Il Sole Domenica 8.5.16
Sfidare Apollo, splendida follia
Giulio
Guidorizzi racconta l’«Iliade» dal punto di vista di quel borioso di
Agamennone. Un esperimento ardito ma perfettamente riuscito
di Piero Boitani
Quando
arrivai sotto le mura di Micene, cinquant’anni fa, il cielo era nero e
solcato da lampi. La Porta dei Leoni si apriva bassa e squadrata tra
enormi pietre grigie. Il vento soffiava furibondo e faceva freddo.
Immaginavo le fiaccole accese che, da Troia, di monte in monte, avevano
segnalato la partenza del Re per il ritorno. Mi domandavo dove si fosse
fermato il carro che portava Cassandra dopo che lui ne era sceso per
camminare verso casa sul tappeto purpureo. Qualche giorno prima, ad
Atene, avevo contemplato a lungo la maschera funebre sbalzata in oro:
dopo averla ritrovata, Schliemann aveva telegrafato al re di Grecia: «Ho
visto il volto di Agamennone». Mostra un «un uomo dal naso sottile, con
una piega altezzosa sulle labbra, un viso che esprime fierezza,
disdegno, regalità». Sì, doveva essere proprio Agamennone, quello lì:
anche se era impossibile che lo fosse. Schliemann sapeva benissimo che
il mito è molto più forte dell’evidenza materiale, che l’ Iliade e l’
Orestea vinceranno sempre l’archeologia e la storia.
Lo sa anche
Giulio Guidorizzi, che pure è grecista serio e agguerrito, il quale s’è
occupato a fondo del mito greco (ha curato sull’argomento due splendidi
Meridiani), di Edipo, di sogno nella Grecia classica, di magia
nell’antichità, e che sta traducendo proprio l’Iliade, e dirigendo una
squadra internazionale di studiosi per l’edizione Valla in sei volumi
del poema. A tale chiara manifestazione di follia (del resto, ha
studiato anche questa in un bel libro di qualche anno fa) Giulio
Guidorizzi ne aggiunge ora un’altra: quella, in sostanza, di riscrivere
l’Iliade, con qualche frammento di Eschilo e dell’Odissea per sfidare
Apollo e le Muse sino in fondo.
Ogni anno, da almeno dieci, tengo
ben due serie di lezioni sull’Iliade e l’Odissea. Perciò, ho cominciato a
leggere il libro con qualche scetticismo: per esser passato anch’io tra
questi furori, per l’oggettiva difficoltà di gareggiare con Omero, per
scarsa considerazione nei confronti di Agamennone. Ma come, pensavo,
proprio quell’antipatico, insopportabile borioso che ruba Briseide ad
Achille e si considera a tutti superiore non si sa bene perché? Ma Io,
Agamennone vale come la Cassandra di Christa Wolf. Dopo due pagine, il
tempo di passare dal Prologo al primo capitolo, Mýthos, non riuscivo più
a metterlo giù. Perché Guidorizzi sa raccontare bene: come Ulisse, al
quale Alcinoo dice che narra con sapienza e con arte, come un aedo. E
sa, al momento giusto inserire nel discorso i concetti fondamentali che
lo guidano e danno il titolo a ciascuno dei suoi capitoli: mýthos,
appunto, e poi timé (l’onore), eros, dóra (dono), dólos (l’inganno),
pólemos (guerra), psyché (anima), móira (fato), nóstos (ritorno).
Quando, nel primo capitolo, narra la vicenda di Enomao, Ippodamia e
Pelope – gli antenati di Agamennone – rende la storia così avvincente
che sino alla sua consumazione il lettore non riesce a distaccarsene. Ma
al tempo stesso quel lettore viene messo nella posizione di cogliere le
complicazioni intricate e le sfumature del mito, le sue diramazioni e i
suoi salti improvvisi: insomma di capire cosa significhino la memoria e
il canto per una civiltà giovane.
L’Iliade consiste per buona
parte di battaglie e duelli: lunghi e lenti, in Omero. Ma se si
comprende che combattere per l’onore e la gloria significa, nell’ethos
greco di tremila anni fa, scegliere tra il lasciare una sia pur minima
traccia di sé e affondare irrimediabilmente nel nulla, allora si capisce
l’estrema urgenza personale che sta dietro agli scontri infiniti del
poema. L’Iliade è tutta “agonistica”, diceva l’anonimo del Sublime: è il
poema della forza, scriveva Simone Weil. È polemos, lotta, lance spade
scudi elmi frecce, cavalli e carri, sangue, vittorie e sconfitte.
Soltanto leggendo Io, Agamennone mi sono reso conto di quanto avesse
ragione William Golding, l’autore de Il Signore delle mosche, quando,
molti anni fa, mi disse che il carattere “virile” del poema – per lui,
una delle sue virtù supreme – sta nel suo essere una guerra di ciascuno
contro la moira, pur nella coscienza che contro di essa non si può
nulla.
Quando Guidorizzi si tuffa nella mischia e racconta
l’avanzata dei Troiani – l’incursione di Diomede e Ulisse, e poi, in
crescendo di ritmo, l’attacco e la ritirata di Agamennone, Diomede
ferito, Ettore che comincia ad appiccare il fuoco alle navi e sfonda il
muro greco, Aiace che si ritira, Patroclo che, rivestito delle armi di
Achille, esce sul campo di battaglia e viene ucciso da Ettore, poi il
duello di quest’ultimo con Achille, lo scempio furibondo – la sequenza
che costruisce è di una rapidità sconvolgente. Dominano, in essa, il
thymós e l’ombra della psyché: l’uno, «l’energia sempre in movimento»
degli eroi, il «groppo di impulsi ed emozioni» che li trascina; e lo
stagliarsi perenne dell’altra, la psyché, «l’ultimo respiro di vita che
abbandona un uomo, lasciandolo immoto tra le braccia della morte»: «Il
gran lottare, amare, odiare, soffrire che accompagna la vita degli
esseri umani istante dopo istante si risolve dunque in questo: un soffio
che svapora dell’aria».
Tuttavia, ci sono anche nel libro
l’ammaliante cintura di Afrodite e lo scambio di doni: Elena che tesse
la guerra che si sta combattendo per lei e stupisce gli anziani di Troia
per la sua bellezza tremenda – una di quelle pause straordinarie nelle
quali, secondo Rachel Bespaloff, il divenire tumultuoso della guerra si
coagula in essere –, il deflagrare dell’eros negli incontri di lei e
Paride e di Zeus ed Era, l’affetto doloroso di Ettore e Andromaca, la
philía tra Achille e Patroclo, l’incontro civile di Glauco e Diomede. E
infine l’ingresso di Priamo nella tenda di Achille, la preghiera in nome
del padre, la grande pietà dell’eroe dell’ira, la cena, lo sguardo
d’ammirazione che il vecchio e il giovane si scambiano: «il gran dolore
del mondo» che sempre ti prende.
Al contrario che nell’Iliade, qui
la guerra termina: Achille, per amore di Polissena, si fa cogliere
scoperto dalla freccia di Paride, la città è presa con l’inganno,
saccheggiata, incendiata, gli uomini uccisi, le donne deportate in
schiavitù dai vincitori. Agamennone parte, naviga sull’Egeo con la
propria preda, la figlia di Priamo, la veggente Cassandra. Di nuovo, il
ritmo si fa incalzante: Cassandra ricorda Edipo, Evadne, Tiresia,
Otrioneo; Clitennestra pensa a Ifigenia e si dà a Egisto, nel quale
rivive l’inimicizia del padre Tieste per il padre di Agamennone, Atreo.
Le fiaccole segnalano l’arrivo di Agamennone a Micene. Cassandra, come
in Eschilo, pre-vede tutto ciò che sta per accadere. E che,
inesorabilmente, accade: Agamennone incede sotto la Porta dei Leoni,
entra nel palazzo, è ucciso come un bue alla greppia. Disceso all’Ade,
racconta che la moglie Clitennestra, sgozzata Cassandra, non gli ha
neppure chiuso la bocca e gli occhi. Lo racconta a Ulisse: l’eroe del
ragionare, del pazientare, dell’errare: del sopravvivere e del narrare.