Il Sole Domenica 8.5.16
Tullio Gregory
Tradurre per capire
di Remo Bodei
«Tutto
è destinato a perire, castelli e città, re e papi, solo i libri hanno
il privilegium perennitatis: Saturno divora i propri figli, le civiltà
sarebbero perdute, se Dio non avesse dato agli uomini i librorum
remedia». Così sosteneva Riccardo di Bury, cancelliere di Edoardo III
d’Inghilterra negli anni Trenta e Quaranta del Trecento. E John Florio,
autore del primo dizionario Italiano-Inglese e traduttore dei Saggi di
Montaigne, ricorda di aver sentito dire da Giordano Bruno che ogni
scienza ha origine dalle traduzioni.
Di questi episodi e di sobrie
riflessioni è costellato il breve e affascinante libro di Tullio
Gregory, che, con la consueta competenza (esercitata anche nei decenni
in cui è stato direttore del Lessico intellettuale europeo) mostra come
la translatio linguarum, il vertere, il transferre e l’interpretari
siano alla base di ogni civiltà e, specificamente della nostra, quella
mediterranea, «fatta di innesti continui, di matrimoni esogamici, di un
assiduo intrecciarsi e scambio di esperienze, modelli e valori fra
civiltà diverse, ove ogni cultura nasce sull’eredità di altre culture,
fatte proprie, trascritte, tradotte, interpretate in nuovi contesti e
linguaggi». Da questo punto di vista, fenomeni epocali, quali il sorgere
o il diffondersi dell’ebraismo o del cristianesimo sarebbero
impensabili senza la traduzione in greco della Bibbia da parte dei
Settanta nell’Alessandria del III secolo a.C. e le stesse parole di
Gesù, pronunciate in aramaico, non si sarebbero diffuse nel mondo se non
fossero state rese in greco e in latino: «È la traduzione che prolunga
nel tempo e nello spazio la vitalità di un testo, assicura e rinnova una
tradizione». Ed è la traduzione che sostanzia la translatio studiorum,
per cui ogni versione di un’opera dall’originale a un’altra lingua
contribuisce al «passaggio di civiltà e cultura da uno ad altro contesto
politico, geografico e linguistico, per salvare eredità che si
sarebbero altrimenti perdute».
Conosciamo tutti, per sommi capi,
la trafila degli eventi che dalle rive del Nilo e dalle coste della
Fenicia porta alla migrazione della scrittura, delle scienze, della
sapienza e delle tecniche dapprima in Grecia e a Roma. Allo stesso modo
ci è noto come il salvataggio della cultura antica passi attraverso gli
scriptoria medioevali, dove gli amanuensi ricopiavano i libri. Sono
state anche ricostruite le complesse vicende che hanno portato le opere
filosofiche, matematiche, mediche e fisiche dal mondo greco a quello
arabo.
Fu l’imperatore Giustiniano, istigato dai cristiani e dalla
moglie Teodora, a decretare nel 529 la chiusura delle scuole di Atene,
costringendo un consistente gruppo di filosofi a trasferirsi nell’Impero
persiano presso il re Cosroè III. Quando, poi, la Persia venne
conquistata dagli arabi, i discepoli dei filosofi che erano fuggiti
assieme ai loro volumi iniziarono – dall’815 stabilmente nella «Casa
della sapienza» di Baghdad – a tradurre in arabo dal greco e dal siriaco
queste opere, che fecondarono il pensiero di Al-Kindî, Al F?r?bî,
Averroè e Avicenna per poi, attraverso un’altra grande operazione di
traduzione collettiva a Toledo e altrove, dare luogo alle ritraduzioni
latine (si pensi che di Platone si conosceva in precedenza solo un brano
del Timeo e di Aristotele, sostanzialmente, solo le Categorie e il De
interpretatione).
La filosofia moderna si fonda linguisticamente
sulla continua translatio dei termini forgiati in questo periodo e sulla
ripresa e innovazione dei loro significati. Di tutte queste metamorfosi
il volume di Gregory offre il necessario inquadramento.Spesso
dimentichiamo che il destino dei libri che giungono fino a noi – oltre
che di chi li pubblicava, li distribuiva e li leggeva – è soggetto a una
selezione dovuta al caso, all’intenzione o ai ritrovamenti insperati
(quale il codice del De rerum natura di Lucrezio che Poggio Bracciolini
rinvenne nel 1417 in un monastero tedesco).
È, tuttavia, la
volontà censoria a incidere maggiormente sulla loro conservazione e
trasmissione, decretandone la sorte di «sommersi e salvati». Il
fanatismo, l’Index librorum prohibitorum (formalmente abolito dalla
Chiesa cattolica solo nel 1966), e i roghi, anche di intere biblioteche,
hanno segnato la storia umana e non solo quella dell’Occidente: si
comincia, a quanto ci consta, da quelli avvenuti nella Cina di Qin Shi
Huan, il 212 a.C., fino alla Bücherverbrennung nazista del maggio del
1933 a Berlino. Per fortuna, i libri sfuggono talvolta a questa sorte,
come accadde con «l’avventuroso trasferimento della biblioteca
dell’Istituto Warburg da Amburgo a Londra con due battelli che
approdarono nel dicembre 1933 sulle rive del Tamigi».
Se dunque la
translatio linguarum ha nell’ambito delle civiltà della specie il ruolo
dominante qui descritto, allora la risposta di Gregory al mito della
Torre di Babele non può essere che un’orgogliosa rivendicazione della
nostra condotta: «Se la condanna alla pluralità delle lingue è una
conseguenza del tentativo degli uomini, dopo il diluvio, di costruire
una loro città con una torre che raggiungesse il cielo, la traduzione -
ove manchi il miracolo della Pentecoste - è la risposta umana alla
condanna di Yahvè».
Tullio Gregory, Translatio linguarum . Traduzioni e storia della cultura, Leo O. Olschki Editrice, Firenze, pagg. 76, € 14