Il Sole Domenica 8.5.16
idee per la cultura
La bellezza della morale
L’Italia
vive dell’idea di bello come di qualità estetica. Ma sarebbe
preferibile il concetto greco che non scindeva il bello dal buono
di Andrea Carandini
L’articolo
9 della Costituzione afferma che la Repubblica promuove lo sviluppo
della cultura e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico
della Nazione, dove il paesaggio e la storia rimandano a quegli esiti
significativi e olistici dell’esistenza carichi più di significato che
di qualità estetica. La cultura non si limita al bello.
Diffusa è
l’idea che la cultura equivalga al bello e di qui il pensiero, ormai
troppo fatto, della bellezza che salverà il mondo. Ma l’uomo si salva
solo coltivando varie aiuole dell’orto, non una sola. Se ritorniamo ai
Greci, troviamo una idea di cultura ampia che dovremmo fare nostra,
quella del kalokagathos, cioè del bello unito al buono. Essa comprende
corpi e spiriti eccellenti, istituzioni, costumi e leggi da preferire,
le cose che rifulgono, insomma tutto ciò che s’impone nel continuum tra
“significato” storico e “rappresentazione” estetica. Quanto lontano da
questa idea di cultura è l’uomo d’oggi, unilateralmente disciplinare e
maniacalmente economico, la cui umanità a brandelli invoca una
rilegatura.
Da un punto di vista filosofico, il bene è il campo in
cui fioriscono le idee morali e politiche che servono a governare la
vita individuale, di gruppo e di comunità.
I valori primi possono
essere considerati singolarmente – pace, libertà, felicità, giustizia,
amore, creatività – e nel loro confluire in quei paesaggi e sistemi
d’idee che sono le civiltà. Riguardano temi sui quali i pensatori
s’interrogano da millenni e che portano ogni giorno ciascuno di noi,
anche se non ce ne accorgiamo, alla fortuna o alla rovina. Ecco perché è
importante imparare, fin sui banchi di scuola, come essere curiosi di
sé ma anche di amici, rivali e nemici, perché frammenti di verità si
trovano anche nelle tasche altrui e i frammenti nella nostra tasca non
bastano.
Esagerare un fine primo come la libertà oppure
l’uguaglianza porta a trasformare un bene in un male, perché nell’uomo
sempre fermentano più valori primi, tutti ugualmente necessari, che solo
il buon senso consente in una qualche misura di combinare, anche quando
contrastano fra loro. I disastri del ’900 provengono da esagerazioni
sia dell’Illuminismo che del Romanticismo, entrambi in origine movimenti
liberatori.
Esiste un terreno comune umano di fini primi che
riguarda alcuni valori morali accettati da gran parte degli uomini, non
sempre e ovunque ma in grande parte dei tempi e dei luoghi. Si tratta di
valori condivisi senza i quali le società non comunicherebbero, non si
comprenderebbero e non si riprodurrebbero.
Terreno comune è
distinguere il bene dal male, il vero dal falso e il giusto
dall’ingiusto; perseguire bisogni basilari come cibo, riparo, sicurezza e
appartenenza a un gruppo; raggiungere un minimo di libertà, felicità e
sviluppo delle proprie potenzialità; concepire gli individui in
relazione al loro ambiente maturale e culturale, etc. Si tratta dei
limitati valori primi che sono dati, accettati, validi in sé e parte del
mondo oggettivo; distinti da usanze e inclinazioni inventate e adottate
che la storia mostra come numerosissime e diversissime.
Secondo
una durevole e prevalente tradizione di pensiero gli uomini
disporrebbero della conoscenza naturale innata di un certo numero di
verità universali ed eterne quali l’esistenza di Dio, la conoscenza del
bene e del male e del giusto e dell’ingiusto, l’obbligo di dire il vero,
di restituire i prestiti, di mantenere le promesse e di seguire alcuni o
tutti i comandamenti della Bibbia. Al contrario, secondo pensatori come
Epicuro, Lucrezio, Vico, Herder, Hume e Marx, le suddette verità si
sarebbero formate tramite evoluzione e sviluppo culturale, sarebbero
cioè il risultato di effetti cumulativi, privi tuttavia di struttura e
di scopo. Per questi pensatori la “natura umana” sarebbe si comune ma
non fissa. È un atteggiamento che porta al pluralismo dei valori, ma non
al relativismo, per il quale i fini primi sono soggettivi, arbitrari e
infiniti, idea che i pluralisti rifiutano.
È comune pensare che i
beni contrastino con i mali e si armonizzino invece tra loro; ma è una
idea sbagliata. È doloroso prendere coscienza che i beni possano
contrastare anche fra di loro. Ciò spiega perché sia così difficile
agire moralmente e politicamente per il bene delle persone e comune.
Quando si tratta di beni che configgono, la scelta si fa drammatica.
Infatti è impossibile essere perfettamente liberi e perfettamente
uguali, perfettamente giusti e perfettamente compassionevoli,
perfettamente pianificati e perfettamente spontanei, perfettamente
consapevoli e perfettamente felici; altrettanto impossibile è essere a
un tempo lucidi e stupefatti, calmi e furiosi, leali e neutrali. Risulta
pertanto incoerente qualsiasi idea di una armonia perfetta tra tutti i
fini primi.
Ne consegue che l’attuazione totale e contemporanea di
valori può rivelarsi impossibile quando sono tra loro incompatibili.
Necessità e bisogni antinomici possono essere bilanciati ricorrendo, più
che a una magica sintesi dialettica, a imperfette e provvisorie
composizioni: ad esempio concedendo una dose di libertà e una dose di
uguaglianza, in modo che nessuno dei due fini giunga a schiacciare
l’altro. Altre volte un tale compromesso si rivela impossibile, come
quando una comunità si propone di massimizzare un valore ritenuto
preminente, per cui non dà spazio agli altri valori.
Ogni scelta
comporta la perdita delle alternative scartate e nel caso di valori
incompatibili, il sacrificio di un fine a favore di un altro, così che
la commedia umana si converte sovente in un doloroso dilemma. Neppure è
possibile gerarchizzare i valori primi, distinguere i più importanti dai
meno importanti, perché manca un criterio valido per misurarli. Ne
consegue che i valori primi sono incommensurabili e quindi tutti
ugualmente necessari.
Sono da ritenere validi non solamente i fini
che prediligiamo ma anche quelli che scartiamo o addirittura
detestiamo. Se ci dotiamo dell’empatia che Vico e Herder insegnano,
capiamo come, in condizioni storiche particolari, sia stato possibile
scegliere e perseguire in maniera coerente e comprensibile scopi che non
sentiamo più come nostri. Grazie all’immaginazione è dato intravedere
cosa abbia significato essere un servo greco, un soldato romano, un
martire cristiano, un giacobino, un ayatollah o un hippy americano:
tutti modi di vivere che hanno avuto senso in altri tempi e luoghi.
Penetriamo e comprendiamo gli eroi di Omero e Wagner, ma non
condividiamo più i valori di Achille e Sigfrido, pur rientrando Iliade e
Tetralogia nel nostro canone culturale. I missionari hanno potuto
convertire gli Isolani delle Trobriand e i Pigmei dell’Africa, perché si
appellavano a valori che anche gli altri intendevano. Il fatto che
tutto il mondo desideri visitare l’Italia rivela anch’esso l’esistenza
di un terreno comune umano, cioè la possibilità di apprezzare una serie
di civiltà anche se si appartiene a un diversissimo paesaggio di idee.
I
valori di una civiltà possono confliggere con i nostri eppure rientrare
in quel genere di fini che immaginiamo perseguibili senza che smettano
di apparirci umani. Sono fioriture che appartengono ad aiuole diverse e
comprendere le aiuole lontane è diventato compito affrontabile solo a
partire dello storicismo, che la cultura europea ha inventato nel XVIII
secolo; una conquista che ancora non ha raggiunto numerose parti del
globo, come ogni giorno è dato di constatare. Capire quanto non
condividiamo è divenuta una necessità imprescindibile anche nel nostro
Paese. Dobbiamo preservare il nostro centro di gravità culturale e farlo
conoscere e rispettare a chi viene da fuori, ma possiamo al tempo
stesso esercitarci in idee e gusti di altri continenti. Capire falsi
miti, fanatismi e estremismi non esclude che si possa combattere per
difendere la forma di vita che preferiamo dal nemico che si proponesse
di distruggerla. Valori comuni ed empatie fungono da ponte tra le
culture nell’andirivieni ininterrotto tra limitati valori primi che
uniscono e innumerevoli usanze che dividono.
Chi crede in un
sistema unico e finalizzato di valori inalterabili, universali ed
eterni, più che nel terreno comune umano che empiricamente è dato
riscontrare, tende all’intolleranza verso quanto ritiene falso, perverso
e deviato. È così accaduto che perfino l’illuminista Voltaire abbia
dato del barbaro a Shakespeare. Lo storicismo, figlio del Romanticismo,
impedisce ormai a noi simili pregiudizi, per cui possiamo essere legati
al nostro paese e al tempo stesso sentirci parti di un unico Pianeta.