Il Sole Domenica 15.5.16
Che lingua quel Boccaccio!
di Lorenzo Tomasin
Si
intitola La lingua di Boccaccio, ma potrebbe ben intitolarsi Le lingue
di Boccaccio il volume che Paola Manni ha appena pubblicato dal Mulino,
ampliando e aggiornando un lavoro iniziato oltre un decennio fa per la
Storia della lingua italiana uscita dallo stesso editore sotto la
direzione di Francesco Bruni, e affiancandosi alla Lingua di Dante
stampata nel 2013.
Le lingue, sì, perché ad averci consegnato
l’immagine di Boccaccio autore di un’opera tanto canonica quanto
compatta nella sua esemplarità stilistica è una lettura limitativa e
impoverita. Rileggendolo con gli occhiali adeguati ne risaltano invece,
prepotentemente, la libertà, la varietà e quasi l’inquietudine della
lingua.
Boccaccio, si sa, è il primo grande autore della
letteratura italiana ad affermare orgogliosamente la fiorentinità
linguistica dei suoi scritti. Né il Dante fiorentino di città, né il
Petrarca figlio d’esule cresciuto altrove, avevano sentito il bisogno di
fare simili esplicite dichiarazioni. In effetti, sono stati spesso i
non fiorentini, nella nostra storia, a difendere col maggiore zelo il
primato e l’eccellenza di una lingua che non avrebbe bisogno d’alcun
laudatore.
Boccaccio è il figlio illegittimo d’un fiorentino del
contado (la sua famiglia era di Certaldo, e lui stesso si autodefiniva
certaldese) e sente la fiorentinità come un risarcimento simbolico di
nobiltà. Così, pur lasciandosi sfuggire persino nel Decameron varie
forme certaldesi forse inavvertite, che suonavano strane o arcaiche
dentro le mura di città, egli regala nel manoscritto autografo del
capolavoro (il codice Hamilton 90, oggi conservato a Berlino) un esempio
quasi perfetto del volgare fiorentino nel pieno Trecento. Un documento
anche linguisticamente inestimabile, di cui solo in anni recenti si è
potuta dimostrare l’appartenenza alla mano stessa dell’autore. E quindi
la possibilità di descrivere la sua lingua fin nei dettagli, fin nelle
minute scelte della grafia.
Volgare, sì. Fiorentino, o quasi. Ma
che cosa sarebbe il Boccaccio senza le lingue classiche? Il latino degli
antichi, e persino il greco – cui non riuscirà mai ad arrivare pur
cercando d’impossessarsene per una vita – lasciano tracce vivissime
negli scritti del giovane Boccaccio, che può dirsi umanista nel recupero
di un lessico prezioso attinto direttamente ai classici. Ne è un
esempio l’inquadratura toscana con cui si apre la Comedia delle Ninfe
fiorentine, così simile eppure così acerba rispetto ai paesaggi del
Decameron: «In Italia, delle mondane parti chiarezza speziale, siede
Etruria, di quella, sì com’io credo, principal membro e singular
bellezza; nella quale, ricca di città, piena di nobili popoli, ornata
d’infinite castella, dilettevole di graziose ville e di campi fruttiferi
copiosa, quasi nel suo mezzo e più felice parte del santo seno, inver
le stelle dalle sue pianure si leva un fruttuoso monte…».
È,
questa, una tonalità ben diversa da quella popolare ed espressiva con
cui Boccaccio si diletterà a mescolare l’aulico e il magniloquente nelle
mature novelle del libro da lui stesso «cognominato prencipe Galeotto»
(nel proemio e in chiusa). Il Decameron, appunto: nome
approssimativamente greco, e “cognome” che in quella forma prencipe (non
principe!) non è certo fiorentino. È forse francesizzante, ipotizza
Manni pensando all’«influsso del gallicismo prenze, prence». E che cosa
sarebbe in effetti il Boccaccio, senza le sue letture straniere, quelle
che si convenivano a un ottimo consumatore di letteratura profana e
cavalleresca, e che chiari segni lasciano ad esempio nel linguaggio di
molti amanti decameroniani?
Boccaccio è l’idolo e insieme il
sorvegliato speciale dei puristi cinquecenteschi, che nel momento stesso
in cui lo monumentano, si rivolgono piuttosto alla lingua polita e
monda della cornice (cioè delle introduzioni alle giornate) che a quella
delle novelle, spesso troppo variopinta per essere canonizzata.
Boccaccio è in effetti anche l’imprevedibile fondatore della nostra
letteratura dialettale in prosa: in troppi, fra i lettori amatoriali del
Decameron, continuano a ignorare che egli è anche l’autore di
un’epistola in napoletano, scritta probabilmente nel 1339 come scherzo
letterario, eppure così accurata nella riproduzione dei tratti
linguistici partenopei (ben noti al giovane mercante che a Napoli era di
casa) da potersi considerare uno dei testi più antichi e genuini di
quel dialetto.
È stato persuasivamente supposto che, nel processo
elaborativo dello stesso Decameron, Boccaccio ami potenziare gli
elementi linguistici devianti, i tratti espressivi, le macchie di color
locale : da quelle venete affidate alle novelle di Chichibìo e di Frate
Alberto («mo vedì vu?» «che sé quel? che sé quel?») a quelle siciliane
della novella di Salabaetto e Iancofiore («tu m’hai miso lo foco
all’arma, toscano acanino»). Per non parlare di quelle toscane senesi o
“contadine”, che gli erano familiari e su cui egli calca volutamente la
mano in pagine celeberrime come la descrizione di Madonna Belcolore,
«piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata e atta a meglio
saper macinar che alcuna altra». Da qualsiasi parte lo si prenda, questo
Boccaccio di cui prima o poi bisognerà stilare un vocabolario completo e
ragionato (il libro di Manni ne è l’indispensabile viatico), svaria in
direzioni nuove e diverse, insofferente per ogni riduzione o
semplificazione della sua inesauribile curiosità linguistica.
Paola Manni, La lingua di Boccaccio il Mulino, Bologna, pagg. 272, € 19