domenica 15 maggio 2016

Il Sole Domenica 15.5.16
Occhio clinico
Per le diagnosi oggi si lavora in équipe
di Luigi Bolondi

Esiste ancora l’occhio clinico? O meglio, ha ancora senso oggi, nell’era delle grandi tecnologie diagnostiche e dei farmaci a bersaglio molecolare, parlare di occhio clinico? La locuzione “occhio clinico” è stata utilizzata in passato per connotare la capacità del medico di formulare la diagnosi attraverso il ragionamento basato sull’anamnesi e l’esame obiettivo. Presupposto dell’occhio clinico erano anche un certo atteggiamento paternalistico del medico e la totale mancanza di contraddittorio. Il medico era l’unico che sapeva e decideva che cosa fare per il bene del malato, a cominciare da ciò che questi doveva o non doveva sapere.
Negli ultimi 40 anni la medicina è radicalmente cambiata, forse di più che nei 20 secoli precedenti, e ci si domanda se certi luoghi comuni o certi stereotipi della medicina «di una volta», spesso rimpianta acriticamente, abbiano ancora senso.
Nell’immaginario e nel linguaggio popolare ancora oggi la locuzione «occhio clinico» rimane e rappresenta la capacità e la rapidità del medico di interpretare e, se possibile, di risolvere un problema di salute. È risaputo che tale capacità non sempre coincide con il patrimonio di conoscenze del terapeuta. Un medico semplicemente erudito non sempre è un buon clinico e in medicina, più che in altre discipline, il «saper fare» è qualcosa di profondamente diverso dal semplice «sapere». Ciò deriva dalla natura stessa di quello che tecnicamente si definisce «atto medico», qualcosa di unico nell’ambito delle varie professioni dell’uomo, e che consiste nel prendersi cura di una persona che soffre per i sintomi più svariati o anche solo manifesta preoccupazioni per la propria salute. Ciò implica innanzitutto l’individuazione della sostanza e dell’entità del problema, cioè l’interpretazione dei sintomi e della loro potenziale gravità, e quindi la ricerca delle possibili soluzioni, non necessariamente basate su farmaci o interventi chirurgici.
In altre parole l’atto medico prevede la formulazione della diagnosi e l’impostazione della terapia, con l’assunzione di tutte le responsabilità del caso. Cosa semplice a dirsi, ma difficile a farsi. Lasciamo da parte le dimensioni psicologiche del rapporto medico paziente, che già complicano la questione.
La varietà dei quadri clinici da interpretare e risolvere in medicina è pressoché infinita. Non passa giorno o settimana o mese in cui ogni medico non venga posto di fronte a quadri clinici apparentemente nuovi. Basti pensare che una ventina di sintomi variamente combinati possono portare a centinaia di diagnosi diverse. Inoltre, con il progredire delle conoscenze e delle tecnologie, la complessità dell’atto medico e delle scelte possibili si è enormemente accresciuta, e spesso non è più riconducibile a un solo attore, il singolo medico nel suo ambulatorio o nella corsia di ospedale. L’occhio clinico del singolo è sostituito e integrato dalla azione collegiale di una serie di specialisti, coinvolti a vari livelli nella gestione del caso e il cui contributo, a volte prevalente, necessita comunque sempre di un raccordo e di una contestualizzazione da parte di un medico referente, che mantiene la responsabilità finale della scelta diagnostica e terapeutica. L’approccio collegiale garantisce maggiori competenze ed è un antidoto alla autoreferenzialità, ma può contrastare con lo sviluppo della necessaria empatia col paziente e con la personalizzazione delle scelte terapeutiche.
In questo articolato processo decisionale giocano oggi un ruolo fondamentale le cosiddette «linee guida», a cui anche recenti disposizioni legislative fanno riferimento per definire genericamente la correttezza dell’atto medico nel suo complesso. In passato, fino agli anni ’50, le decisioni mediche erano basate su dogmi o esperienze trasmesse dai Maestri, su orientamenti di Scuola, su speculazioni teoriche, su osservazioni sporadiche. In seguito hanno cominciato a svilupparsi le scelte basate su deduzioni fisiopatologiche e sullo studio retrospettivo di ampie casistiche cliniche.
A partire dagli anni’80-’90 ha cominciato ad affermarsi la medicina basata sulle prove di efficacia (EBM, E vidence Based Medicine) e la conseguente costruzione delle “linee guida” da parte delle Società scientifiche. Le evidenze scientifiche sono dedotte solo da studi sperimentali prospettici, cioè condotti sulla base di un preciso disegno, costruito a priori per identificare determinati effetti di un intervento (diagnostico, terapeutico). Nonostante l’enorme massa di studi sperimentali condotti negli ultimi 20 anni in tutti i campi della medicina, rimangono molte aree grigie, dove le prove mancano del tutto o sono molto incerte. L’EBM è pertanto necessaria, ma non sufficiente per decisioni mediche appropriate..
Il concetto imprescindibile rimane pertanto quello che l’atto medico non è rivolto alla malattia, ma al malato, con la sua individualità singolare, inquadrato in una determinata patologia e tuttavia mai riconducibile totalmente e solamente ad essa. La generica etichetta diagnostica non può pertanto essere la sola a determinare le scelte diagnostiche e terapeutiche. La categorizzazione sempre più spinta delle linee guida per la gestione delle malattie, pur avvicinandosi all’individuo, non risolve il punto nodale della scelta personalizzata, particolarmente in campo terapeutico, dove le scelte possono variare anche in rapporto alle diverse aspettative.
L’esigenza di tempo e di disponibilità all’ascolto, indispensabili per le scelte personalizzate e correttamente informate, si scontra oggi con l’aumento esponenziale del numero di persone che hanno bisogno di medicina, con la medicalizzazione di tutta la società Iona Heath, che ha presieduto l’Ethical Committee del British Medical Journal nel suo libro Contro il mercato della salute, sostiene che la medicina oggi ha sostituito la religione come “oppio” dei popoli.
Esiste di fatto oggi una grande sproporzione fra le masse di sofferenti veri, ma spesso solo presunti o indotti da strategie di mercato, che ricorrono alla medicina e la necessità di fornire una medicina personalizzata. Forse un po’ semplicisticamente, ma in modo realistico, possiamo pensare, che nella complessità della odierna medicina tecnologica e superspecialistica, “occhio clinico” significhi anche comprendere i casi nei quali sono necessari tempi adeguati e opportuni approfondimenti per arrivare alla soluzione corretta per i problemi reali di quel determinato paziente, quella soluzione che cioè comporterà le maggiori soddisfazioni, ma anche i minori rimpianti in caso di esito non favorevole.