrenti indiani di vendere su mercati notoriamente poco redditizi per tenerli fuori da quelli più grandi come la Cina e il Brasile”, si legge in un articolo del novembre 2014 pubblicato da Al Jazeera. Secondo i calcoli della Hep coalition, un’organizzazione che lotta per un maggior accesso alla diagnosi e alla cura dell’epatite C, la scelta dei paesi che la Gilead ha lasciato alle aziende indiane impedisce a più di 73 milioni di malati di epatite C in tutto il mondo di accedere al sofosbuvir generico. Il contratto pone anche dei limiti alla possibilità delle case indiane di esportare il principio attivo del sofosbuvir necessario per fabbricare le compresse. La Gilead ha cercato anche di imporre forti limitazioni alle vendite in India, stabilendo le regole su chi poteva comprare il farmaco. L’azienda ha giustiicato queste misure dicendo che fanno parte di un “programma antidiversione”, in pratica un piano per assicurarsi che il farmaco vada solo dove vuole la Gilead. Secondo Medici senza frontiere (Msf ), che ha chiesto alla Gilead di poter comprare il sofosbuvir per i suoi progetti in Africa e in Asia, la ditta ha insistito perché il farmaco, confezionato in laconi, sia venduto solo a persone in grado di fornire “prove della loro identità, cittadinanza e residenza”. Questo, ha detto Msf, potrebbe portare all’esclusione di gruppi vulnerabili come i rifugiati e i migranti economici. A quanto sembra, però, nonostante abbiano irmato l’accordo, le aziende indiane non stanno rispettando il programma antidiversione. Il viaggio Greg Jeferys arrivò a Chennai a maggio, nel bel mezzo della torrida estate indiana. Aveva previsto di fermarsi una settimana, presumendo che sarebbe stata ampiamente suiciente per farsi prescrivere il sofo sbuvir e comprare la scorta che gli serviva. Ma incontrò quasi subito problemi di comunicazione e di burocrazia, oltre agli inattesi ostacoli del programma antidiversione della Gilead. Prese una stanza in un albergo di T. Nagar, un quartiere commerciale al centro della città, e la prima sera contattò un medico che gli era stato consigliato da un attivista conosciuto attraverso un gruppo di sostegno online. Il dottore lo visitò, controllò le analisi e gli fece la prescrizione. Poi, sempre seguendo il consiglio dell’attivista, Jeffreys cercò di ottenere un appuntamento per comprare il farmaco. Dopo qualche giorno di frenetiche email e telefonate, riuscì ad avere un appuntamento per comprare il Sovaldi, che aveva preferito ai suoi equivalenti generici. Aveva ancora a disposizione solo due giorni. La mattina dopo rimase in attesa in albergo, ma le ore passavano senza che il distributore si facesse vivo. E le sue telefonate non ricevevano risposta. Finalmente, nel tardo pomeriggio, arrivò qualcuno, non il distributore ma un fattorino che, con aria sorridente, gli diede una brutta notizia. Aveva portato un solo lacone di Sovaldi, gli disse, perché la Gilead non consentiva ai distributori di vendere a nessuno più di una confezione alla volta. Jeferys fu preso dal panico. Non sapeva delle misure antidiversione. Un lacone di Sovaldi gli sarebbe bastato solo per un mese, ed era improbabile che riuscisse a trovarne altri due nel poco tempo che gli rimaneva. Decise allora di procurarsi la cura completa nella versione generica. Dopo qualche altra telefonata, riuscì a ordinare tre laconi di Myhep, la versione del sofosbuvir della Mylan. La sera stessa, mentre cenava in albergo, il direttore lo chiamò dicendo che c’era un pacchetto per lui. Si precipitò nella sua stanza e tornò con le 30mila rupie per pagare il medicinale. Quando rientrò in camera aprì il pacchetto. “C’erano tre barattolini di plastica, ognuno dei quali conteneva 28 pastiglie”, scrisse sul suo blog il 19 maggio. “Quei barattolini facevano la diferenza tra salute e malattia, vita e morte, anni di vita tranquilla e anni di soferenza. Erano una specie di strana magia, una sorta di genio nella bottiglia”. La ricerca della medicina lo aveva molto turbato. Sul blog scrisse di essere rimasto “sconvolto dall’enormità di quell’esperienza”. Si sentiva al tempo stesso fortunato e in colpa, “perché nel mondo ci sono tante altre persone che dovrebbero avere queste compresse, che stanno sofrendo terribilmente perché non possono avere quello che contengono queste tre scatolette. È una crudeltà, una follia. Come può un essere umano impedire a un altro di alleviare la sua soferenza?”. Lotta salvavita Le licenze volontarie della Gilead, che erano la causa delle diicoltà che Jeferys aveva incontrato per procurarsi il sofosbuvir a Chennai, segnano un nuovo tipo di rapporto tra l’industria farmaceutica indiana e le aziende occidentali. Da decenni le aziende indiane erano famose non solo per il lororiiuto delle condizioni imposte da quelle occidentali, ma anche per aver assunto un atteggiamento di sida e aver sostenuto di avere il diritto di fornire farmaci accessibili a chiunque ne avesse bisogno, in qualsiasi parte del mondo. Questo conlitto ha avuto un ruolo importante soprattutto nella lotta contro il virus hiv. Alla ine degli anni ottanta e negli anni novanta, l’hiv si stava rapidamente difondendo e le case farmaceutiche occidentali cominciarono a studiare farmaci per combatterlo. Anche se nel tempo il prezzo di una terapia era sceso da diecimila dollari all’anno a mille, rimaneva fuori della portata di milioni di persone infettate dal virus. Nel 2001 il presidente della multinazionale farmaceutica indiana Cipla, Yusuf Hamied annunciò che avrebbe offerto un “cocktail” di tre farmaci ai pazienti che vivevano in Africa, il continente con il maggior numero di malati di aids, al prezzo di un dollaro al giorno. I farmaci erano copie di quelli che aziende occidentali come la GlaxoSmithKline e la Boehringer Ingelheim vendevano già in alcune zone dell’Africa. Per quanto riguardava la produzione e la vendita in India, Hamied era pienamente in regola. Una legge straordinariamente progressista introdotta da Indira Gandhi nel 1970 vietava l’imposizione di brevetti sui farmaci. Ma le aziende occidentali avvertirono la Cipla che se avesse venduto i farmaci in altri paesi, compresi quelli africani, dove un brevetto glielo proibiva, sarebbe andato contro la legge. Dopo aver esercitato pesanti pressioni su vari governi e organizzazioni industriali di tutto il mondo, gli attivisti e Hamied cominciarono gradualmente a riportare qualche vittoria, come in Sudafrica, dove l’autorità garante della concorrenza decretò che la GlaxoSmithKline e la Boehringer Ingelheim – che in Africa avevano brevettato diversi cocktail di farmaci – stavano abusando della loro posizione dominante. L’autorità ordinò alle aziende di consentire la vendita dei farmaci generici contro l’hiv. A metà degli anni duemila, Hamied spediva già milioni di pillole in Africa, contribuendo a fermare la mortale epidemia che stava dilagando nel continente. Il suo impegno gli guadagnò agli occhi di molti la fama di salvatore, e di pirata agli occhi di altri. Ma anche se in parte avevano ceduto, nel frattempo le grandi case farmaceutiche stavano cercando di modiicare la natura stessa dei rapporti commerciali internazionali. “Hanno cominciato tutte, e la Pizer in particolare, a fare forti pressioni sui loro governi per inserire la proprietà intellettuale nelle trattative commerciali”, dice James Love, il direttore di Knowledge ecology international, un’importante organizzazione per la difesa della proprietà intellettuale. Una prima svolta c’era stata nel 1994, quando 162 paesi, compresa l’India, avevano irmato l’Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Trips). Tra le altre condizioni, il patto imponeva che fossero rilasciati brevetti per tutte le “opere d’ingegno”, compresi i farmaci. Era la prima volta che un accordo internazionale collegava i diritti di proprietà intellettuale al commercio. Ai paesi in via di sviluppo come l’India erano stati concessi altri dieci anni per adeguarsi alle regole stabilite dal Trips. Ma New Delhi era riuscita a strappare l’inclusione di una clausola fondamentale: il diritto a rilasciare “licenze obbligatorie”. In parole povere, quando un governo aveva l’impressione che il detentore di un brevetto non agisse nell’interesse della salute pubblica, poteva ignorare il brevetto e permettere ad altri di produrre un farmaco. Da allora, l’India ha esercitato questo diritto una sola volta, nel caso del farmaco per la cura del cancro ai reni e al fegato, Nexavar, per il quale ha concesso alla Natco una licenza obbligatoria nel 2012. Nel 2005, quando la legge del 1970 fu emendata per permettere all’India di adeguarsi al Trips, i partiti di sinistra ottennero l’inserimento di una clausola nella nuova legge, la 3(d), in base alla quale una sostanza, come un farmaco, non poteva essere brevettata “se non implicava il miglioramento della sua eiciacia già nota. La sida più importante a questa nuova norma è stata lanciata dalla Novartis, che dopo essersi vista negare il brevetto per il Gleevec, un farmaco antitumorale, si è appellata alla corte suprema. Nell’aprile del 2013, la corte ha respinto l’appello in base all’articolo 3(d). È stata una decisione fondamentale, acclamata dagli attivisti e condannata dalle multinazionali, perché ha dimostrato che quella clausola poteva essere usata per tutelare i produttori di farmaci indiani e salvare molte vite. Una speranza per Washington La vittoria di Narendra Modi alle elezioni del 2014 è stata ritenuta da molti un fatto positivo per le industrie indiane e internazionali. Nei dieci anni in cui era stato governatore del Gujarat, Modi si era guadagnato la fama di essere un politico che faceva gli interessi delle imprese. Industriali e analisti politici erano curiosi di vedere come avrebbe afrontato la spinosa questione della proprietà intellettuale. Prima ancora della vittoria di Modi, il governo e le lobby industriali degli Stati Uniti avevano già lanciato qualche avvertimento. Nel febbraio del 2014 l’India era stata sottoposta a un severo controllo con una serie di udienze pubbliche condotte dalla United States trade representative, un’agenzia che si occupa dei negoziati commerciali per conto del governo di Washington e suggerisce le politiche commerciali al presidente americano. Da circa 25 anni l’India è nella “lista di controllo prioritaria” dell’agenzia, l’elenco dei paesi dove la tutela della proprietà intellettuale è considerata motivo di preoccupazione. Nel 2014 alcune lobby, come la potentissima organizzazione del settore farmaceutico Phrma, hanno chiesto che l’India fosse classiicata come “paese straniero prioritario”. Questo cambio di terminologia apparentemente innocuo avrebbe potuto avere conseguenze molto gravi, perché i paesi così designati sono soggetti ad azioni penali e sanzioni. Ma il rapporto dell’agenzia non arrivava a tanto e si limitava a esprimere la speranza che il nuovo governo avrebbe apportato cambiamenti signiicativi. Con questa minaccia incombente nel maggio del 2014 è salito al potere Narendra Modi. Da allora attivisti e analisti hanno seguito con attenzione tutte le dichiarazioni fatte da Modi e dal suo governo sulla pro  prietà intellettuale. Le licenze obbligatorie restano un serio motivo di contesa tra l’India e gli Stati Uniti, ma dopo il caso del Nexavar del 2012 il governo indiano non ne ha più concesse. Secondo Love “non lo ha più fatto a causa delle pressioni esercitate dagli Stati Uniti”. Una svolta inattesa Mentre molti aspettano con il iato sospeso i futuri sviluppi della politica indiana, qualcuno, come Jeferys, ha deciso di prendere in mano la situazione. Poco dopo aver ottenuto la dose salvavita di sofosbuvir a Chennai, la sua vita ha preso una direzione totalmente inaspettata. Quando abbiamo parlato con lui via Skype a gennaio del 2016, ci ha detto che, durante quel viaggio, diverse persone afette da epatite C che avevano diicoltà a procurarsi il farmaco avevano cominciato a leggere il suo blog. Molti gli scrivevano per chiedergli consigli su come organizzare il viaggio in India, e con il tempo quel rivolo di domande era diventato un iume. Perciò aveva deciso di aiutare “più pazienti che poteva”, ha detto Jefferys. “Se potevano permettersi di andare in India, avrei costruito una rete di contatti locali per aiutarli. E se questo non fosse stato possibile, avremmo trovato un altro modo per fargli arrivare le medicine”. Nel giro di pochi giorni, Jeferys organizzò un piccolo gruppo di collaboratori. Un attivista che aveva conosciuto online e che viveva in un paese vicino all’India lo mise in contatto con un altro attivista di New Delhi che aveva già aiutato altri pazienti afetti da epatite C e altre malattie e conosceva i trucchi necessari per realizzare il suo piano. I tre decisero di lavorare insieme in modo più sistematico. Negli otto mesi durante i quali abbiamo svolto le nostre ricerche in India per scrivere questo articolo, ci siamo imbattuti in sei gruppi simili. Nel complesso riescono a fornire il sofosbuvir a migliaia di pazienti in tutto il mondo, sottraendo alla Gilead i milioni di dollari che aveva cercato di assicurarsi con i suoi accordi. Sono i buyers’ club indiani, gruppi di persone che collaborano tra loro per acquistare farmaci costosi o diicili da trovare a prezzi accessibili, spesso aggirando o infrangendo qualche regola. Come avveniva negli anni ottanta e novanta per i farmaci antiretrovirali per l’hiv, in tutto il mondo ci sono milioni di persone che hanno bisogno del sofosbuvir e non possono averlo. Mentre Jeferys mantiene i contatti con le decine di persone che gli scrivono, l’attivista di New Delhi si occupa degli aspetti pratici: compra e spedisce i farmaci. L’attivista che vive fuori dall’India coordina i rapporti tra il gruppo e i pazienti che si rivolgono a lui. I tre, inora, hanno aiutato pazienti che vivono in Australia, Austria, Brasile, Bulgaria, Cambogia, Cina, Costa Rica, Nuova Zelanda, Romania, Taiwan, Thailandia, Turkmenistan, Ucraina, Regno Unito e Stati Uniti. A gennaio, siamo andati a trovare l’attivista indiano, che abita in un villaggio alla periferia di New Delhi. Sulla sua scrivania c’erano alcuni laconi di pillole per l’epatite C e un computer portatile aperto, sul quale compariva la lista dei pazienti di tutto il mondo a cui stava fornendo farmaci. Ogni dieci minuti, gli arrivava un messaggio o una telefonata di qualcuno che chiedeva a che punto fosse la sua richiesta. All’inizio l’attivista era riluttante a raccontare i dettagli del suo lavoro, ma poi si è rilassato e ha cominciato a parlare. In due ore di conversazione, accompagnata da tè verde e biscotti, ci ha spiegato come gestisce l’operazione. Ha cominciato addirittura a vantarsene un po’: potevamo nominare un paese qualsiasi, ha detto, e lui ci avrebbe spiegato come farci arrivare il sofosbuvir, “un gioco da ragazzi”. Ma ci ha tenuto anche a precisare che gestire un club di compratori richiede un grande impegno a livello logistico e di coordinamento. Da quando hanno cominciato, nell’agosto del 2015, il lavoro è aumentato rapidamente. Nei primi due mesi hanno aiutato circa 150 pazienti. Poi hanno smesso di contarli. Per ogni persona che li contatta, l’attivista ha bisogno di una prescrizione. Perciò si è rivolto alla sua rete di attivisti e avvocati per individuare due medici disposti a irmare le ricette senza prima visitare i pazienti. “Sono bravi medici, lo fanno per aiutare le persone”, dice. “Non sono corrotti. Il problema etico c’è, ma gli accordi irmati con i governi sono così ingiusti che abbiamo trovato qualcuno disposto ad aiutarci”. Molte persone hanno già le ricette, dice, ma per quelle che non ce l’hanno si rivolge ai medici indiani. “Ho cominciato a chiedere ai pazienti quanto pesano e il loro indice di massa corporea per calcolare la dose”, dice. Rapporto di iducia A parte le ricette, un altro problema è trovare il modo per far arrivare i soldi in India. Il gruppo aveva deciso che Jeferys sarebbe stato il contatto principale con i pazienti, i soldi sarebbero arrivati a lui, che poi li avrebbe trasferiti all’attivista di New Delhi. Ma dato che ognuno avrebbe pagato circa mille dollari, se le persone fossero diventate centinaia i trasferimenti avrebbero potuto attirare l’attenzione delle autorità. L’attivista aveva perino pensato di fondare una ong autorizzata a ricevere quelle somme, ma aveva cambiato subito idea. “Ci sarebbero voluti quasi tre anni per costituire una ong e ottenere tutte le autorizzazioni”, spiega. “A quel punto i pazienti sarebbero già morti. Allora ha deciso di cercare un’ong già registrata che potesse aiutarlo, una con l’autorizzazione a ricevere denaro dall’estero in base alla legge che regola i contributi stranieri. La prima ong a cui si era rivolto aveva accettato, ma dopo aver visto le somme che arrivavano si era spaventata. Non aveva certo aiutato neanche il fatto che il governo Modi aveva annullato le licenze di 10.117 ong solo nella prima metà del 2015 per aver violato le norme sui inanziamenti dall’estero. Anche il fatto che i soldi sarebbero arrivati con un lusso irregolare avrebbe potuto sollevare sospetti. “Le ong che sono tenute d’occhio dal governo ricevono i fondi ogni tre mesi, sei mesi o un anno”, ha detto l’attivista. “Noi, invece, li riceviamo continuamente”. Così ha individuato tre conti dove Jeferys può trasferire i soldi. Uno è un conto collegato a una società di consulenza di un paese asiatico. La società è disposta a collaborare perché alcuni dei suoi dirigenti hanno parenti che sofrono di epatite C. Un altro è intestato a un gruppo di sostegno dei pazienti in una città indiana. Sia il gruppo sia la società di consulenza sono già autorizzati a ricevere pagamenti dall’estero. L’attivista ha trovato anche un terzo posto dove far arrivare i soldi, andando in un altro paese asiatico – con norme bancarie particolarmente permissive – e aprendo un conto lì. In poche settimane, il club dei compratori era in piena attività. Per chiedere il sofosbuvir la maggior parte dei pazienti si rivolge direttamente a Jefferys attraverso un indirizzo di posta elettronica pubblicato sul suo blog. Lui trasmette gli ordini e gli indirizzi di consegna all’attivista di New Delhi, che si procura le ricette e compra le quantità richieste in diverse farmacie pagandole una volta al mese. Poi prepara il pacchetto e lo spedisce con un corriere. Di solito il gruppo si fa pagare dopo la consegna. L’attivista mi ha detto che aggiunge “circa cento dollari a ordine, soprattutto per coprire il costo dei documenti e della spedizione”. Quei soldi servono anche a pagare una persona di cui si ida abbastanza per farsi aiutare. Jeferys di solito tiene i soldi ino a quando non ha accumulato una certa somma. Quando l’attivista gli dà il via, trasferisce i soldi su uno dei tre conti. Fare i trasferimenti in grosse tranche li aiuta a nascondere il lusso continuo di denaro che arriva al gruppo. “Il sistema funziona sulla iducia”, spiega Jeferys. “Non ci siamo mai incontrati e nessuno di noi ci guadagna. Non volevo fare come le aziende farmaceutiche che speculano sulle malattie”. Pressioni inedite La seconda settimana di febbraio siamo andati a Dwarka per incontrare tre dipendenti dell’ufficio brevetti, per sapere cos’era successo dietro le quinte quando Hardev Karar aveva respinto la richiesta di brevetto della Gilead per il Sovaldi. È ormai chiaro che il governo indiano sta subendo pressioni dagli Stati Uniti perché modiichi le leggi sui brevetti. Ma il fatto che Karak abbia respinto la richiesta della Gilead fa pensare che nessuno stesse facendo pressione sui funzionari dell’uicio. In realtà, non era proprio così. Secondo il primo funzionario, i legali della Gilead avevano cercato più volte di “convincere” Karar a concedere il brevetto. Quello che era successo dopo era ancora più sorprendente. Karar era stato rimproverato dai suoi superiori, anche per non aver “tenuto conto dell’imminente visita di Obama”. Il funzionario non era sicuro se questo signiicava che il verdetto avrebbe dovuto essere diverso o che Karar avrebbe dovuto aspettare prima di emetterlo. In ogni caso, ha aggiunto, “non sono cose che di solito consideriamo prima di decidere”. Due giorni dopo il verdetto, il suo capo aveva minacciato Karar di trasferirlo in un posto meno prestigioso. Quando il caso è stato riaperto, Karar era stato sostituito: “Siamo rimasti inorriditi dal modo in cui è stato trattato, è uno dei nostri migliori funzionari”, ha detto un terzo collega. “Al nostro uicio non erano mai state fatte pressioni simili”. ubt