Il Sole Domenica 8.5.16
lettera da amsterdam
Un’Europa di sonnambuli
Per
lo storico Geert Mak l’assetto istituzionale attuale non sopravviverà
oltre il prossimo decennio: o è svolta o disintegrazione
di Beda Romano
In
questo inizio di primavera, Amsterdam non delude le attese. Il primo
sole dell’anno induce a sfidare le folate di vento freddo provenienti
dal Mar del Nord, accomodandosi ai tavolini all’aperto, mentre tra le
dimore seicentesche si fanno strada le consuete biciclette
scampanellanti. In un cielo attraversato da nuvole minacciose, la luce è
tersa. La capitale olandese non tradisce il letterato Gregorio Leti che
nel 1690 reputava Amsterdam «la più libera e la meglio regolata» delle
città. Eppure, la metropoli sta attraversando un periodo tormentato:
come in altre occasioni, il futuro dell’Europa passa anche dall’Olanda.
Il
Paese di Pim Fortuyn e di Geert Wilders è nuovamente alle prese con
dubbi e angosce. In aprile, gli olandesi hanno colto l’occasione di un
voto sul futuro accordo di associazione tra l’Unione e l’Ucraina per
esprimere nuova e profonda disaffezione per l’Europa. «I Paesi Bassi
sono sempre stati divisi tra un Ovest più cosmopolita e moderno, e un
Est, oltre la città di Utrecht, più conservatore e provinciale – spiega
Geert Mak –. In questa fase sembra purtroppo prevalere la seconda delle
due tendenze. D’altro canto in quasi tutti i Paesi assistiamo a un
ritorno del nazionalismo». Mentre l’Europa aspetta con timore l’esito
del referendum inglese di giugno, dedicato alla permanenza del Paese
nell’Unione, le pessimistiche impressioni di Mak sono utili per capire i
sentimenti che segnano l’intellighentsia del Nord Europa in una fase in
cui il continente affronta come non mai il rischio della
disintegrazione. Giornalista, storico, documentarista, Mak, 69 anni, è
una delle voci più ascoltate della pubblicistica olandese, una specie di
A.J.P. Taylor di lingua fiamminga. Mentre passeggiamo per il centro di
Amsterdam alla ricerca di un locale, i passanti accennano un saluto
discreto.
Nel 1999, il nostro interlocutore fece un lungo viaggio
attraverso l’Europa per raccontare il secolo che stava per concludersi.
Per un anno pubblicò tutti i giorni le sue impressioni nel giornale «NRC
Handelsblad». Nel 2004, trasse dalla sua rubrica quotidiana un libro
venduto in oltre 400mila copie e tradotto in una ventina di lingue - in
Italia da Fazi con il titolo In Europa. «Stiamo inciampando – dice oggi –
da una crisi all’altra, in mezzo alla tempesta. Dobbiamo fermarci in un
porto e riparare la nave. Vorrei essere ottimista, ma non riesco ad
esserlo…».
Agli occhi di Geert Mak, le risposte alle diverse crisi
affrontate dall’Europa in questo ultimo decennio – quella finanziaria,
poi economica, poi ancora debitoria, ora terroristica e migratoria – non
sono state convincenti. «Guardate alla politica monetaria ultra
accomodante della Banca centrale europea o al discusso accordo dei
Ventotto con la Turchia: su entrambi i fronti sembra prevalere il
panico. Sono molto preoccupato per il futuro dell’Europa». Se i partiti
più radicali stanno mettendo radici a livello nazionale – nei Paesi
Bassi, in Francia, Italia, Austria e anche in Germania - non è solo per
la perdurante crisi economica. «L’attuale assetto europeo è a metà
federale e a metà confederale. L’Unione è nata per trovare soluzioni
tecniche, non politiche. Il populismo è anche una reazione al modo in
cui vengono ideate e applicate le politiche europee. Gli elettori hanno
l’impressione che la classe politica non abbia il controllo della
situazione, e quindi si stanno affidando sempre più a chi offre loro
soluzioni prettamente nazionali».
Secondo lo storico olandese,
l’emergenza provocata dall’arrivo di milioni di migranti in fuga dal
Vicino Oriente o dal Nord Africa rischia di rivelarsi per l’Europa ciò
che fu il disastro di Tchernobyl per l’Urss: un campanello d’allarme
dalle conseguenze imprevedibili. «I sovietici scoprirono all’improvviso
le enormi deficienze del sistema politico. Così sta avvenendo oggi in
Europa. L’Unione non è neanche capace di inviare nelle isole greche i
funzionari necessari per gestire in modo rapido ed efficiente lo sbarco
dei rifugiati. Gli europei stanno scoprendo le gravissime debolezze
della costruzione comunitaria».
Seduto in un animato e rumoroso
caffè di Amsterdam, Mak non ha nulla dell’intellettuale estremista.
Anzi, il sorriso caloroso, i capelli arruffati, i modi simpatici gli
danno un’aria rassicurante e bonaria. Prima di iniziare la nostra
conversazione, aveva premesso di sentirsi «più un europeo che un
olandese». Eppure, oggi non riesce a essere fiducioso: «Mi sembra
impossibile che l’attuale assetto istituzionale possa sopravvivere al
prossimo decennio. Non funziona e non gode di sufficiente legittimità.
Sto dicendo questo con il cuore affranto».
Ammette di essere
d’accordo con la cancelliera tedesca Angela Merkel che qualche mese fa,
riprendendo il titolo di un famoso libro dello storico Christopher
Clark, ha definito i dirigenti politici europei dei «sonnanbuli»,
diretti inconsapevolmente, come all’inizio del Novecento, verso una
catastrofe. «Lo sconquasso della moneta unica così come la crisi
dell’Ucraina hanno dimostrato che c’è bisogno di un profilo politico, e
non solo tecnico. L’Europa deve pensare il proprio ruolo geopolitico. È
destinata ad affrontare nuove grandi crisi. Per questo, mi aspetto una
sua disintegrazione, e una sua ricostruzione su basi più piccole». Cosa
intende per grande crisi: c’è il rischio di una guerra? La risposta
tarda ad arrivare. Finalmente, dopo un lungo silenzio di riflessione,
Mak risponde: «Siamo in bilico tra pace e guerra. Le fratture potrebbero
rimarginarsi, oppure peggiorare drammaticamente. Vi sono per esempio
molti fattori che in Crimea potrebbero portare a un conflitto aperto.
Altri focolai sono l’Egitto e la Libia, che non sono più un baluardo a
difesa dell’Europa contro l’arrivo di milioni di migranti dall’Africa.
La Turchia, poi, è un Paese sull’orlo della guerra civile, fosse solo
per la presenza della folta minoranza curda». Alla ricerca di un
confronto storico sull’attuale stato dell’Europa, trova un esempio nella
repubblica confederale che governò le Province Unite tra il 1581 e il
1795. «In parte, la fine del Secolo d’Oro fu determinata dalla
difficoltà a creare un potere centrale. I federalisti americani videro
nel caso olandese la ragione per puntare con decisione verso un assetto
federalista». Torna alla mente James Madison in Il Federalista: la
repubblica olandese, scrisse nel 1787, mostra «l’imbecillità nel
governo, il disaccordo tra le province, l’indegna influenza straniera,
una precaria esistenza in tempo di pace e calamità in tempo di guerra».
Le
parole dell’uomo che da lì a poco sarebbe diventato il quarto
presidente degli Stati Uniti suonano attuali, se riferite a una Europa
che continua tra le altre cose a ospitare truppe americane sul suo
territorio. Simbolica delle differenze europee, l’Olanda è al tempo
stesso proiettata oltre Atlantico e al centro del continente europeo.
Tornando alla descrizione di Gregorio Leti, appare permissiva quando si
tratta di omosessualità e droghe leggere; rigorosa quando bisogna
risanare i conti pubblici o applicare le regole. Gli olandesi usano
spesso nelle loro risposte l’espressione moet kunnen che si traduce
liberamente con «E perché no!». L’esclamazione riflette tolleranza e
pragmatismo. Rileggendola alla luce del pessimismo di Geert Mak, sembra
quasi autorizzare l’impensabile.