Il Sole Domenica 22.5.16
Teoria critica della società
Democrazie di facciata
Per il filosofo tedesco i processi decisionali sono stati svuotati dal prevalere dei meccanismi di mercato
di Jürgen Habermas
Testo
pubblicato dall’ultimo numero della rivista «Vita e pensiero» , tratto
da un’intervista di Michaël Foessel a Jürgen Habermas. Traduzione di
Anna Maria Brogi. Milano, su abbonamento
«Il
capitalismo finanziario globalizzato e autonomo, da parte sua, si
sottrae ampiamente all’intervento del politico nella nostra società
globalizzata e sempre più interdipendente, che però resta frammentata in
Stati nazionali. Dietro il paravento della democrazia, le élite
politiche mettono in opera in maniera tecnocratica gli imperativi dei
mercati senza offrire praticamente alcuna resistenza. Chiuse nelle loro
prospettive di Stati nazionali, non hanno altra scelta. Preferiscono
così sconnettere i processi politici decisionali dallo spazio pubblico
moribondo le cui infrastrutture si sfaldano.
Non cambierà nulla in
questa colonizzazione delle società, dibattute all’interno e
contrapposte tra loro tramite un populismo di destra, finché non ci sarà
una forza politica che troverà il coraggio di brandire come obiettivo
politico l’interesse generale superando le frontiere nazionali,
quand’anche esso restasse confinato alla sola Europa o alla zona euro.
Il neoliberalismo resta convinto della razionalità del mercato lasciato a
se stesso. La sua domanda cerca di mettere in luce come la
“razionalità” debba essere compresa, se non ci si vuole accontentare,
come fanno gli economisti, di una “razionalità sistemica” o di una
“razionalità decisionale”. La teoria sociale si distingue dalle
discipline sociali prese individualmente non per il suo riferimento
all’insieme, ma per la sua esigenza critica. Con la Teoria dell’agire
comunicativo auspico, di conseguenza, di mettere in luce i principi di
una critica, spesso mascherati da presupposti pseudo-normativi o legati
alla storia della filosofia. La mia proposta consiste nel cercare le
tracce di una “ragione comunicativa”, che trova la sua origine nei
processi di intesa, nelle stesse pratiche sociali. Nel quotidiano, i
soggetti agenti suppongono reciprocamente di essere responsabili dei
loro atti e di parlare degli stessi oggetti, di pensare quello che
dicono, di mantenere quello che promettono, di affermare il vero, di
richiamarsi tacitamente a norme legittime ecc. Questo agire comunicativo
del quotidiano si fonda su un insieme di elementi che restano
impliciti, finché la pretesa reciproca alla validità viene soddisfatta
in maniera credibile. Ma nel momento in cui essa è nelle condizioni di
diventare oggetto di una critica, può essere negata, e ogni negazione
viene a interrompere la routine, poiché ogni contraddizione rende
manifesti questi elementi impliciti. Io chiamo “ragione comunicativa” la
capacità di operare tra questi elementi impliciti per mezzo di una
sonda critica, invece di procedere ciecamente a tentoni. Questa capacità
si manifesta attraverso la negazione, con veementi proteste o con il
rifiuto discreto di un consenso implicito, con il rifiuto di seguire le
convenzioni in nome delle convenzioni, con la rivolta contro situazioni
inaccettabili o contro il ripiegamento silenzioso, fosse anche cinico o
apatico, dei marginali e degli esclusi. Ogni organizzazione o
istituzione sociale si fonda infatti su questi elementi. Nel quadro di
conflitti particolarmente persistenti, non prenderemmo in considerazione
di andare in tribunale se non ci aspettassimo un processo più o meno
equo. Non prenderemmo in considerazione nemmeno di partecipare a
elezioni democratiche, se non presupponessimo che “ogni voto conta”.
Sono presupposti idealisti, spesso contraddetti dai fatti, e tuttavia
indispensabili della partecipazione. Oggi si vede cosa avviene quando
questi presupposti sono contraddetti da situazioni post-democratiche:
l’aumento dei tassi di astensione. Quando il sociologo ricostituisce
tali presupposti adottando la prospettiva dei partecipanti, può fondare
la sua critica, ad esempio delle situazioni post-democratiche, su una
ragione all’opera nelle pratiche sociali stesse. [...]
Con la
secolarizzazione del potere politico, la religione si trova liberata
dalla sua funzione di legittimazione. La responsabilità
dell’integrazione dei cittadini passa ormai dall’ambito sociale a quello
politico, e questo concretamente significa: dalla religione alle norme
fondamentali dello Stato costituzionale, che s’iscrivono in una cultura
politica comune. Queste norme costituzionali garantiscono l’insieme
dello sfondo collettivo di un consenso e traggono la loro forza di
convinzione dall’argomentazione incessantemente rinnovata del diritto
della ragione e della teoria politica. Il riferimento sempre più
veemente degli uomini politici ai “valori comuni” suona sempre più
vuoto, e la confusione tra “principi” che esigono una giustificazione e
“valori”, che sono più o meno attraenti, mi esaspera massimamente. È
praticamente possibile seguire al rallentatore il modo in cui le nostre
istituzioni politiche si trovano a essere svuotate della loro sostanza
democratica nel corso del loro adattamento tecnocratico agli imperativi
di un mercato globale. Le nostre democrazie capitaliste sono ridotte a
democrazie di facciata. Questi sviluppi richiedono una demistificazione
scientificamente fondata. Ma nessuna delle discipline accademiche di cui
è oggetto, né l’economia né le scienze politiche o la sociologia,
possono, ciascuna presa individualmente, dedicarsi a questa impresa di
demistificazione. I contributi vari di queste discipline devono
piuttosto essere sottoposti a una concezione critica di se stessi. Fin
da Hegel e Marx, è appunto questo l’oggetto di una teoria sociale
critica, che io persisto nel considerare il nocciolo del discorso
filosofico della modernità.