Il Sole Domenica 22.5.16
Renzo De Felice (1929 1996) / 2
Il misticismo dei giacobini
di Francesco Perfetti
L’immagine
di Renzo De Felice studioso del giacobinismo italiano è sopraffatta
dalla notorietà dello studioso dell’Italia fascista. Tuttavia, fino alla
metà degli anni Sessanta, gli interessi storiografici di De Felice
ruotarono attorno alla breve stagione rivoluzionaria dell’Italia
napoleonica e post-napoleonica. Ciò fu dovuto alla frequentazione con
Delio Cantimori, uno storico con grande sensibilità per la filosofia, il
pensiero politico, la storia religiosa, la storia della cultura.
Nacquero, così, i saggi dedicati agli ebrei nella Repubblica Romana del
1798-99, a figure dell’evangelismo rivoluzionario, agli aspetti
socio-economici della realtà romana e laziale nel periodo
rivoluzionario, oltre al volume Note e ricerche sugli “Illuminati” e il
misticismo rivoluzionario (1960). Emersero subito, da questi scritti,
sia la capacità di De Felice di analizzare i fatti riconducendoli
nell’alveo del «concreto sviluppo storico» sia la sua tendenza a
rifiutare qualsiasi tipo di vulgata storiografica.
Al dibattito
sul giacobinismo De Felice offrì un contributo notevole attraverso
lavori, che suggerivano l’importanza dell’approccio biografico e
dell’analisi dell’opinione pubblica e della stampa periodica. In
particolare, suscitò interesse la sua definizione del giacobinismo. Per
De Felice il giacobinismo fu, sul piano politico, un movimento
repubblicano democratico che si tradusse, sul piano sociale, in un
egualitarismo che postulava la redistribuzione della proprietà privata,
mentre, sul piano religioso, creò nuove forme di culto e, sul piano
psicologico, rivelò una sensibilità intessuta di attese escatologiche
sulla capacità rigeneratrice della rivoluzione. Walter Maturi commentò
icasticamente la tipologia dello studioso osservando che se qualcuno si
fosse permesso di chiamare giacobino un tizio che non avesse avuto quei
quattro connotati, sarebbe stato «fulminato ipso facto» da un De Felice
«intransigente come un domenicano».
La polemica accompagnò sempre
la pubblicazione degli studi di De Felice. All’inizio degli anni
Sessanta non fu risparmiata da critiche una sua antologia del
giornalismo giacobino italiano (I giornali giacobini), che richiamò
l’attenzione sul ruolo politico e di rinnovamento sociale della stampa
giacobina e fece emergere temi che avevano agitato il mondo giacobino:
libertà di stampa e diritto di «censura pubblica», rapporti con i
francesi, diffidenza delle masse, difficoltà di formare uno «spirito
pubblico» rivoluzionario e via dicendo. Dagli studi di De Felice – come
dimostrò anche il volume antologico Giacobini italiani, curato insieme a
Cantimori – emergevano le varie anime di un movimento ideologicamente
variegato e composito.
La pubblicazione, nel 1965, di Italia
giacobina costituì, se non l’ultima, una delle ultime incursioni
defeliciane sul terreno dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica prima
del dirottamento di interessi verso il periodo fascista. Il volume
conteneva un suggestivo profilo della storia d’Italia in età
rivoluzionaria, risalendo fino al 1789, quando «nel cielo italiano»
avevano cominciato «a dardeggiare i primi raggi del sole della
Rivoluzione» senza attendere che con il 1796 la rivoluzione varcasse le
Alpi al seguito delle armate francesi: il periodo 1789-1796 appariva a
De Felice importante per individuare gli sviluppi che «i fiori italiani
erano portati ad avere prima che la mano del giardiniere francese li
selezionasse e li coltivasse secondo le esigenze del suo mercato». Gli
avvenimenti successivi al 1796, il cosiddetto «triennio rivoluzionario»,
venivano letti alla luce della politica francese. Il Direttorio non
aveva concepito la campagna d’Italia come «guerra di liberazione», ma
come operazione secondaria rispetto ad altri scacchieri, un mezzo per
appoggiare la campagna dell’armata del Reno, assicurarsi territori
utilizzabili come merce di scambio, rimpinguare le casse dell’erario,
sovvenzionare le altre armate e autofinanziare quella d’Italia. Invece,
Bonaparte aveva presentato la campagna come «guerra rivoluzionaria», ma
lo aveva fatto per facilitarsi le operazioni militari e impostare una
politica personale da imporre a Parigi. In conclusione, De Felice faceva
vedere come sia la politica del Direttorio sia quella di Bonaparte,
diverse nelle premesse, avessero finito, dal punto di vista italiano,
per risultare identiche, puntando entrambe a impadronirsi delle
ricchezze italiane e a impedire la creazione di governi popolari dotati
di prestigio e forza propri e capaci di opporsi alla politica di
sfruttamento economico della penisola o a scambi franco-austriaci o
franco-spagnoli di territori italiani. Il che spiegava perché le
amministrazioni provvisorie, le municipalità, i governi insediati dai
francesi o costituiti al seguito delle truppe francesi si fossero
rivelati «screditati e passivi strumenti» della politica francese.
Tuttavia, De Felice respingeva la condanna, basata sul canone
storiografico della «rivoluzione passiva», che presentava il triennio
giacobino come fase storica negativa ed effimera e sosteneva invece che
«il movimento rivoluzionario italiano fu un fenomeno, pur nelle sue
peculiarità locali e regionali, squisitamente unitario».
Gli
scritti di De Felice chiusero una fase della discussione sul
giacobinismo, ma, al tempo stesso, costituirono la premessa dei suoi
successivi studi sul fascismo. Egli, infatti, non avrebbe mai
tralasciato di sottolineare motivi riconducibili ai precedenti
interessi: la dimensione rivoluzionaria, per esempio, del movimento
fascista; la mentalità democratica e illuminista presente nell’idea
mussoliniana dello Stato educatore; la vocazione giacobina e totalitaria
del fascismo.