domenica 22 maggio 2016

Il Sole Domenica 22.5.16
Sant’Agostino
Dare un senso al bene e al male
di Ermanno Bencivenga

Agostino ha lasciato segni profondi nella concezione cristiana del male. Profondi ma non del tutto coerenti, il che non apparirà strano quando si considerino gli spaventosi problemi teorici che si trovava ad affrontare. Se Dio ha creato il mondo e lo governa, come può questo essere onnipotente e buono aver causato o permesso il male, e dunque esserne responsabile? Una soluzione radicale era offerta in quegli anni dall’eresia manichea, che Agostino abbracciò da giovane: esistono un principio del bene (Dio) e uno, indipendente, del male; del male, dunque, non è artefice Dio ma il suo rivale. Era però una vittoria di Pirro: esonerava Dio da ogni biasimo riducendone il rango e l’autorità. Invece del monoteismo proponeva una diarchia.
Un possibile riscatto dal manicheismo era offerto da Plotino, che Agostino studiò avidamente. Per Plotino il male non esiste: il mondo contiene enti di livelli diversi di perfezione, ciascuno una manifestazione del bene entro certi limiti; noi denominiamo male, in ciascun ente, il limite del bene che esso manifesta ma, così facendo, stiamo denominando il nulla. Io sono limitato in quanto non volo (con le mie forze, intendo, non in aereo), e volendo potrei dire che è un male che io non voli, ma se lo dicessi starei dando corpo fittizio a un’assenza, a qualcosa che non c’è. In modo analogo, compio spesso scelte avventate e distruttive, per me e per altri; ma tali scelte competono alla limitatezza della mia intelligenza e del mio giudizio. Io sono quel che sono e arrivo dove arrivo; Dio ha causato quel che sono e dove arrivo (che, nei loro limiti, sono un bene), non quel che non sono e dove non arrivo.
La via negativa di Plotino andava però a cozzare contro un’altra esigenza religiosa. Se il male è solo il limite del bene, quindi nulla di cui si possa essere responsabili, allora, se non ne è responsabile Dio, non ne è neppure responsabile nessun altro; in particolare, non ne è responsabile chi il male, apparentemente, lo commette. Quando compio scelte avventate e distruttive, ho detto, sto solo manifestando i miei limiti; è giusto gravarmi di queste scelte come colpe e punirmi per averle compiute? Ha senso parlare di peccato e di un inferno che accoglierà chi se ne è macchiato?
Perché si possa parlare sensatamente di colpe e pene è necessario dotare gli esseri umani di un libero arbitrio, che consenta loro di assumersi il carico delle proprie scelte, e si può tentare la mediazione seguente: Dio crea gli esseri umani liberi, il che è bene (è meglio essere liberi che non esserlo), ma gli esseri umani liberamente scelgono il male e sono giustamente puniti. Dio, che è onnisciente, sa quali fra gli esseri umani sceglieranno il male ma decide di lasciarli fare, per dare sostanza alla loro libertà. Agostino fu tentato da questa mediazione, ma finì per abbandonarla perché dava troppo potere agli esseri umani, li rendeva padroni del proprio destino. In età avanzata, avrebbe anzi combattuto chi la pensava così: i seguaci del monaco britannico Pelagio, condannati a loro volta (anche per un esplicito intervento di Agostino) come eretici.
Che cosa rimane? Non molto. Il peccato originale di Adamo (che però almeno lui, insieme con Eva, avrà dovuto essere padrone del suo destino) ha reso tutti i successivi esseri umani incapaci di salvarsi con le proprie forze, quindi fare il bene ed evitare il male è impossibile a un essere umano che non sia assistito dalla grazia divina. La prescienza di Dio si muta in predestinazione: chi si salva o si perde lo fa perché è destinato da Dio (che gli elargisce o gli nega la grazia) a salvarsi o a perdersi. Perché Dio decide di salvare gli uni e perdere gli altri? Mah. Forse perché prevede che quelli cui nega la grazia ne farebbero un cattivo uso (un Dio sparagnino, insomma, che non spreca i suoi doni). O forse perché ha dato al mondo un suo ordine benefico, in cui i mali compiuti dagli uni comportano beni maggiori altrove (ma è giusto condannare a orribili pene eterne anche una sola persona perché altri o altro possano trarne vantaggio?).
Robin Lane Fox è uno storico e classicista di Oxford, autore di opere molto premiate su Alessandro Magno e sulla tarda antichità. Il suo Augustine è un libro monumentale, soprattutto tenendo conto che segue il suo eroe solo fino ai quarant’anni circa, l’epoca in cui compose le Confessioni. È una miniera di informazioni e, pur non essendo un filosofo, Fox, nei momenti opportuni, fornisce resoconti lucidi e accurati delle dottrine di Mani, Plotino e altri. La sua enfasi cade sui criteri e valori che definiscono il suo universo professionale: sullo stile latino o greco dei suoi personaggi, sull’ambiente sociale in cui si muovono, su quanto a lungo sia durata la scrittura delle Confessioni. Ma i filosofi farebbero bene a leggerlo, per vedere come astratte argomentazioni possano acquisire straordinario vigore emotivo nel percorso tormentato di un’anima in cerca della verità.
Robin Lane Fox, Augustine: Conversions to Confessions , Basic Books, New York, pagg. 658, $ 35