il manifesto Alias 22.5.16
Kierkegaard, voluttà e angoscia
Una
biografia interiore in forma di romanzo, costruita con estratti e
riassunti presi delle opere del filosofo danese, sostanze della sua
stessa vita: "L'uomo dell'istante" di Stig Dalager da Iperborea
di Fulvio Ferrari
È
una giornata d’autunno del 1855 quando il filosofo Søren Kierkegaard,
che ha allora solo quarantadue anni, si presenta al Fredrikshospital di
Copenaghen per farsi visitare, ma in realtà, non avendo ormai alcuna
speranza di guarigione, per essere assistito nei suoi ultimi giorni di
vita. Ha così inizio il romanzo biografico di Stig Dalager, L’uomo
dell’istante, uscito in Danimarca nel 2013, in occasione del
bicentenario della nascita dello scrittore-filosofo, e che appare ora in
Italia nell’accurata traduzione di Ingrid Basso per Iperborea (pp. 416,
euro 18.50).
Dalager non è nuovo al genere biografico: già nel
2004 ha infatti pubblicato Viaggio nell’azzurro, sulla vita di Hans
Christian Andersen, e nel 2012 La luce azzurra, su Marie Curie. Come nei
due romanzi precedenti, la narrazione prende le mosse dagli ultimi
giorni del protagonista, la cui memoria ricostruisce quindi il racconto
biografico in una serie di flash back che, pur seguendo in generale una
linea di sviluppo cronologico, permettono all’autore di concentrarsi su
momenti particolarmente significativi e intensi, capaci di manifestare
con particolare forza e problematicità le questioni che hanno dominato
la vita, il pensiero, le emozioni del personaggio.
La strategia di
ricostruire una vita in un succedersi di scene, episodi, monologhi
interiori e documenti storici si rivela particolarmente adeguata nel
caso di Kierkegaard: personaggio più di chiunque altro refrattario alla
sintesi con il suo pensiero manifestamente e consapevolmente
contraddittorio, con le sue scelte di vita almeno apparentemente
irragionevoli, apostolo dell’amore e della mitezza e polemista feroce,
che non ferma i suoi attacchi incalzanti nemmeno dopo la morte
dell’avversario.
L’operazione di Dalager è difficile e ambiziosa:
il romanzo si basa sui più recenti risultati della ricerca storica e
biografica e già nella Nota dell’Autore, in apertura del volume, Dalager
dichiara il proprio debito nei confronti del libro di Joakim Garff SAK –
Søren Aabye Kierkegaard. Una biografia, pubblicato in Danimarca nel
2000 e in Italia, da Castelvecchi, nel 2013. Le finalità di un romanzo
sono però assai diverse da quelle di uno studio scientifico e l’intento
dell’autore non è quello di dipanare in forma narrativa le vicende della
vita del filosofo, ma di esplorare l’intima connessione tra vissuto
interiore, vicende esteriori e pensiero. Una esplorazione indispensabile
per comprendere il lavorio emotivo e intellettuale di questo pensatore
nemico di ogni sistema, che impiegò tutta la propria esistenza a
indagare se stesso per comprendere tutti gli uomini e arrivare infine ad
accettare l’incomprensibilità di Dio e dell’esistenza, facendosi carico
della propria disperazione e tentando il «salto vertiginoso» nella
religione e nella fede.
In questo movimento di esplorazione
interiore il Kierkegaard descritto da Dalager assume punti di vista
differenti e incompatibili, sperimenta diverse concezioni del mondo,
frantuma il proprio io in una quantità di pseudonimi, ognuno dei quali
rappresenta una parte di lui, ma in assenza di una totalità, che sembra
formarsi solo nell’abdicazione di sé, nell’affidarsi all’assurdità della
religione: «Uno scrittore si nasconde dentro l’altro come in un gioco
di scatole cinesi, l’esistenza scricchiola nel pieno del gioco, è
manipolazione e isolamento, ma lui, Søren, dov’è?»
Quello che
Dalager, in quanto autore di un romanzo, può darci di più rispetto a una
biografia scientifica è la vivida – e angosciosa – descrizione della
lacerazione interiore di Kierkegaard, e di come questa lacerazione si
trasformi in scrittura. Due, principalmente, sono le figure con cui il
filosofo si misura per tutta la sua vita: il padre Michael e Regine
Olson, la giovane donna amata e temuta, conquistata e abbandonata.
Severo
e intransigente, il padre incombe sul giovane Søren come un’ombra
minacciosa, e tuttavia sarebbe semplicistico vederne solo l’aspetto cupo
e oppressivo. Dal padre, Kierkegaard impara a non accontentarsi della
superficialità, a non assolversi cercando rifugio nell’inconsapevolezza,
ma a scavare spietatamente in se stesso alla ricerca di una ragione di
vita, di una verità che giustifichi l’esistenza: «Ciò che conta è
trovare una verità che sia verità per me, trovare ciò per cui io voglio
vivere e morire». Impetuoso, tormentato e di fatto impossibile, il
rapporto con Regine è ben più di una (fallita) relazione amorosa, è
piuttosto un laboratorio psichico in cui Søren viviseziona la propria
anima, si confronta con i propri desideri, impulsi, terrori.
Che
di Regine sia innamorato non c’è dubbio, e la giovane donna assume ai
suoi occhi una funzione quasi salvifica: «Sai che la Chiesa cattolica
insegna che le preghiere di un uomo pio procurano conforto alle anime
del purgatorio», le scrive in una lettera riportata nel romanzo per
intero, «io so che è così, e ogni volta che menzioni il tuo amore smetto
di udire lo sferragliare di catene, e sono libero». Ma la presenza di
Regine non può dare pace al suo innamorato, troppo concentrato sulla sua
ricerca interiore per poter tenere aperto un dialogo costante con un
altro, vero e concreto essere umano.
Regine diventa così
l’incarnazione di tutto ciò che è desiderabile, ma anche di tutto ciò
che è negato a chi ha deciso di sacrificare se stesso sull’altare della
verità, di una verità che non riesce peraltro a emergere se non
nell’atto di negazione di ogni sforzo intellettuale e dialettico, vale a
dire nel «salto» nella religione. Ed ecco allora che il ruolo di
redenzione che Regine non può svolgere viene almeno in parte assunto
dalla scrittura: «Scrivere è un godimento e una liberazione dall’umor
nero, una vera e propria voluttà della penna che può nascondere anche
un’angoscia vertiginosa, qualcosa che allo stesso tempo apre
all’infinito e fa mancare la terra sotto i piedi».
La scrittura è
così espressione e sostanza della vita di Kierkegaard, i suoi libri sono
la sua biografia interiore, ognuno di essi è una nuova esperienza di
esplorazione di sé. Dalager, quindi, non può fare a meno di accompagnare
il racconto con riassunti e estratti delle sue opere, a costo di
correre il rischio di rendere la lettura più lenta e difficoltosa.
Questi riassunti e questi estratti, peraltro, non possono in alcun modo
essere utilizzati per spiegare o riassumere il pensiero del filosofo:
L’uomo dell’istante non è una «guida alla lettura» di Kierkegaard, ma
un’indagine del processo creativo in cui esperienza, sofferenza, dubbio e
volontà si mutano in pensiero, anzi, in pensieri tra loro in dialogo e,
spesso, in conflitto.
In questo senso la vicenda umana di
Kierkegaard diviene una vicenda esemplare, un caso estremo in cui
l’indissolubile groviglio delle relazioni tra vita esteriore e vita
interiore, tra ambiente e individuo, tra dimensione inconscia e
riflessione cosciente si rivela in tutta la sua complessità e, anche,
nella sua minacciosa instabilità. E nel lettore restano impresse
immagini che hanno la forza di simboli: le surreali cene che Søren
organizza con ospiti immaginari, ad esempio, cui fanno contrasto le
giornate passate giocando con i bambini, nipoti e figli dei vicini. E,
naturalmente, gli ultimi momenti del filosofo: il corpo sempre più
debole, la rassegnazione svagata, malinconica, e la dolce presenza
dell’infermiera Ilia Fibiger, quasi una riapparizione della donna
angelo, protettiva e irraggiungibile, che per tutta la vita aveva avuto
il volto di Regine Olsen.